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Si può ottenere la condanna del vicino rumoroso al risarcimento del danno per l’intollerabilità delle immissioni sonore provenienti dalla sua proprietà anche senza una perizia che le verifichi, perché i mezzi di prova esperibili per accertare il livello di normale tollerabilità ex art. 844 c.c. non devono essere necessariamente di natura tecnica. Inoltre, l’assenza di un danno biologico documentato non preclude il risarcimento del danno non patrimoniale, qualora siano stati lesi il diritto al normale svolgimento della vita familiare all’interno della propria abitazione e alla libera e piena esplicazione delle proprie abitudini di vita quotidiane.

E’ una decisione particolarmente rilevante a tutela dei danneggiati da uno dei pregiudizi più frequenti, il disturbo delle quiete, quella assunta dalla Cassazione con l’ordinanza n. 21621/21 depositata il 28 luglio 2021.

 

Una famiglia chiede “la sordina” e i danni per il rumoroso pollaio dei vicini

Una famiglia aveva citato in causa i vicini per “mettere la sordina” alla “fattoria” che tenevano nella loro proprietà, in particolare dei chiassosissimi galli, e per chiedere di essere risarciti. Con sentenza del 2009, però, il Tribunale di Velletri aveva dichiarato cessata la materia del contendere in quanto nel frattempo i vicini avevano effettivamente rimosso gli animali, respingendo anche la richiesta risarcitoria.

I danneggiati tuttavia avevano impugnato la sentenza e la Corte d’appello di Roma, con sentenza del 2016, aveva accolto il loro appello condannando i vicini a risarcirli con cinquemila euro per ciascuno, oltre al pagamento delle spese mediche sostenute. I giudici avevano confermato la correttezza della declaratoria dì cessazione della materia del contendere quanto alla richiesta di eliminazione delle immissioni sonore, essendo già stati rimossi gli animali che cagionavano i rumori intollerabili, prendendo atto che proprio per questa ragione non era stato possibile esperire una consulenza tecnica per verificare il rispetto o meno dei limiti di tollerabilità delle immissioni.

 

I rilievi fotometrici non sono conditio sine qua non, ci si può basare  su altre fonti di prova

Ma la Corte ha richiamato la differenza che concerne i limiti di tollerabilità fissati da norme speciali e quelli, invece, necessari ai fini del rispetto della norma di cui all’art. 844 c.c. (la “normale tollerabilità”) ,che può essere violata anche nel caso in cui i primi siano rispettati. E ha aggiunto che si poteva giungere a una valutazione favorevole ai ricorrenti anche in assenza di rilevamenti fonometrici, in quanto sussistevano diversi altri elementi di giudizio che confortavano tale valutazione sul punto: in particolare, tutta una serie di diffide provenienti dal Comune e della Asl da cui emergeva inequivocabilmente la presenza “ingombrante” nel loro fondo di galli, galline, cani, tortore, ecc. Secondo i giudici, tali accertamenti, tenuto anche conto dell’ubicazione dei terreni, situati in una zona agricola, e quindi non interessati da intensa circolazione stradale o da altre sollecitazioni acustiche, consentivano di affermare che fosse stato superato il limite di tollerabilità. Ne derivava pertanto anche l’esistenza di un danno in re ipsa.

Quanto poi alle indagini svolte dal consulente d’ufficio in primo grado, la Corte d’Appello aveva evidenziato che in realtà era stato prospettato un nesso di causalità tra le patologie riscontrate e le immissioni sonore, ove queste fossero state effettivamente documentate come intollerabili; ne conseguiva pertanto che, essendo stata dimostrata tale caratteristica, il danno poteva essere riconosciuto, in via equitativa, ed avuto riguardo non già ad un pregiudizio in termini di invalidità permanente o inabilità temporanea, ma come pregiudizio alle abitudini di vita, si poteva liquidare nella somma di cinquemila euro per ciascuno dei tre componenti la famiglia che aveva intentato la causa.

I vicini hanno quindi proposto ricorso per cassazione sostenendo con forza, al contrario, che la verifica del superamento del limite di tollerabilità delle immissioni doveva presupporre un attento e scrupoloso accertamento peritale, una consulenza tecnica di ufficio, che però nella specie era mancato, ragion per cui la domanda di risarcimento era del tutto carente di prova non avendo parte istante insistito per l’ammissione di tale mezzo istruttorio. Inoltre, obiettavano che la documentazione di natura amministrativa, su cui si era basata la condanna, le diffide di Asl e Comune, era risalente nel tempo e si limitava solo ad attestare l’esistenza nel loro fondo di un pollaio, e ciò a seguito di sollecitazioni provenienti proprio dai loro vicini.

Per la Suprema Corte tuttavia i motivi sono inammissibili, in primis in quanto “mirano a contestare l’apprezzamento in fatto delle risultanze probatorie operato dal giudice di merito, aspirando ad un esito in fatto diverso, quasi a voler configurare il giudizio dì legittimità come una terza istanza di merito, omettendo di considerare la natura propria della valutazione riservata a questa Corte

I giudici di appello, sottolineano gli Ermellini, hanno giustamente richiamato il principio, anche di recente ribadito dalla stessa Corte di Cassazione, secondo cui “i parametri fissati dalle norme speciali a tutela dell’ambiente (dirette alla protezione di esigenze della collettività, di rilevanza pubblicistica), pur potendo essere considerati come criteri minimali inderogabili, al fine di stabilire l’intollerabilità delle emissioni che li superino, non sono sempre vincolanti per il giudice civile il quale, nei rapporti fra privati, può pervenire al giudizio di intollerabilità ex art. 844 c.c. delle dette emissioni anche qualora siano contenute nei summenzionati parametri, sulla scorta di un prudente apprezzamento che tenga conto della particolarità della situazione concreta e dei criteri fissati dalla norma civilistica”.  Ebbene, secondo i giudici del Palazzaccio la Corte d’Appello nella fattispecie ha proceduto a tale verifica “con accertamento connotato da logicità e coerenza, che, in quanto tale, costituisce accertamento di merito insindacabile in sede di legittimità”

 

I mezzi di prova della normale tollerabilità delle immissioni non devono essere per forza tecnici

La Cassazione conviene, come del resto recentemente affermato dalla stessa Suprema Corte in un caso relativo a rumori ed esalazioni provocati dall’attività di un’officina, che in tema di immissioni “i mezzi di prova esperibili per accertare il livello di normale tollerabilità ex art. 844 c.c. costituiscono tipicamente accertamenti di natura tecnica che, di regola, vengono compiuti mediante apposita consulenza d’ufficio con funzione “percipiente”, in quanto soltanto un esperto è in grado di accertare, per mezzo delle conoscenze e degli strumenti di cui dispone, l’intensità dei suoni o delle emissioni di vapori o gas, nonché il loro grado di sopportabilità per le persone”: accertamenti che, come si è detto, nel caso di specie non si erano potuti effettuare in quanto i vicini rumorosi, subito dopo la notifica dell’atto di citazione, avevano spontaneamente rimosso le cause del problema, ossia gli animali, rendendo pertanto impossibile effettuare qualsiasi indagine di natura tecnica mancano l’oggetto da “periziare”.

Ma gli Ermellini ricordano anche il “diverso principio” affermato sempre dalla Suprema Corte secondo cui, in tema dì immissioni (nella specie, dei rumori provocati dallo svolgimento di attività sportive), “i mezzi di prova esperibili per accertare il livello di normale tollerabilità previsto dall’art. 844 cod. civ. non debbono essere necessariamente di natura tecnica, non venendo in rilievo l’osservanza dei limiti prescritti dalle leggi speciali (in particolare la legge n. 477 del 1995 sul cosiddetto inquinamento acustico) la cui finalità è quella di garantire la tutela di interessi collettivi e non di disciplinare i rapporti di vicinato, e ciò tanto più nell’ipotesi in cui – trattandosi di emissioni rumorose discontinue e spontanee – le stesse difficilmente sarebbero riproducibili e verificabili su un piano sperimentale”.

E aggiungono che “il pur apprezzabile comportamento dei convenuti, che a fronte della domanda attorea hanno inteso far cessare la condotta che era causa delle immissioni sonore, non può però altresì pregiudicare il diritto degli attori a conseguire un ristoro per il pregiudizio, nella specie di carattere non patrimoniale, determinato dall’illegittima condotta protrattasi per un considerevole numero di anni.

Opinare diversamente, e precludere al giudice, nell’ambito del potere allo stesso riservato di apprezzamento delle emergenze probatorie, di riconoscere il carattere della intollerabilità, anche avvalendosi di mezzi di prova diversi dalla consulenza tecnica d’ufficio, equivarrebbe ad attribuire alla condotta unilaterale del danneggiante la possibilità di vanificare il diritto al risarcimento del danno, impregiudicata in ogni caso la necessità che dalle prove offerte emerga l’effettiva dimostrazione dei caratteri delle immissioni tali da generare il diritto al risarcimento del danno”.

 

Corretto anche il risarcimento riconosciuto per il danno non patrimoniale

La Suprema Corte ha rigettato anche la censura che riguardava i criteri adottati per la quantificazione del danno, richiamando in primis il principio secondo cui “l’accertamento del superamento della soglia di normale tollerabilità dì cui all’art. 844 c.c. comporta, nella liquidazione del danno da immissioni, l’esclusione di qualsiasi criterio di contemperamento di interessi contrastanti e di priorità dell’uso poiché, venendo in considerazione, in tale ipotesi, unicamente l’illiceità del fatto generatore del danno arrecato a terzi, si rientra nello schema dell’azione generale di risarcimento danni ex art. 2043 c.c. e specificamente, per quanto concerne il danno non patrimoniale risarcibile, in quello dell’art. 2059 c.c”.

Ma i Giudici del Palazzaccio hanno ricordato soprattutto che “il danno non patrimoniale conseguente ad immissioni illecite è risarcibile indipendentemente dalla sussistenza di un danno biologico documentato quando sia riferibile alla lesione del diritto al normale svolgimento della vita familiare all’interno della propria abitazione e del diritto alla libera e piena esplicazione delle proprie abitudini di vita quotidiane, trattandosi di diritti costituzionalmente garantiti, la cui tutela è ulteriormente rafforzata dall’art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, norma alla quale il giudice interno è tenuto ad uniformarsi a seguito della cd. “comunitarizzazione” della Cedu”.

D’altro canto, prosegue la Cassazione, anche le Sezioni Unite, nella sentenza n. 2611/2017, “hanno affermato che “l’assenza di un danno biologico documentato non osta al risarcimento del danno non patrimoniale conseguente ad immissioni illecite, allorché siano stati lesi il diritto al normale svolgimento della vita familiare all’interno della propria abitazione ed il diritto alla libera e piena esplicazione delle proprie abitudini di vita quotidiane, quali diritti costituzionalmente garantiti, nonché tutelati dall’art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, la prova del cui pregiudizio può essere fornita anche con presunzioni”.

Nello specifico, quindi, anche in questo caso secondo la Suprema Corte ben hanno giudicato i giudici territoriali i quali, una volta escluso che le immissioni avessero determinato delle conseguenze incidenti direttamente sull’integrità psico fisica degli attori, “hanno però comunque riscontrato la compromissione delle abitudini di vita quotidiana, per effetto delle medesime immissioni, liquidando il danno in via equitativa, in una somma di pari importo per ognuno degli attori, senza che ciò implichi un’omessa valutazione delle peculiarità del singolo danneggiato, avuto riguardo al fatto che tutti gli attori occupavano per finalità abitative l’immobile sottoposto alle immissioni moleste”. Dunque ricorso rigettato e condanna al risarcimento (più a tutte le spese di giudizio) confermata.

Scritto da:

Dott. Nicola De Rossi

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Categoria:

Blog Danni Ambientali

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