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Chi rimedia una caduta causata dallo stato di dissesto di strade o marciapiedi deve provare il nesso causale tra l’infortunio e le condizioni di cattiva manutenzione dei luoghi “incriminati”, ma non gli può essere posto a carico l’onere della prova circa la imprevedibilità o la invisibilità dell’insidia: è l’Ente custode, per andare indenne da responsabilità, che dovrà dimostrare il caso fortuito e che la condotta della vittima è stata del tutto anomala ed eccezionale.

Con l’ordinanza n. 3041/22 depositata il primo febbraio 2022 la Cassazione, sesta sezione civile, riafferma un principio fondamentale a tutela del danneggiato che è bene “rinfrescare”, considerato il fatto che tanti giudici di merito continuiamo a non applicarlo correttamente, costringendo le parti lese a lunghi percorsi giudiziari.

Una donna cita per i danni di una caduta il proprietario del marciapiede disconnesso

E’ il caso di una donna che nel lontano 15 gennaio 2013, nove anni prima, a Monza, era rovinata a terra riportando diverse lesioni a causa della cattiva od omessa manutenzione del marciapiede dove stava camminando. Il pedone ha citato in causa, chiedendo i danni, il negozio di abbigliamento proprietario di quel marciapiede, ma sia in primo grado il tribunale cittadino sia in secondo la Corte d’appello di Milano, con sentenza del 2020, avevano rigettato la sua domanda, escludendo la responsabilità ex art. 2051 cod. civ.

La danneggiata ha quindi proposto ricorso per Cassazione, contestando in particolare la sentenza impugnata per aver appunto disatteso il principio secondo cui il soggetto che agisce ex art.2051 cod. civ. “è tenuto alla dimostrazione dell’evento dannoso e del suo rapporto di causalità con la res in custodia, ma non anche dell’imprevedibilità e non evitabilità dell’insidia”.

Motivo, questo, che la Suprema Corte ha accolto in pieno, con conseguente assorbimento degli altri. I giudici non hanno ritenuto fondata la doglianza circa la sussistenza del vizio di motivazione nel pronunciamento dei giudici di seconde cure, ma questo non basta “per rendere legittima la conclusione alla quale è pervenuta la Corte ambrosiana” spiegano gli Ermellini.

La violazione del precetto di cui all’art. 2697 cod. civ., censurabile per cassazione ai sensi dell’art. 360, comma i, n. 3), cod. prete. CiV. – premettono i giudici del Palazzaccio – è configurabile soltanto nell’ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella che ne era onerata secondo le regole di scomposizione delle fattispecie basate sulla differenza tra fatti costitutivi ed eccezioni”.

 

Non è il danneggiato a dover provare l’inevitabilità dell’insidia

Ed è appunto la circostanza avvenuta nello specifico. Nel rigettare la domanda risarcitoria sul presupposto dell’insussistenza dell’intrinseca pericolosità del dislivello tra una grata e l’asfalto, indicato dalla danneggiata come causa della caduta a terra, “non essendo astata provata l’imprevedibilità e invisibilità dell’insidia” per citarne le motivazioni, la sentenza impugnata “ha posto a carico della ricorrente, tenuta alla prova del solo nesso causale tra “res” ed evento dannoso, un onere che non le incombeva, non essendo chi agisce ex art. 2051 cod. civ. tenuto a fornire la prova dell’imprevedibilità e non evitabilità dell’insidia o del trabocchetto” proseguono gli Ermellini.

La condotta colposa della vittima non basta a configurare il caso fortuito e assolvere il custode

I quali, citando una serie di altre sentenze della Suprema Corte, sempre con riferimento ai danni ex art. 2051 cod. civ. originati da cadute dovute alla presenza di buche e disconnessioni sulla sede stradale, aggiungono anche che “non risulta predicabile la ricorrenza del caso fortuito a fronte del mero accertamento di una condotta colposa della vittima (la quale potrà invece assumere rilevanza, ai fini della riduzione o dell’esclusione del risarcimento, ai sensi dell’art. 1227, commi 1 o 2, cod. civ.), richiedendosi, per l’integrazione del fortuito, che detta condotta presenti anche caratteri di imprevedibilità ed eccezionalità tali da interrompere il nesso causale tra la cosa in custodia e il danno”.

Pertanto, conclude la Suprema Corte, una volta accertata una condotta negligente, distratta, imperita, imprudente, della vittima del danno da cose in custodia, “ciò comunque  non basta di per sé ad escludere la responsabilità del custode, essendo la stessa esclusa dal caso fortuito, ovvero da “un evento che praevidet non potest”.

La sentenza impugnata è stata pertanto cassata, con rinvio della causa alla Corte di Appello di Milano, in diversa composizione, per la decisione nel merito, “nel rispetto dei principi di diritto enunciati”.

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Categoria:

Responsabilità Civile

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