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La pratica sportiva, come il gioco del calcio, implica rischi per l’incolumità fisica che non derivano solo dall’attività fisica in sé, ma anche dalla struttura in cui questa si svolge.

Il responsabile della società che ha la disponibilità degli impianti, pertanto, è gravato da una posizione di garanzia rispetto all’integrità degli atleti, e deve adottare tutte le cautele, anche dal punto di vista “strutturale”, per impedire il superamento dei limiti di rischio connaturati alla normale pratica della disciplina.

A specificare bene questi concetti la Cassazione, con la sentenza n. 5124/22 depositata il 14 febbraio 2022, con la quale ha definitivamente condannato il presidente di un club calcistico per un brutto infortunio occorso a un bambino tesserato.

Bambino travolto dalla caduta di una porta da calcio, condannato il presidente del club

Il Giudice di pace di Piacenza aveva ritenuto responsabili alcuni dirigenti di un’associazione sportiva del reato di lesioni colpose personali gravi in concorso per aver causato pesanti traumi, con colpa consistita in imprudenza, negligenza ed imperizia, a un bambino che frequentava la scuola calcio del club e che era stato travolto da una porta del campo di calcetto. Il minore, che era stato accompagnato dalla madre per partecipare all’allenamento, essendo giunto in anticipo, insieme ad altri compagni era entrato nel campo di gioco e qui, in assenza dell’allenatore, aggrappandosi ad una delle porte in metallo, non ancorata al suolo, ne aveva causato la caduta, rimanendo seriamente ferito: aveva riportato un trauma facciale e la frattura delle ossa nasali. La condanna in primo grado aveva riguardato il presidente della società, il direttore generale, il direttore tecnico e un allenatore.

Con sentenza del 2021, il tribunale di Piacenza, quale giudice d’appello, in parziale riforma del pronunciamento di primo grado, aveva confermato la condanna del presidente, mandando assolti gli altri tre dirigenti. Il presidente, rimasto così l’unico “colpevole” , ha dunque proposto ricorso per Cassazione, lamentando il fatto che la Corte d’appello, avesse confermato la sua sola condanna e assolto i coimputati sulla base della “mera” verifica della sussistenza del fatto e della qualifica che egli rivestiva, fondando la decisione sulla sua responsabilità oggettiva, benché egli non solo non fosse presente al momento del fatto, ma avesse nominato ad hoc un dg e un ds e avesse fatto svolgere l’attività di istruttore a soggetti appositamente formati, fra i quali vi era l’allenatore del bambino infortunatosi.

 

Il massimo dirigente del club asserisce di aver adottato ogni cautela

Il numero uno del club ha altresì sottolineato il fatto che aveva predisposto una procedura di accesso al campo di gioco e adottato specifici dispositivi di prevenzione, i cosiddetti ferma-porta, che consentivano l’ancoraggio a terra delle porte interne al campo. In particolare, non solo non era consentito ai piccoli atleti di entrare in campo, prima dell’allenamento, essendo previsto che i genitori consegnassero i bambini all’allenatore, ma era apposto al cancello un divieto di ingresso ai soggetti non autorizzati: per autorizzare l’ingresso al campo era necessario che i genitori si relazionassero con l’allenatore.  Inoltre, sempre rendendo conto della tesi difensiva del presidente, la porta, pur non essendo fissa, in quanto doveva potersi spostare nei diversi campi da gioco, era piccola e dotata di fermi mobili, che, secondo le istruzioni, dovevano essere assicurati al suolo per iniziare il gioco.

E scarica le responsabilità sui dirigenti che aveva nominato e sulla mamma del piccolo

Infine, a suo dire né la sentenza di primo grado, né quella di seconde cure avrebbero chiarito quale fosse la regola cautelare che egli aveva violato o l’alternativo comportamento lecito che avrebbe evitato l’infortunio, con la conseguenza che questo gli veniva addebitato (solo) a titolo di responsabilità oggettiva.

In conclusione, il ricorrente ha sostenuto con forza il fatto che non gli si poteva muovere alcun addebito, in quanto, come detto, non era presente al momento del sinistro, aveva predisposto tutte le necessarie cautele e procedure, nominando i responsabili, e inoltre la madre del minore avrebbe contravvenuto alla regola consentendo al bambino di accedere al campo prima dell’inizio dell’allenamento, senza controllo, e senza attendere l’autorizzazione dell’allenatore, a cui il piccolo doveva essere consegnato, e senza avvertirlo.

 

La posizione di garanzia del responsabile della società

Ma la Cassazione ha rigettato tutte le doglianze, ribadendo che secondo la costante giurisprudenza di legittimità, “il responsabile di una società sportiva, che ha la disponibilità di impianti ed attrezzature per l’esercizio delle attività e discipline sportive, è titolare di una posizione di garanzia, ai sensi dell’art. 40, comma secondo, cod. pen., ed è tenuto, anche per il disposto di cui all’art. 2051 cod. civ., a garantire l’incolumità fisica degli utenti e ad adottare quelle cautele idonee ad impedire il superamento dei limiti di rischio connaturati alla normale pratica sportiva, con la conseguente affermazione del nesso di causalità tra l’omessa adozione di dette cautele e l’evento lesivo occorso ad un utente dell’impianto sportivo”.

Di conseguenza, proseguono gli Ermellini, “l’omessa adozione di accorgimenti e cautele idonei al suddetto scopo, in presenza dei quali l’incidente non si sarebbe verificato od avrebbe cagionato pregiudizio meno grave per l’incolumità fisica dell’utente, costituisce violazione di un obbligo di protezione gravante su tale soggetto”.

E dato che il gioco del calcio implica rischi per l’incolumità fisica dei giocatori anche derivanti dalla struttura in cui l’attività sportiva si svolge, “il titolare o responsabile dell’impianto è investito della posizione di garante nei confronti di coloro che la esercitano, ed è tenuto ad impedire il verificarsi di eventi lesivi per coloro che praticano lo sport, previa utilizzazione dell’impianto e delle connesse attrezzature”.

 

Decisiva la constatazione che la porta caduta non fosse ancorata al terreno

Fatte queste doverose premesse, ed entrando nel caso specifico, la Suprema Corte evidenzia come lo stesso imputato non metta in discussione la sussistenza della sua posizione di garanzia, nella sua qualità di responsabile dell’associazione, ma sollevi la questione della sussistenza stessa della condotta colposa, affermando che non sarebbe stata individuata la condotta cautelare che egli avrebbe violato, avendo egli adottato tutte le cautele rivolte ad evitare un sinistro del tipo di quello verificatosi in sua assenza e comunque in un orario precedente l’inizio dell’allenamento.

Ma questa censura – spiegano i giudici del Palazzaccio – parte da un presupposto presupposto che non appare inverato dalle sentenze di merito, ovverosia che le porte fossero effettivamente dotate di un fermo, utile ad ancorarle al suolo. Ma dalla sentenza impugnata e da quella di primo grado è emerso che la porta su cui si è infortunato il minore non era ancorata, come invece prescritto dall’art. 36 del regolamento del settore per l’attività giovanile, dall’art. 49 del regolamento della Lega nazionale dilettanti e dall’art. 2 dello Statuto, ma non è risultato, o quantomeno non è riportato dalle decisioni, che le porte fossero munite del fermo. E anzi, la sentenza impugnata afferma che non erano state predisposte cautele per fissare temporaneamente l’attrezzatura”.

A fronte di questa pacifica constatazione, va a concludere la Cassazione, “non può sostenersi che manchi un profilo di rimproverabilità della condotta, né è stata allegata al ricorso la prova da cui si ricaverebbe che la struttura era dotata dei fermi regolamentari”. E a fronte della sussistenza della condotta colposa, non vi è alcun dubbio che “l’evento debba addebitarsi al dirigente dell’associazione che doveva adempiere all’obbligo di adottare una tutela specificamente prevista rivolta ad evitare il ribaltamento della porta, che ha cagionato l’evento lesivo”.

Non rileva a questo punto valutare il rilievo degli ulteriori accorgimenti predisposti dal ricorrente e inerenti ai divieti di accesso prima dell’allenamento, o all’obbligo di affidare i bambini all’allenatore, “posto che la condotta consistita nel non dotare le porte del sistema di ancoramento è causa diretta del sinistro. Né, d’altra parte, assume valore interruttivo del nesso di causalità il comportamento tenuto dalla madre del bambino che non affidò il piccolo all’allenatore, consentendogli di entrare sul campo di gioco, non sorvegliandolo, perché intenta a fare una telefonata, e ciò perché se il suo comportamento può configurare tutt’al più una concausa (peraltro non riconosciuta come tale ai giudici di merito, stante la prassi che consentiva di fatto l’ingresso prima dell’allenamento), ma certamente non elide il valore causale della condotta dell’imputato, senza la quale l’evento non si sarebbe verificato”.

Dunque, ricordo respinto e condanna del presidente confermata.

Scritto da:

Dott. Nicola De Rossi

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Categoria:

Responsabilità Civile

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