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Quando l’azione fallosa, il colpo “proibito” nello sport diventa anche “penalmente” rilevante, quando l’illecito sportivo diviene anche “illecito civile” per il quale la vittima può essere risarcita dal responsabile del danno? Su questa complessa e sentita tematica, considerate le migliaia e migliaia di infortuni di gioco che si verificano ogni anno, risultano particolarmente preziose due recenti decisioni soprattutto la seconda, della Cassazione.

Calciatore condannato in appello a risarcire un avversario colpito da una “entrataccia”

La prima vicenda affrontata dalla Suprema Corte, precisamente dalla sesta sezione civile, con l’ordinanza n. 3959/23 depositata il 9 febbraio 2023, riguarda un infortunio calcistico. In questo caso la Corte d’appello di Perugia, con sentenza del 2022, peraltro in totale riforma della decisione di primo grado e in accoglimento dell’appello incidentale proposto dal danneggiato, aveva condannato un calciatore a risarcire un avversario dei danni che gli aveva causato con una “entrataccia”, un tackle in scivolata.

La Corte territoriale, dopo aver preliminarmente richiamato l’insegnamento della giurisprudenza di legittimità secondo cui, ai fini della valutazione della responsabilità dei protagonisti dell’attività sportiva, occorre procedere a un attento esame del contesto ambientale nel quale l’attività si svolge in concreto, onde rilevare il grado di violenza o di irruenza compatibile con il rischio cosiddetto “consentito”, aveva ritenuto che, nel caso di specie, l’azione di gioco di cui il calciatore si era reso responsabile era stata caratterizzata dal ricorso ad una “irruenza sproporzionata al contesto di una partita amichevole tra squadre dilettanti”.

Il giocatore condannato aveva allora proposto ricorso per Cassazione contro la sentenza sostenendo che la Corte territoriale avrebbe erroneamente affermato la sua responsabilità civile sulla scorta della considerazione secondo cui l’azione di tackle in scivolata non consentirebbe, per citare la sentenza, “né di fermare l’intervento intrapreso, né di dirigerlo con precisione”, incorrendo, in tal modo, in un richiamo del tutto errato e distorto della nozione di fatto notorio.

Per la Suprema Corte, tuttavia, si tratta di un motivo di doglianza manifestamente infondato: i giudici di merito, ad avviso degli Ermellini, hanno legittimamente desunto il nesso causale tra l’azione calcistica intrapresa dal calciatore e l’evento di danno, “sulla scorta di considerazioni correttamente fondate su massime e regole agevolmente riscontrabili nella comune e quotidiana esperienza, a tale ambito potendo ragionevolmente ricondursi il riconoscimento che l’esecuzione di un’azione calcistica di tackle in scivolata (vieppiù se posta in essere con quella specifica carica di irruenza e di violenza che ebbe a contraddistinguerla nel caso di specie) non consenta né di fermare l’intervento intrapreso, né di dirigerlo con precisione”.

 

Irruenza dell’azione in “tackle” sproporzionata al contesto amichevole della partita

Ma i giudici del Palazzaccio hanno rigettato anche l’ulteriore motivo di censura con cui il giocatore lamentava che nella sentenza impugnata sarebbe stata fornita una motivazione meramente apparente in relazione al contesto sportivo in cui si sarebbe svolta l’azione, il quale, come si è detto, sarebbe stato caratterizzato da “un agonismo ed ardore sportivo ben maggiori rispetto a ciò che il semplice termine “amichevole” potrebbe far supporre”, per citare il testo.

Il giudice di merito  – evidenzia la Cassazione – ha motivato la sussistenza della responsabilità civile, aderendo alla giurisprudenza di questa Corte, sulla scorta della sproporzione tra la violenta forza dell’azione sportiva ed il contesto di gioco nel caso concreto, affermando che si trattasse di “una partita amichevole tra squadre dilettanti”; dalla lettura della motivazione della sentenza impugnata, nella parte in cui analizza il criterio giurisprudenziale della proporzione con il concreto contesto di gioco, la corte territoriale distingue tra un’azione praticata in un contesto professionistico ed uno amichevole, rendendo in tal modo evidente che tale ultima espressione si riferisca non ad un giudizio sull’agonismo o sull’ardore sportivo, ma ad un rilievo sull’assenza di professionalità nell’esercizio della pratica sportiva”. In questo caso quindi il ricorso è stato rigettato ed è stata confermata la responsabilità (anche) civile con relativa condanna al risarcimento del giocatore troppo “irruente”.

 

Allievo di arti marziali cita un “collega” per un “colpo basso” che gli ha rotto un testicolo

Altro scenario e altro epilogo, invece, sulla vicenda giudicata dalla terza sezione civile della Suprema Corte con la sentenza n. 4707/23 depositata il 15 febbraio 2023. In questo caso lo sport in questione è quello più “di contatto” delle arti marziali. Un allievo aveva citato in causa avanti il tribunale di Trieste un altro allievo e la società sportiva dilettantistica che teneva i corsi a causa di un brutto infortunio occorsogli nel 2013 durante una lezione di allenamento nel corso la quale si era svolta anche un’attività di sparring (ossia combattimento leggero con lieve contatto a coppie) tra i vari partecipanti.

“Calcio” connaturato alla disciplina in questione anche se proibito dalle regole

In tale attività il malcapitato, impegnato appunto con un altro allievo, aveva subito un forte calcio ai genitali che gli aveva cagionato la rottura traumatica del testicolo sinistro, per una invalidità permanente accertata dal consulente tecnico d’ufficio nominato dal giudice nella misura del 7 per cento. Il tribunale, tuttavia, aveva rigettato la domanda e lo stesso aveva fatto, con sentenza del 2020, la Corte d’appello di Trieste.

I giudici territoriali in premessa avevano ricordato che, secondo la giurisprudenza di legittimità, i falli commessi durante lo svolgimento di un’attività sportiva godono della copertura della relativa “scriminante”, se ed in quanto frutto di condotte colpose e funzionali al gioco. E avevano poi osservato che l’arte marziale in questione, denominata “Mixed Martials Arts”, esigeva il “contatto fisico più completo che esistesse” ed era, fra tutte le arti marziali, quella più efficace per la difesa personale, tanto da essere raccomandata per l’allenamento delle forze di polizia e dei militari.

Questo, dunque, aveva inevitabilmente comportato che il calcio inferto al danneggiato, essendo connaturato a questa disciplina sportiva, sia pure per fini non agonistici, aveva costituito comunque un fallo in necessario collegamento funzionale con il modello sportivo di riferimento. In conclusione, poiché quest’arte marziale è una disciplina comunemente volta ad “abbattere e placcare fisicamente l’avversario”, attraverso l’uso di pugni e calci, la condotta dell’allievo citato in causa, aveva sì integrato un “illecito sportivo”, per avere “offeso i genitali dell’avversario”, ed era stata caratterizzata da violenza, ma di grado non incompatibile con le caratteristiche altrettanto violente della disciplina, e pertanto non poteva dare luogo al risarcimento civile.

L’allievo leso, a questo punto, ha proposto ricorso per Cassazione sostenendo in primis che quanto aveva affermato il giudice di merito non poteva valere nel caso di sport cosiddetti a “violenza necessaria o di combattimento” perché altrimenti si sarebbe giunti alla soluzione aberrante secondo cui la lesione sarebbe sempre discriminata perché l’atto sportivo sarebbe sempre in collegamento funzionale con il gioco, salvo situazioni limite. Secondo il ricorrente, siccome negli sport da combattimento e/o arti marziali l’aggressione dell’avversario è parte integrante della stessa attività sportiva agonistica, la scriminante del “rischio consentito” dovrebbe operare solo ove vengano rispettate le regole del gioco, senza l’uso di colpi proibiti, rammentando che dal regolamento della disciplina vengono definite azioni illegali i colpi, fra l’altro, al triangolo genitale. Inoltre, egli osservava che la violenza usata non era stata necessaria o funzionale all’atto sportivo in quanto si trattava di attività di sparring in allenamento, priva quindi di ogni funzione agonistica, e che la gravità della colpa discendeva anche dall’intensità della forza utilizzata, tale da cagionare la lesione nonostante la protezione della conchiglia.

Ma il motivo è infondato per la sesta sezione, che con l’occasione approfondisce il complesso argomento prendendo avvio dalle affermazioni della giurisprudenza penale, che è quella che più diffusamente ha trattato il tema del rapporto fra illecito sportivo ed illecito giuridicamente rilevante (nella specie penale). “Nella valutazione della colpa sportiva centrale è l’analisi della situazione di fatto in rapporto al contesto e allo sviluppo dinamico dell’azione sportiva lesivaspiegano gli Ermellini – Il fatto accertato dal giudice del merito, mancando un giudizio di contegno intenzionale, è nei termini della involontaria inosservanza della regola sportiva nel contesto di una attività non agonistica, ma di allenamento, in relazione a disciplina sportiva caratterizzata da assai elevato contatto fisico. Nella pratica sportiva in generale, come affermato dalla giurisprudenza civile, il ricorso alla violenza, nel caso di violazione della regola, si traduce in illecito civile se è tale da non essere compatibile con le caratteristiche proprie del gioco nel contesto nel quale esso si svolge”.

 

L’azione violenta compatibile con caratteristiche del gioco e contesto non è un illecito civile

Ma nel caso in cui ricorra questa compatibilità, proseguono i giudici del Palazzaccio, “l’illecito sportivo non ha natura di illecito civile perché l’evento di danno trova giustificazione nel riconoscimento che l’ordinamento giuridico compie dell’attività sportiva, confinando nell’ambito dell’ordinamento sportivo la rilevanza dell’illecito di origine sportiva. Discende da ciò che l’illecito civile ricorre quando la fattispecie eccede la qualificazione di illecito meramente sportivo per l’emersione di una sproporzione della violenza adoperata rispetto alle caratteristiche del gioco ed allo specifico contesto”. E la Cassazione chiarisce anche a cosa attiene questo quid pluris richiesto, cioè “sia alle modalità del fatto, sia al requisito soggettivo, rilevante non solo sotto il profilo del dolo, ma anche della colpa, la quale acquista, alla stregua di colpa generica, la consistenza di regola cautelare di prudenza e diligenza, non riducibile quindi alla mera inosservanza della regola sportiva prevista dal regolamento della federazione in questione”.

Per esserlo, la violazione della regola deve “eccedere” e non essere funzionale allo scopo sportivo

L’illecito civile – puntualizza ulteriormente la Cassazione – non è desumibile dall’entità delle lesioni ma dalla evidenziata eccedenza dell’illecito civile rispetto all’illecito sportivo. Caratteristica di questa eccedenza è la rottura del confinamento dell’illecito nei margini della pratica sportiva perché l’azione si presenta come non funzionale allo scopo sportivo o comunque non compatibile con quest’ultimo. Dal punto di vista strutturale la specie di colpa qui rilevante è omogenea all’eccesso colposo nelle scriminanti disciplinato dall’art. 55 del codice penale. Nella commissione del fatto lesivo, corrispondente a trasgressione di regola sportiva e tuttavia suscettibile di essere scriminato dal punto di vista della responsabilità civile in quanto attività sportiva, si è ecceduto, per negligenza e/o imprudenza, dai limiti della scriminante. Non di violazione della colpa specifica si è dunque trattato, perché la mera violazione della regola sportiva resta sul piano dell’illecito sportivo, ma di colpa generica perché, per il mancato rispetto di diligenza e prudenza, è stato oltrepassato il limite della causa di giustificazione in grado di scriminare la condotta che ha cagionato la lesione. La natura di disciplina sportiva “a violenza necessaria” non muta il quadro dei principi illustrati, perché anche in questo ambito non è predicabile la coincidenza mera di illecito sportivo ed illecito civile”.

 

Il caso degli sport per loro natura “violenti”: infierire su un pugile al tappeto è illecito civile

La Suprema Corte assicura quindi che anche nel campo di uno sport caratterizzato da un contatto fisico assai elevato si pone la questione di un uso della violenza sproporzionato rispetto alla violenza postulata dalla disciplina sportiva e tale da renderla estranea allo scopo sportivo. E fa l’esempio dei “colpi vietati”, sotto la cintola o sulla nuca, nel pugilato: “se tali colpi sono inferti nel corso dell’incontro fra i due contendenti nel pieno dell’attività agonistica è sicuramente consumato l’illecito sportivo – chiarisce la Cassazione -, ma non può dirsi che si verifichi automaticamente l’illecito civile”; se però quei colpi sono inferti, sempre sull’onda dell’aggressività indotta dall’agonismo, “con il contendente già al tappeto, emerge la configurabilità dell’illecito non solo sportivo, ma anche civile, per la non funzionalità dell’aggressione allo scopo sportivo”, essendo il contendente, per l’appunto, già al tappetto.

La presenza dell’illecito civile dipende quindi, anche in questa tipologia di attività sportiva, da un “esercizio sproporzionato della violenza, in violazione del parametro della diligenza e prudenza, avuto riguardo alle caratteristiche della disciplina ed al particolare contesto in cui si è svolta la specifica pratica sportiva”.

A pesare il contesto, se gara o allenamento, il divario tra i contendenti e il tipo di colpo

La valutazione, pertanto non può dunque essere svolta in astratto. Gli Ermellini, proprio con riferimento ad una disciplina di combattimento per eccellenza quale il karate, enumerano poi una pluralità di circostanze che la giurisprudenza penale ha considerato rilevanti ai fini dell’illecito civile, tali da giustificare l’adozione di una regola di prudenza: il fatto che si trattasse di un allenamento, che come tale richiede meno ardore agonistico e la cautela per evitare non necessari pregiudizi fisici all’avversario; la maggiore prudenza e cautela imposta dalla diversa esperienza e capacità dei combattenti, posto che il danneggiante era cintura nera e il danneggiato cintura bianca; la circostanza che, nel caso analizzato, il colpo inferto era quello del “calcio circolare”, uno dei colpi più semplici e perciò di regola facilmente controllabile; la mancanza dei consueti mezzi di protezione che si utilizzano nelle competizioni agonistiche. Alla luce di questo complesso quadro di circostanze, nella sentenza n. 2765/2000 la Cassazione aveva concluso che non era giustificato dall’esercizio dell’attività sportiva il comportamento dell’atleta, integrando così quest’ultimo il reato di lesioni personali colpose.

Tuttavia, prosegue la Suprema Corte entrando nel merito della decisione, l’unica circostanza di quelle vagliate nella sentenza sopra citata a riferimento che ricorre anche nel caso di specie è quella dell’assenza del fine agonistico per il compimento dell’azione nel contesto di un allenamento. Ma “l’allenamento in pratica sportiva caratterizzata dal contatto fisico non può essere apprezzato alla stessa stregua dell’allenamento in pratica dal contatto eventuale (come può essere il calcio, ndr)” osservano gli Ermellini. In quest’ultima infatti la ricorrenza dell’allenamento “dovrebbe” ridurre l’agonismo e le sue diverse sfaccettature (energia, aggressività, velocità, istintività di reazioni), rendendo il contatto violento tendenzialmente meno giustificato.

 

Negli sport di contatto anche l’allenamento è connotato dall’uso della forza

Ma nello sport da combattimento, continuano i giudici del Palazzaccio, “anche l’allenamento, benché mancante del profilo agonistico, è connotato dal contatto fisico e dall’uso della forza, per cui la soglia di tolleranza della violenza resta più elevata rispetto all’allenamento di uno sport a violenza soltanto eventuale e nel quale la componente dell’impatto fisico dovrebbe trovare maggiore giustificazione nelle modalità agonistiche, estranee all’allenamento”.

Pertanto, alla luce di questa considerazione, secondo la Suprema Corte, il mero dato che si trattasse di un allenamento, in mancanza di altre circostanze qualificanti, “non può deporre nel senso del carattere sproporzionato dell’uso della violenza nel singolo episodio. L’assenza dell’ardore agonistico, mancando altri profili caratterizzanti, non rende privo di giustificazione l’episodio di mera violazione della regola del gioco che non sia connotato da caratteristiche ulteriori rispetto al mero fatto dell’allenamento. Diversamente, si giungerebbe alla conclusione che ogni volta che un illecito sportivo si sia verificato in allenamento per sport da combattimento dovrebbe ritenersi automaticamente, per il sol fatto della ricorrenza dell’allenamento, l’esistenza dell’illecito civile. Vero è che l’assenza di ardore agonistico rende più esposto l’illecito sportivo commesso in allenamento, rispetto a quello commesso nell’evento agonistico, alla responsabilità civile, ma devono essere presenti ulteriori circostanze ai fini dell’integrazione dell’eccesso colposo”, quali, ribadisce la Cassazione, la sproporzione nel livello di abilità fra i due atleti e la natura elementare, e dunque di facile controllabilità, della manovra atletica fonte della lesione.

Nella circostanza, prima di rigettare anche gli altri motivi di doglianza e con esso il ricorso mandando “assolto” l’avversario, la Suprema Corte enuncia anche questo rilevante principio di diritto: “nello sport caratterizzato dal contatto fisico e dall’uso di una quota di violenza la violazione nel corso di attività di allenamento di una regola del regolamento sportivo non costituisce di per sé illecito civile in mancanza di altre circostanze rilevanti ai fini del carattere ingiustificato dell’azione dell’atleta“.

Scritto da:

Dott. Nicola De Rossi

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Categoria:

Responsabilità Civile

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