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Il gestore di un bar è tenuto non solo a limitare il rumore della musica ma anche gli schiamazzi degli avventori, viceversa deve comunque rispondere del reato di disturbo della quiete pubblica.

Vale la pena di soffermarsi sulla sentenza n. 39344/21 depositata dalla Cassazione il 3 novembre 2021, innanzitutto perché la Suprema Corte si occupa di uno dei più tipici motivi di contenzioso, quello appunto del superamento dei limiti acustici prodotto dai locali pubblici.

 

Titolare di un bar condannata per disturbo della quiete pubblica

A ricorrere per Cassazione è stata la titolare di un pubblico esercizio di Agrigento che il tribunale cittadino, con sentenza del 2019, aveva condannato a un’ammenda (con il riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche) per il reato di cui all’art. 659, comma 1, cod. pen. (disturbo della quiete pubblica) in quanto abusava di strumenti sonori recando disturbo al riposo delle persone: violazioni accertate nel 2016.

L’imputata lamentava innanzitutto il fatto di essere stata citata in giudizio per rispondere del reato di cui all’imputazione esclusivamente per l’abuso di strumenti sonori, mentre la condanna era intervenuta anche per il cosiddetto rumore antropico (proveniente cioè dai clienti del locale) e per la sua mancata attivazione per impedire gli schiamazzi dei suoi avventori: un fatto a suo dire diverso mai contestato, e quindi la condanna sarebbe avvenuta in violazione dei diritti della difesa, senza contestazione.

Inoltre, la titolare del bar eccepiva anche sulla motivazione per l’accertamento della responsabilità. Gli accertamenti (scarsi a suo dire) di Polizia giudiziaria non avrebbero consentito di isolare ed individuare il rumore antropico imputabile all’attività del suo locale: il tecnico dell’Arpa aveva infatti evidenziato l’impossibilità di distinguere chiaramente il rumore ambientale proveniente genericamente dalla strada da quello imputabile alle attività. In aggiunta, accanto al suo locale vi era anche una paninoteca aperta e, nella vicina piazza, erano ubicate diverse altre attività, pure queste aperte di sera, d’estate.

Ancora, secondo la ricorrente non sarebbe stata fornita la prova, gravante sulla pubblica accusa, della verifica della taratura del fonometro utilizzato per i rilievi, “una manutenzione essenziale per la funzionalità ottimale dello strumento”, e in ogni caso la responsabilità doveva essere addebitata non a lei, in quanto (solo) legale rappresentante della società, ma al preposto risultante dalla visura camerale, al quale spettava il controllo della regolarità delle attività del ristorante spettava e che pertanto doveva ritenersi l’unico responsabile delle violazioni.

Infine, la totale mancanza di “nocività” e di allarme sociale dell’evento contestato avrebbero reso applicabile la particolare tenuità del fatto: il Tribunale, infatti, ricordava la titolare del pubblico esercizio a supporto della sua tesi difensiva, aveva riconosciuto le circostanze attenuanti generiche applicando una pena mite (solo duecento euro di ammenda).

Per la Suprema Corte, tuttavia, il ricorso è inammissibile “per manifesta infondatezza dei motivi, e per genericità, e inoltre richiede alla Cassazione una rivalutazione del fatto non consentita” spiegano gli Ermellini, e chiariscono. “La condanna anche per il  rumore antropico, oltre al fatto letteralmente contestato (abuso di strumenti sonori), non determina la violazione dell’art. 521 cod. proc. pen., poiché l’evoluzione del fatto era uno dei possibili epiloghi decisori del giudizio, secondo uno sviluppo interpretativo assolutamente prevedibile, e, comunque, l’imputata ed il suo difensore hanno avuto nella fase di merito la possibilità di interloquire in ordine alla estensione dell’elemento di colpa”. I giudici del Palazzaccio rammentano anche che “nei procedimenti per reati colposi, la sostituzione o l’aggiunta di un particolare profilo di colpa, sia pure specifica, al profilo di colpa originariamente contestato, non vale a realizzare diversità o immutazione del fatto ai fini dell’obbligo di contestazione suppletiva di cui all’art. 516 cod. proc. pen. e dell’eventuale ravvisabilità, in carenza di valida contestazione, del difetto di correlazione tra imputazione e sentenza ai sensi dell’art. 521 stesso codice”.

 

E’ onere del titolare di un pubblico esercizio impedire che i clienti facciano troppo rumore

Ma ciò che più preme, è la parte in cui la sentenza della Suprema Corte spiega perché è “manifestamente infondato in fatto e generico il motivo sulla responsabilità”. Secondo gli Ermellini, intatti, la pronuncia impugnata motivava adeguatamente sulla responsabilità della ricorrente per i rumori provenienti dal suo locale sia da strumenti sonori e sia dagli avventori. “La sentenza analizza il superamento dei limiti di tollerabilità del rumore, desunto sia dall’esposto presentato da alcuni cittadini e sia dagli accertamenti in loco effettuati dalla P.G. la sera del 31 luglio 2016, all’interno di un appartamento situato sopra il locale della ricorrente – spiega la Cassazione – La decisione rileva anche come per la panineria, i rumori fossero irrilevanti, come riferito dal teste di P.G”.

Ma soprattutto, aggiunge la Suprema Corte, relativamente al rumore degli avventori, “era onere della ricorrente impedire gli schiamazzi che si verificavano, unitamente alla musica utilizzata dal locale per intrattenere i clienti”: qui i giudici del Palazzaccio citano anche un’altra sentenza della Cassazione, la n. 14750/20, nella quale si statuisce che “risponde del reato di disturbo delle occupazioni e del riposo delle persone il gestore di un pubblico esercizio che non impedisca i continui schiamazzi provocati dagli avventori in sosta davanti al locale anche nelle ore notturne, essendogli imposto l’obbligo giuridico di controllare, anche con ricorso allo ius excludendi o all’Autorità, che la frequenza del locale da parte degli utenti non sfoci in condotte contrastanti con le norme poste a tutela dell’ordine e della tranquillità pubblica”.

 

Niente particolare tenuità del fatto perché la condotta danneggia una pluralità di persone

Rigettate anche le altre doglianze, compresa l’ultima sulla particolare tenuità del fatto. “La sentenza impugnata con motivazione adeguata esclude la particolare tenuità del fatto – conclude la Cassazione -, in quanto sussiste una particolare estensione degli effetti della condotta, per la sua attitudine ad attingere una pluralità indeterminata di persone.

Inoltre, non vi è contraddizione tra il diniego della causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto e il riconoscimento delle attenuanti generiche, atteso che i parametri di valutazione previsti dall’art. 131-bis, comma primo, cod. pen. hanno natura e struttura oggettive – pena edittale, modalità e particolare tenuità della condotta, esiguità del danno -, mentre quelli da valutare ai fini della concessione delle circostanze attenuanti generiche sono prevalentemente collegati ai profili soggettivi del reo”.

Dunque, condanna confermata.

Scritto da:

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Dott. Nicola De Rossi

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Categoria:

Danni Ambientali

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