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Una recente ordinanza di rinvio della Cassazione alla Corte Ue (causa C-129/19) ha riacceso i riflettori sulla trasposizione nella legislazione italiana della direttiva 2004/80/CE sull’indennizzo dello Stato alle vittime di reati intenzionali violenti.

Un atto legislativo europeo di altissima civiltà giuridica che prevede due principali obblighi per gli Stati membri.

Il primo è l’istituzione di “un sistema di indennizzo delle vittime di reati intenzionali violenti commessi nei rispettivi territori, che garantisca un indennizzo equo ed adeguato delle vittime” (articolo 12, paragrafo 2).

Il secondo (articoli 1-11) consiste nel facilitare, con apposite procedure di cooperazione fra le amministrazioni competenti, l’accesso a tale sistema da parte delle vittime residenti in altri Stati membri che si trovano temporaneamente nello Stato membro in cui è stato commesso il reato.

 

Italia in vergognoso ritardo, indennizzi irrisori

La direttiva andava recepita entro il primo luglio 2005, ma ci sono voluti ben 11 anni e due sentenze della Corte Ue per arrivare alla fine di un iter tormentato, con la legge 122/2016 (poi modificata in parte dalla 167/2017 e dalla legge 145/2018).

Ora in Italia c’è un sistema (molto) generalizzato di indennizzo per le vittime di tutti i reati dolosi commessi con violenza alla persona e non solo per mafia e terrorismo.

La determinazione dell’indennizzo è stata rimessa dall’articolo 11, comma 3, della legge 122/2016 a un Dm Interno-Giustizia, approvato il 31 agosto 2017: 7.200 euro in caso di omicidio, 4.800 per violenza sessuale e per gli altri reati un massimo di 3mila euro.

Praticamente nulla.

La Cassazione ha posto alla Corte Ue due importanti quesiti. Con il primo, partendo dalla constatazione che la direttiva garantisce l’accesso all’indennizzo solo a vittime residenti in altri Stati membri, si chiede se si può estendere il novero dei beneficiari della direttiva alle vittime residenti in Italia in virtù del principio di non discriminazione sulla base della nazionalità (articolo 18 del Trattato Ue).

Il secondo – cruciale – riguarda l’interpretazione dell’articolo 12 della direttiva sull’adeguatezza dell’importo fisso di 4.800 euro, se sia cioè da considerare “indennizzo equo e adeguato» in base a tale articolo  una cifra fissa e così bassa per i reati di violenza sessuale (e lo stesso vale per gli altri).

 

Il risarcimento per la violenza sessuale deve essere “effettivo”

A parte l’indignazione, vi sono solide motivazioni giuridiche per ritenere che nei confronti di una donna vittima di violenza sessuale l’indennizzo a carico dello Stato debba essere ben superiore a 4.800 euro.

In primo luogo, le leggi speciali sugli indennizzi alle vittime di terrorismo e criminalità organizzata prevedono importi fino a 200mila euro o, nei casi di violenza per manifestazioni sportive, l’intero ammontare del danno subìto.

In secondo luogo, un importo fisso non consente di tener conto dei criteri in uso nei tribunali civili per valutare il danno nei singoli casi, quali la gravità della violenza, la giovane età della vittima e le conseguenze psicologiche del trauma.

In terzo luogo, la Corte Ue ha già affermato in una sua precedente sentenza (C-168/15, punto 38) che le norme nazionali sulla responsabilità dello Stato devono garantire il carattere «effettivo» del risarcimento del danno.

Qualunque sia il contenuto della futura sentenza della Corte Ue, vi è quindi da sperare che la causa pregiudiziale C-129/19 induca il Governo a rivalutare l’importo dell’indennizzo, di questo così come di quello in caso di omicidio.

Oggi, rileva la Cassazione nell’ordinanza di rinvio, è «nell’area dell’irrisorio».

Scritto da:

Dott. Nicola De Rossi

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