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Il movente della gelosia non è idoneo a fondare l’aggravante dei futili motivi: quest’ultima sussiste nell’ipotesi in cui la determinazione criminosa sia stata indotta da uno stimolo esterno di tale banalità e sproporzione, rispetto alla gravità del fatto di reato, da apparire, secondo il comune modo di sentire, assolutamente insufficiente a provocare l’azione criminosa.

Fa discutere la recente sentenza n. 49129/2018 in cui la Corte di Cassazione ha stabilito questo principio pronunciandosi sul ricorso di un uomo condannato a cinque anni di reclusione per il tentato omicidio, aggravato dai motivi futili, di un rivale in amore che egli aveva ripetutamente colpito con un coltello. Nel dettaglio, un’accesa discussione tra i due in un bar era degenerata in scontro fisico poiché l’imputato aveva scoperto che la vittima era l’amante di sua moglie.

Ricorrendo in Cassazione, l’imputato ha obiettato che il giudice di seconde cure, nel formulare la condanna, avrebbe dovuto escludere l’aggravante dei futili motivi ex art. 61, n. 1, del codice penale che, secondo la giurisprudenza di legittimità, non può “riferirsi ai sentimenti di affetto o di amore propri di ogni essere umano“.

La difesa dell’imputato, che non aveva precedenti penali a suo carico, ha sottolineato come questi avesse agito ispirato da sentimenti di affetto e di amore (?) coltivati nei confronti dei componenti del proprio nucleo familiare, di cui vedeva insidiate la stabilità del rapporto di coppia e le future prospettive di crescita della prole.

Una doglianza che gli Ermellini hanno ritenuto di accogliere. Per i giudici, la circostanza aggravante dei futili motivi sussiste ove la determinazione criminosa sia stata indotta da uno stimolo esterno di tale levità, banalità e sproporzione, rispetto alla gravità del reato, da apparire, secondo il comune modo di sentire, assolutamente insufficiente a provocare l’azione criminosa e da potersi considerare, più che una causa determinante dell’evento, un mero pretesto per lo sfogo di un impulso violento (cfr. Cass. n. 41052/2014).

Nel caso in esame, secondo la versione accreditata dalla Corte territoriale, a fondamento del litigio vi era stata la gelosia dell’imputato per la propria compagna e madre della propria figlia, di cui la vittima sarebbe stata l’amante.

La Corte non si è discostata dall’indirizzo giurisprudenziale consolidato, secondo cui non può configurare motivo abbietto o futile “la sola manifestazione per quanto parossistica e ingiustificabile di gelosia, che, collegata ad un sia pur abnorme desiderio di vita in comune, non è espressione di per sé di spirito punitivo nei confronti della vittima considerata come propria appartenenza, della quale pertanto non può tollerarsi l’insubordinazione“.

A tali principi non si era invece attenuta la sentenza impugnata che, pur valorizzando il movente della gelosia, aveva ravvisato la suddetta circostanza aggravante. La sentenza è stata quindi annullata senza rinvio sul punto in questione.

 

Scritto da:

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Dott. Nicola De Rossi

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