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La società di consulenza fiscale deve risarcire il danno per la cattiva assistenza prestata dal suo commercialista al cliente.

Con l’ordinanza n. 23947/2022, depositata il 2 agosto 2022, la Corte di Cassazione, sesta sezione civile, ha affrontato una questione quanto mai attuale e sentita, quella cioè degli errori commessi dai professionisti a cui cittadini e soprattutto imprese si affidano per espletare le spesso complesse procedure con il fisco, errori che possono tradursi in sanzioni pecuniarie anche molto pesanti.

Due aziende agricole chiedono i danni alla società di consulenza fiscale per gli errori commessi

Nello specifico, due aziende agricole e vitivinicole dell’Astigiano, facenti capo agli stessi soci, nel 2014 avevano citato in causa avanti il giudice di Pace di Asti la società commerciale che esercitava attività di consulenza fiscale a cui si erano rivolte per essere appunto seguite nelle relative pratiche. Nel 2010, infatti, l’amministrazione finanziaria, all’esito di attività ispettiva della Guardia di finanza, aveva contestato varie irregolarità fiscali alle due società in questione, da cui era scaturita l’emissione di sei avvisi di accertamento a carico delle due aziende e dei soci. 

Le quali avevano quindi intentato una causa sostenendo che le contestazioni erariali erano scaturite dalle improvvide scelte operative e dalla carente assistenza e consulenza prestate dalla società a cui si erano affidate, di cui avevano chiesto la condanna al risarcimento del danno, quantificato in circa 9.000 euro. 4. Il Giudice di pace con sentenza del 2017 aveva accolto la domanda, condannando la società di consulenza al pagamento in suo favore di 3.104,33 euro

Quest’ultima aveva appellato la sentenza avanti il Tribunale di Asti che, con sentenza del 25 novembre 2019 n. 988, aveva accolto parzialmente il gravame, riducendo il quantum debeatur alla minor somma di euro 1.563,09

La società di consulenza tuttavia non si è data per vinta e ha proposto ricorso anche per Cassazione, che però le ha dato torto su tutta la linea. Con i primi due motivi di doglianza la società ha cercato di sostenere la tesi che le responsabilità andavano ascritte (al massimo) al commercialista che aveva gestito le pratiche dei clienti e non alla società, tesi respinta con forza dagli Ermellini. Più precisamente, la ricorrente ha prospettato la nullità della sentenza per violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato. Il Tribunale aveva infatti accertato una imperita esecuzione della prestazione professionale da parte del dottore commercialista e aveva per l’effetto condannato la società di consulenza, senza che però le società che avevano chiesto danni ne avessero mai invocato la responsabilità per il fatto del commercialista. 

 

Legittimo condannare la società per il fatto di un collaboratore, peraltro l’amministratore

Per la Suprema Corte tuttavia il motivo è infondato. Nell’atto introduttivo del giudizio, infatti, le sue società danneggiate avevano chiesto la condanna della società dei consulenza per avere adempiuto in modo negligente le obbligazioni contrattualmente assunte di assistenza fiscale. Ed il Tribunale, per l’appunto, l’aveva condannata: dunque, spiega la Cassazione, “non vi fu nessuno iato fra domanda e condanna”. E, soprattutto, aggiunge: “la circostanza, poi, che la società convenuta sia stata condannata per il fatto di un proprio collaboratore, piuttosto che per il fatto proprio, non costituisce violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato, sia perché la condanna è comunque avvenuta per le condotte descritte nell’atto di citazione introduttivo del giudizio (assistenza e consulenza deficitarie), sia perché una società commerciale ovviamente, se arreca un danno ai propri clienti, non può che farlo per il tramite delle persone fisiche della cui opera si avvale”. 

Parimenti infondato, secondo gli Ermellini, il secondo motivo di ricorso collegato al primo, e con cui la ricorrente lamentava il fatto che era stata condannata al risarcimento del danno per fatti commessi dal suo commercialista che era però “solo” socio ed amministratore della società: il Tribunale non aveva mai accertato in punto di fatto se essa avesse conferito al suo amministratore l’incarico di eseguire le prestazioni professionali da cui poi era derivato il danno lamentato dai clienti. “Lo stabilire, infatti, se una determinata prestazione professionale sia resa dal professionista per conto proprio o su incarico di una società commerciale, così come lo stabilire se una società commerciale si avvalga o non si avvalga dell’opera di un determinato professionista sono altrettante questioni di fatto, riservate al giudice di merito ed insindacabile in sede di legittimità” obietta la Cassazione. 

 

Secondo la ricorrente le sanzioni erano dovute a infedeltà del contribuente

Con il terzo motivo invece la ricorrente entra nel merito della sentenza impugnata nella parte in cui aveva ritenuto sussistere un nesso di causa fra il danno lamentato dalle società clienti, rappresentato dalle sanzioni irrogate dall’amministrazione finanziaria, e la propria condotta. La società di consulenza ha sostenuto, contrariamente a quanto ritenuto invece dal giudice di merito, che non vi sarebbe stata alcuna consequenzialità fra l’imperizia ascrittale (erronea compilazione della dichiarazione dei redditi) e la sanzione: quest’ultima, infatti, sarebbe stata comminata per mancata dichiarazione del maggior reddito d’impresa, per il mancato versamento delle addizionali regionali e comunali, nonché dei contributi previdenziali. 

Ma anche questa censura è inammissibile secondo i giudici del Palazzaccio, che ricostruiscono il ragionamento (corretto) del Tribunale di Asti, il quale aveva concluso come il danno patito dalle aziende agricole in conseguenza dell’inadempimento del commercialista fosse pari alle sanzioni a irrogate dall’amministrazione finanziaria, rilevando come gli unici documenti a cui si poteva fare riferimento per la determinazione del quantum debeatur fossero per l’appunto i due avvisi di accertamento. Per la ricorrente, invece, quei due avvisi di accertamento avevano irrogato sanzioni per infedeltà del contribuente diverse da quelle scaturenti dall’opera del consulente fiscale. “Nel ricorso – proseguono i giudici del Palazzaccio – si chiede alla Cassazione di sindacare l’interpretazione di due documenti adottata dal Tribunale: dunque si domanda una valutazione riservata al giudice di merito ed insindacabile in sede di legittimità”. 

Ma la mancata emissione delle fatture è legata all’assetto societario consigliato dai consulenti

Ma poi la Suprema corte entra più addentro nell’ulteriore “sotto-motivo”, nel quale la ricorrente faceva notare come il Tribunale avesse ascritto a sua responsabilità l’irrogazione al contribuente, da parte dell’amministrazione finanziaria, di una sanzione per la mancata emissione delle fatture inerenti le operazioni commerciali intercorse fra le due società proprie assistite, sostenendo che il consulente fiscale non avrebbe alcun obbligo di “verificare la mancata emissione delle fatture”, obbligo che competerebbe esclusivamente agli organi di polizia tributaria. 

Obiezione, anche questa, giudicata “manifestamente infondata” dalla Cassazione, che richiama con forza i doveri in capo alle società di consulenza fiscale che espletano compiti cose rilevanti. Il giudice di  merito, fanno infatti notare gli Ermellini, aveva a accertato che le due e società agricole avevano per soci le stesse persone, che la seconda era stata costituita appositamente su consiglio della società di consulenza per gestire la transizione dell’impresa individuale esercitata dal titolare, mancato, ai suoi due nipoti e che, per effetto del tale meccanismo, una delle due società aveva venduto ai propri clienti merci prelevate dal magazzino dell’altra senza documentarne fiscalmente la provenienza: in sostanza, la prima società risultava avere venduto merci senza prima averle acquistate. 

In presenza di tali circostanze di fatto, sulle quali si è formato il giudicato interno, correttamente il giudice di merito ha ritenuto che era onere del soggetto cui era stata affidata l’attività di consulenza e assistenza fiscale avvedersi della irregolarità del suddetto assetto – sottolinea la Suprema Corte – . Qui, infatti, non ci troviamo dinanzi al caso di una società commerciale che svolga operazioni commerciali senza emettere fattura, e delle quali il consulente fiscale sia incolpevolmente ignaro, bensì al caso di una società commerciale che ha svolto operazioni commerciali senza emettere fattura in virtù e in esecuzione di un assetto dato all’attività d’impresa proprio su indicazione e consiglio del consulente fiscale, secondo quanto accertato dal Giudice di pace e confermato dal Tribunale”. 

Erra, dunque – prosegue la sentenza –  la società ricorrente là dove assume che non è obbligo del commercialista accertare se il cliente abbia assolto l’obbligo di fatturazione. È certo che non è obbligo del commercialista accertare se il cliente abbia assolto l’obbligo di fatturazione, ma non è men certo che è obbligo del commercialista preoccuparsi delle ricadute fiscali dei consigli dati al cliente circa la veste formale dietro la quale svolgere l’attività d’impresa”. 

Respinto, poi, anche quarto motivo di ricorso con cui la società ricorrente prospettava il vizio di omesso esame d’un fatto decisivo, ossia l’eccezione formulata in ordine all’insussistenza del nesso di causa fra il dedotto inadempimento e il danno. “Il vizio di “omessa pronuncia” è anch’esso insussistente – obietta la Cassazione – , dal momento che il Tribunale, accogliendo la domanda, ha per ciò solo dimostrato di ritenere esistente un valido nesso di causa fra la condotta della ricorrente e il danno”.

 

Non rileva ai fini della responsabilità, infine, che le sanzioni siano state o meno pagate 

Infine, la Suprema Corte analizza il quinto e ultimo motivo di doglianza, nel quale la ricorrente ha sostenuto che erroneamente il Tribunale avrebbe ritenuto sussistente un danno a carico del titolare della società sua cliente, nonostante questi, secondo la tesi difensiva, non avesse mai dimostrato di avere effettivamente versato all’erario le sanzioni irrogategli in conseguenza delle infedeltà fiscali derivate degli errori del proprio commercialista. E ha anche aggiunto una seconda censura, asserendo che i giudici territoriali avrebbero trascurato di valutare l’eccezione di concorso colposo del danneggiato: in buona sostanza, secondo la ricorrente, la società contribuenti avrebbero potuto evitare il pagamento delle sanzioni degli interessi se si fossero avvalsa della “definizione agevolata” del contenzioso tributario prevista dall’articolo 6 del decreto-legge 22 ottobre 2016 n. 193. 5.1. 

Anche in questo caso però secondo gli Ermellini le censure sono da rigettare. “Il “danno civile”, infatti – chiariscono i giudici del Palazzaccio – può essere rappresentato sia da una perdita pecuniaria, sia dall‘insorgenza d’un debito nel patrimonio del danneggiato, dal momento che è conforme ad una regola di normalità che i debiti siano pagati. La tesi sostenuta dalla società ricorrente, invece, introdurrebbe in materia di responsabilità civile una sorta di (inesistente) principio del solve et repete, in virtù del quale il danneggiato nessun risarcimento potrebbe pretendere, se non dimostrasse che il debito sorto in conseguenza del fatto illecito sia stato onorato. Ovviamente ben può accadere che il creditore del danneggiato possa perdere il proprio credito per prescrizione, rimessione, o qualsiasi altra causa estintiva, ma tale circostanza costituisce un fatto impeditivo della pretesa risarcitoria, che come tale va allegato e dimostrato da chi lo invoca”. 

Quanto poi al fatto che la società danneggiata non si sia avvalsa di un provvedimento normativo di condono, “questa – conclude la Cassazione – è una condotta che non causa il danno, ma aggrava quello già prodotto dal fatto illecito o dall’inadempimento. L’eccezione di aggravamento del danno di cui all’art. 1227, comma secondo, c.c., non è rilevabile d’ufficio, ma è riservata all’iniziativa di parte”. 

Nel caso di specie, peraltro, puntualizza la Suprema Corte, l’art. 6 d.l. 193/16, che aveva introdotto la “definizione agevolata” dei crediti vantati dall’erario, era entrata in vigore il giorno stesso della sua pubblicazione in Gazzetta Ufficiale, ovvero il 24 ottobre 2016, a fronte di una sentenza conclusiva del giuridico di primo grado depositata il 22 maggio 2017 : “trattandosi di eccezione non rilevabile d’ufficio, essa non poteva essere proposta per la prima volta in grado di appello e può concedersi che non era nemmeno concepibile al momento dell’introduzione del giudizio di primo grado (2015), giacché a quell’epoca il d.l. 193/16 era di là da venire. Tuttavia il suddetto provvedimento di condono venne comunque promulgato in pendenza del giudizio di primo grado, sicché non era impossibile per la la ricorrente – previa, occorrendo, istanza di rimessione in termini, ex art. 153 c.p.c. – sollevare l’eccezione di cui si discorre dinanzi al Giudice di pace. Sicché, in mancanza di qualsiasi indicazione al riguardo da parte della ricorrente, deve ritenersi che l’eccezione di cui si discorre sia stata sollevata per la prima volta in appello, e dunque tardivamente”.

Il ricorso è stato pertanto integralmente respinto e la somma stabilita per risarcire le società danneggiare è stata confermata. 

Scritto da:

Dott. Nicola De Rossi

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Categoria:

Contenziosi con Aziende

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