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In caso di violazione delle distanze di legge tra costruzioni, il danneggiato non ha (anche) l’onere di provare la sussistenza e l’entità concreta del pregiudizio patrimoniale subito al proprio diritto di proprietà, che è di norma presumibile e rappresenta un cosiddetto danno “in re ipsa”.

Con l’ordinanza n. 20048/22 depositata il 21 giugno 2022 la Cassazione ha affrontato uno dei motivi di contenzioso tipici tra vicini, ossia la prescrizione delle distanze di legge tra fabbricati.

Un cittadino cita un’impresa edile per aver eretto una nuova costruzione violando le distanze

Ad avviare la causa un cittadino residente in un comune del Veneziano che nel 2009 aveva citato in giudizio una locale impresa edile avanti il Tribunale di Venezia perché fosse appunto rilevata la violazione delle distanze di legge dal confine della nuova costruzione realizzata dalla ditta in ampliamento ed in sopraelevazione dalla stessa, ordinandone l’abbattimento e l’arretramento fino a 5 metri dal confine.

Inoltre, si chiedeva che fosse accertato che le aperture realizzate a confine consistevano in vedute e si domandava infine che la controparte fosse condannata al risarcimento dei danni patiti e futuri derivanti dalla compromissione del diritto di sua proprietà ed al risarcimento dei danni cagionati al suo immobile.

I giudici condannano la ditta ad arretrare l’edificio e a risarcire il confinante

Istruita la causa mediante l’espletamento di una consulenza tecnica d’ufficio e l’assunzione di prove testimoniali, con sentenza del 2015 il tribunale lagunare aveva accolto tutte le domande dichiarando acclarata la violazione della distanza legale dal confine con la proprietà del cittadino della nuova costruzione realizzata dalla ditta, ordinandone l’arretramento sino a rispettare la distanza di 5 metri dal confine tra le due proprietà e condannando la società a pagare al danneggiato la somma di 2.450 euro, oltre all’Iva, a titolo di risarcimento del danno (consistente in infiltrazioni e sollevamento di piastrelle) a causa dei lavori eseguiti, nonché l’ulteriore somma di 40mila euro, pari al danno subito per la violazione delle distanze legali sino alla pronuncia, oltre agli ulteriori danni maturati, pari a 500 mensili, sino all’effettivo arretramento del fabbricato e rivalutazione monetaria dalle singole mensilità sino al saldo.

L’impresa edile aveva appellato la sentenza chiedendone la riforma, ma con pronunciamento del 2017 la Corte dappello di Venezia aveva rigettato il gravame sulla base di tutta la serie di considerazioni. L’abbattimento del fabbricato al primo piano, operato dopo la pronuncia di primo grado, secondo i giudici costituiva semplice (sia pur parziale) acquiescenza alla stessa, e non determinava la cessazione della materia del contendere; quanto poi alle doglianze concernenti la volumetria e l’applicabilità delle norme del Piano Regolatore vigente in quel comune  la sopraelevazione eseguita con trabeazioni e muretti non avrebbe costituito un mero elemento decorativo, come sostenuto dall’appellante, ma integrato un nuovo volume edificato (essendo stati realizzati ben 68 metri quadrati) e, quindi, una nuova costruzione, la quale, come tale, era misurabile al fine della distanza legale.

Ancora, trattandosi di una nuova costruzione, dovevano applicarsi le norme sulle distanze vigenti al momento della sopraelevazione, con esclusione della prevenzione riferita alle costruzioni originarie e del diritto di costruire in aderenza ex art. 877 c.c., dovendo prevalere in tal caso il principio della priorità temporale; l’art. 47 del Piano Regolatore vigente, nella parte in cui prevedeva la distanza di cinque metri dal confine per le nuove costruzioni, era, dunque, prevalente rispetto alla prevenzione.

Inoltre, il proprietario confinante si era limitato ad autorizzare il direttore lavori ad installare le impalcature, e non certo a prestare il consenso alla sopraelevazione in violazione delle distanze, come sosteneva l’impresa edile. Infine, secondo la Corte territoriale il danno connesso alla edificazione non a distanza di legge era in re ipsa ed era quantificabile secondo equità dal giudice, non necessitando della prova: a tal fine doveva tenersi presente la indubbia diminuzione del godimento e del valore della proprietà del danneggiato a seguito del peso imposto al suo fondo. Infine, dalle prove testimoniali assunte era emerso che le infiltrazioni d’acqua e le lesioni del pavimento del confinante si erano verificate proprio in concomitanza con i lavori eseguiti dalla società edile, che come tale doveva risponderne.

L’impresa tuttavia non si è data per vinta e ha proposto anche ricorso per Cassazione con tutta una serie di motivi tecnici peraltro tutti rigettati. Quello che qui preme citare è il settimo con cui la ditta si doleva della violazione degli artt.2697, 1226 e 2056 c.c., in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3), c.p.c., per aver la corte d’appello erroneamente, a suo dire, ritenuto non necessaria la prova del danno, reputandola in re ipsa derivante dalla compressione del diritto domenicale e, in quanto tale, liquidabile in via equitativa.

 

La violazione delle distanze determina un danno in re ipsa che non occorre provare

Motivo ritenuto del tutto infondato da parte dei giudici del Palazzaccio che ricordano come “anche di recente questa Corte ha ribadito che la violazione della prescrizione sulle distanze tra le costruzioni, attesa la natura del bene giuridico leso, determina un danno in re ipsa, con la conseguenza che non incombe sul danneggiato l’onere di provare la sussistenza e l’entità concreta del pregiudizio patrimoniale subito al diritto di proprietà, dovendosi, di norma, presumere, sia pure iuris tantum, tale pregiudizio, fatta salva la possibilità per il preteso danneggiante di dimostrare che, per la peculiarità dei luoghi o dei modi della lesione, il danno debba, invece, essere escluso”.

In particolare, aggiunge la Suprema Corte, il danno che il proprietario confinante subisce (danno conseguenza e non danno evento) deve ritenersi in re ipsa, senza necessità di una specifica attività probatoria, essendo l’effetto, certo e indiscutibile, dell’abusiva imposizione di una servitù nel proprio fondo e, quindi, della limitazione del relativo godimento che si traduce in una diminuzione temporanea del valore della proprietà.

Avuto riguardo ai criteri di liquidazione in concreto applicati, il giudice di primo grado, dopo aver ritenuto eccessivi la stima operata dal Ctu e l’importo richiesto dal confinante, aveva applicato il parametro dell’1% del valore venale della porzione abusiva per ogni mese di sua permanenza, operando, infine, delle riduzioni con riferimento ai profili della “amenità” (l’immobile del vicino era un capannone ad uso commerciale di modesto pregio) e della “insolazione”  (essendo la parte di immobile in questione a confine con la nuova costruzione esposta a nord), e “nessuna critica ha mosso la ricorrente al criterio adottato e fatto proprio dalla corte territoriale” hanno concluso gli Ermellini, che hanno rigettato l’intero ricorso confermando la condanna statuita in appello all’impresa edile.

Scritto da:

Dott. Nicola De Rossi

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Categoria:

Contenziosi con Aziende

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