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La “compensatio lucri cum danno” è un principio del nostro ordinamento in base al quale, nel determinare l’ammontare del danno, occorre calcolare anche gli eventuali vantaggi che trovino origine nello stesso atto che l’ha prodotto. Un’emblematica applicazione di questo istituto, anche alla luce del recente chiarimento interpretativo delle Sezioni Unite della Cassazione, si ha nella sentenza n. 18050/19 della Suprema Corte, III Sezione civile, depositata il 5 luglio.

Gli Ermellini hanno chiarito che nel caso di un sinistro che provochi la perdita totale o parziale, temporanea o definitiva, della capacità lavorativa, la liquidazione integrale del danno patrimoniale deve essere decurtata in ragione di quanto eventualmente corrisposto dell’ente previdenziale essendo, le due prestazioni, dirette a compensare la lesione dello stesso bene della vita, ossia la capacità lavorativa, e come tali cumulabili. E il responsabile del danno resta esposto all’azione di recupero dell’ente previdenziale prevista per legge.

 

La causa per un incidente stradale

Il caso affrontato dalla Cassazione riguarda un incidente stradale successo addirittura 22 anni fa, nel luglio 1997 nel Trevigiano tra uno scooter e un’auto che aveva mancato la precedenza. Il centauro, che aveva riportato serie lesioni fisiche, aveva citato in giudizio presso il Tribunale di Treviso la conducente della vettura e la sua compagnia di assicurazione, Helvetia, per ottenere il giusto risarcimento.

Con atto depositato nel dicembre del 1999, era intervenuta volontariamente in causa l’Inps deducendo di aver corrisposto al danneggiato la somma di (allora) 21.904.963 di lire per indennità di malattia e pensione di invalidità, dal 26 luglio 1997 al 15 luglio 1998, di cui chiedeva il rimborso.

Il Tribunale, accertata l’esclusiva responsabilità dell’automobilista nella causazione del sinistro, aveva condannato la stessa e la sua compagnia in solido al pagamento, in favore del danneggiato, di 404.664,59 euro, detratta la somma (32.151,98 euro) riconosciuta a titolo di provvisionale, maggiorata degli interessi di legge, nonché al pagamento in favore dell’Inps dell’importo di 48.647,62, euro, con rivalutazione monetaria e interessi, dalla data di ogni esborso al saldo effettivo.

Helvetia Assicurazioni aveva impugnato la sentenza e la Corte d’appello, in parziale riforma, aveva rideterminato il danno patrimoniale da lucro cessante del danneggiato in 55.777,32, euro oltre accessori, disponendo che dall’importo sopra determinato fossero detratte le somme corrisposte dall’Inps, per complessivi 48.547,63 euro, attualizzate al maggio 2004.

Contro tale decisione il centauro ha proposto ricorso per Cassazione con un unico motivo e la Suprema Corte ha rinviato la causa a nuovo ruolo, in attesa per l’appunto che le Sezioni Unite – a cui era stata sottoposta questione di diritto analoga – si pronunciassero sulla problematica dei limiti dell’istituto della compensatio lucri cum damno.

 

Il lavoratore contesta la compensatio lucri cum damno

Dopo la pubblicazione della sentenza delle Sezioni Unite n. 12564 del 22 maggio 2018, la causa è stata quindi rimessa sul ruolo e si è arrivati alla decisione che si uniforma al pronunciamento delle S. U. Il ricorrente deduceva, quale unico motivo di ricorso, la violazione o falsa applicazione degli artt. 1223, 1226 e 2056 del codice civile.

In sostanza, egli si doleva della circostanza che la Corte d’appello avesse detratto dal danno patrimoniale da lucro cessante, al cui pagamento erano stati condannati l’automobilista e la sua assicurazione, la somma corrispostagli dall’ines a titolo di pensione di invalidità e indennità di malattia.

A suo dire, infatti, si sarebbe trattato di poste risarcitorie differenti, aventi finalità diverse, non compensabili con il danno patrimoniale accertato dal Tribunale e quindi cumulabili con lo stesso. Non ricorrerebbero, dunque, le condizioni per la compesatio lucri cum damno.

Ma secondo la Cassazione il motivo è infondato.

La questione di diritto sottoposta all’attenzione del Collegio è se, nella liquidazione del danno patrimoniale da lucro cessante – nella specie derivante dalla perdita della capacità lavorativa – debbano “portarsi a deconto” gli indennizzi erogati al danneggiato dall’ente previdenziale in ragione del sinistro. Si tratta di una questione giuridica oggettivamente dibattuta, tradizionalmente indicata come “compensatio lucri cum damno”, in ordine alla quale anche la Corte di cassazione è approdata a soluzioni contrastanti, parte delle quali richiamate in ricorso” si ammette nella sentenza che cita, tra gli aspetti più controversi, la portata e l’ambito di operatività della figura, soprattutto là dove il vantaggio acquisito al patrimonio del danneggiato in connessione con il fatto illecito derivi da un titolo diverso e vi siano due soggetti obbligati in base a fonti differenti.

È la situazione che si verifica – esemplificano i giudici del Palazzaccio – quando, accanto al rapporto tra il danneggiato e chi è chiamato a rispondere civilmente dell’evento dannoso, si profila un rapporto tra lo stesso danneggiato ed un soggetto diverso, a sua volta obbligato, per legge o per contratto, ad erogare al primo un beneficio collaterale”: ad esempio, l’assicurazione privata contro i danni, le prestazioni di assistenza sociale a tutela contro gli infortuni e le malattie professionali, gli indennizzi o speciali elargizioni che lo Stato corrisponde, per ragioni di solidarietà, a coloro che subiscono un danno in occasione di disastri o tragedie e alle vittime del terrorismo o della criminalità organizzata.

 

Deve essere garantita al terzo la facoltà di “surroga”

Il contrasto, com’è noto, è stato “finalmente” risolto con la citata sentenza delle Sezioni Unite n. 12564 del 22 maggio 2018.

La quale, in particolare, ha innanzitutto affermato che “non corrisponderebbe al principio di razionalità-equità, e non sarebbe coerente con la poliedricità delle funzioni della responsabilità civile, ritenere che la sottrazione del vantaggio sia consentita in tutte quelle vicende in cui l’elisione del danno con il beneficio pubblico o privato corrisposto al danneggiato a seguito del fatto illecito finisca per avvantaggiare esclusivamente il danneggiante, apparendo preferibile in tali evenienze favorire chi senza colpa ha subito l’illecito rispetto a chi colpevolmente lo ha causato”. Pertanto, secondo le Sezioni Unite è dirimente la circostanza che l’ordinamento preveda un meccanismo di surroga o di rivalsa a favore del “terzo”, nei confronti del danneggiante.

“Solo a queste condizioni, infatti – prosegue la sentenza – si evita che quanto erogato dal “terzo” al danneggiato si traduca in un vantaggio inaspettato per l’autore dell’illecito: la facoltà di surroga o di rivalsa assicura che il danneggiante, esposto all’azione di “recupero” da parte del terzo da cui il danneggiato ha ricevuto il beneficio collaterale, non potrà avvantaggiarsi della detrazione della posta positiva dal risarcimento”.

In buona sostanza, l’elemento decisivo è costituito dalla “indifferenza del risarcimento”, ossia dalla circostanza che, quale che sia il soggetto che corrisponderà il risarcimento al danneggiato, a sopportarne il costo finale sia comunque l’autore dell’illecito. “Se così non fosse – rileva la Cassazione -, se cioè il responsabile dell’illecito, attraverso il non-cumulo, potesse vedere alleggerita la propria posizione debitoria per il solo fatto che il danneggiato ha ricevuto, in connessione con l’evento dannoso, una provvidenza indennitaria grazie all’intervento del terzo, si finirebbe con l’avvantaggiare, senza merito specifico, chi si è comportato in modo negligente”.

 

Niente compensatio per la pensione di reversibilità e l’assicurazione sulla vita

Sulla base di queste premesse, poiché il caso sottoposto dall’ordinanza remittente alle Sezioni Unite riguardava la possibilità di applicare la compensatio lucri cum damno fra il risarcimento del danno patrimoniale patito dal familiare di persona deceduta per colpa altrui e la pensione di reversibilità accordata dall’ines al familiare superstite in conseguenza della morte del congiunto, le S. U. hanno concluso che, “trattandosi di una forma di tutela previdenziale connessa ad un peculiare fondamento solidaristico e non geneticamente connotata dalla finalità di rimuovere le conseguenze prodottesi nel patrimonio del danneggiato per effetto dell’illecito del terzo, la predetta “compensazione” non può aver luogo”.

Sulla base dello stesso percorso argomentativo, le Sezioni Unite hanno altresì chiarito che, nel caso di assicurazione sulla vita, l’indennità si cumula con il risarcimento, “perché si è di fronte ad una forma di risparmio posta in essere dall’assicurato sopportando l’onere dei premi, e l’indennità, vera e propria contropartita di quei premi, svolge una funzione diversa da quella risarcitoria ed è corrisposta per un interesse che non è quello di beneficiare il danneggiante”.

 

L’incapacità lavorativa temporanea

Altro discorso invece, come hanno chiarito le Sezioni Unite, nel caso in cui un impiegato resti assente dal lavoro a causa di un infortunio, continuando a percepire la retribuzione: “egli non ha diritto di chiedere al danneggiante anche il danno da incapacità temporanea, poiché in tale evenienza non si è prodotto un effettivo danno patrimoniale e pertanto non gli compete alcun risarcimento a questo titolo, a meno che il danneggiato non deduca di aver dovuto rinunciare a straordinari o trasferte o di avere subito pregiudizi nella carriera per la forzata assenza dal lavoro”.

Dunque, le Sezioni Unite – tira le fila del discorso la sentenza -, per delimitare l’ambito di applicazione della compensatio lucri cum damno, non fanno riferimento solamente al criterio dell’esistenza di un regime legale di surroga o rivalsa, che impedisca al danneggiante di avvantaggiarsi dell’indennizzo che il terzo ha corrisposto al danneggiato, ma anche quello della non omogeneità delle funzioni delle poste attive riscosse dal danneggiante”.

Il caso del ricorso in questione pone a confronto il danno patrimoniale da lucro cessante conseguente alla perdita della capacità lavorativa, da un lato, e l’indennità di malattia e la pensione di invalidità, dall’altro.

L’ipotesi – spiega la Suprema Corte – è diversa da quella della pensione di reversibilità, che ha costituito l’oggetto specifico della decisione delle Sezioni Unite e che costituisce una forma di tutela previdenziale volta a garantire la continuità del sostentamento ai superstiti e quindi non ha natura propriamente risarcitoria. La cumulabilità con il risarcimento del danno patrimoniale da perdita di congiunto dipende dalla eterogeneità delle finalità delle due voci (risarcimento del danno patrimoniale e pensione di reversibilità) e dall’inesistenza di sistemi di “recupero”, da parte dell’ente previdenziale, nei confronti del danneggiante di quanto verrà corrisposto al superstite”.

L’indennità di malattia e la pensione di invalidità corrisposte al lavoratore che, per effetto dell’infortunio cagionatogli da un terzo, abbia ridotto o perso la propria capacità lavorativa in modo temporaneo o permanente sono, invece, “direttamente compensative del danno patrimoniale per lucro cessante (perdita del reddito).

Le due diverse prestazioni (il risarcimento del danno e le indennità previdenziali) assolvono, questa volta, ad una funzione omogenea, essendo entrambe dirette a compensare il danneggiato per la perdita del medesimo bene della vita (la capacità di produrre reddito)” prosegue la Cassazione – Inoltre, l’ordinamento prevede la possibilità per l’ente previdenziale di recuperare presso il danneggiante quanto corrisposto al danneggiato”, ai sensi dell’art. 148 del d.lgs. 7 settembre 2005, n. 209 (Codice delle assicurazioni) e, in precedenza, dell’art. 28 della legge 24 dicembre 1969, n. 990, nonché dell’art. 14 della legge 12 giugno 1984, n. 222: ipotesi specifiche di surroga previste dalla legge in favore dell’istituto di previdenza, riconducibili allo schema generale di cui agli artt. 1203 e 1916 cod. civ.

Sussiste, quindi, concludono gli Ermellini, quella particolare condizione di “indifferenza del risarcimento”, in ragione della quale, se, da un lato, il danneggiato non può duplicare il risarcimento del danno del medesimo bene della vita, dall’altro il danneggiante non si avvantaggia dell’intervento dell’ente previdenziale, restando esposto alle azioni di recupero che potranno essere intentate da questo nei suoi confronti.

 

Prestazione previdenziale e  risarcimento del danno patrimoniale

Nel rigettare il ricorso, la Suprema Corte afferma quindi il seguente principio di diritto: “In caso di sinistro che comporti la perdita totale o parziale, temporanea o definitiva, della capacità lavorativa, il danneggiato non può cumulare la prestazione previdenziale che abbia eventualmente percepito con l’integrale risarcimento del danno patrimoniale, essendo entrambe le poste finalizzate al ristoro della lesione del medesimo bene della vita (la capacità di produrre reddito).

Pertanto, nel caso in cui l’ente previdenziale abbia corrisposto a tale titolo un’indennità al danneggiato, di quest’importo si dovrà tenere conto nella liquidazione del danno il cui risarcimento è posto a carico del danneggiante, fermo restando che quest’ultimo resta esposto alle azioni di recupero che potranno essere intentate contro di lui dall’ente previdenziale ai sensi ai sensi dell’art. 148 del d.lgs. 7 settembre 2005, n. 209 (Codice delle assicurazioni) e dell’art. 14 della legge 12 giugno 1984, n. 222“.

 

Scritto da:

Dott. Nicola De Rossi

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