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Il danno da chance perduta consiste “non nella perdita di un vantaggio, economico e/o non economico, che sia certo ed attuale, ma nella perdita della concreta possibilità di conseguire un vantaggio sperato”.

A chiarire e ribadire questo concetto la Corte di Cassazione, terza sezione civile, con l’interessante ordinanza n. 25910/23 depositata il 5 settembre 2023 con la quale ha accolto il ricorso di una aspirante modella le cui concrete prospettive di carriera erano state frustrate da un intervento per aumentare il seno dai comprovati esiti infausti.

Aspirante modella si sottopone ad un intervento per aumentare il seno dagli esiti disastrosi

Una giovane, come detto con fondate aspirazioni di entrare nel mondo della moda e dello spettacolo e di diventare una modella, aveva citato in causa l’Azienda ospedaliera universitaria in una cui struttura si era sottoposta, nel 2006, ad un intervento chirurgico di mastectomia sottocutanea bilaterale con contestuale ricostruzione del seno, finalizzata all’espansione mammaria. Intervento che però era andato male: pochi giorni dopo l’operazione, infatti, in sede di controlli post-operatori, era stata accertata una posizione anomala degli espansori a cui si associava lo stato febbrile della paziente, quindi una forte infiammazione locale e, nell’arco di qualche giorno, una flogosi da stafilococco aureo, a cui faceva seguito un’infezione diffusa con fuoriuscita di materiale purulento.

Risultato: dopo pochi giorni i medici avevano dovuto procedere all’esportazione chirurgica delle protesi mammarie già installate in presenza di una necrosi cutanea nella regione mammaria sinistra. La paziente, su consiglio dei propri medici, aveva rifiutato di sottoporsi a un intervento chirurgico riparativo. Lamentava di aver riportato una situazione irreversibile di devastazione mammaria toracica, aggravata da una importante sintomatologia dolorosa con limitazione anche nei movimenti, della quale ascriveva la responsabilità agli inadeguati controlli post-operatori eseguiti in ospedale, per non aver affrontato i sanitari con la tempestività necessaria la complicazione flogistica associata al rigetto delle protesi.

 

Il tribunale, provata la responsabilità medica, accoglie l’istanza risarcitoria, ma solo in parte

Di qui dunque la sua richiesta danni al nosocomio, che il tribunale di Modena aveva accolto condannando l’azienda ospedaliera a risarcirla per una somma complessiva di 92.225 euro. La danneggiata tuttavia aveva proposto appello ritenendo che la quantificazione dei danni operata dai giudici fosse inidonea a coprire l’intero pregiudizio riportato, ribadendo di aver riportato un danno biologico non inferiore al 30-32%, e di aver diritto al risarcimento del danno morale ed esistenziale, unitamente alla perdita di chance, in considerazione della incidenza della devastazione fisica non solo sulle sue condizioni fisiche e psicologiche, ma anche sui suoi rapporti sociali e lavorativi tenuto conto della sua giovane età e dell’attività svolta all’epoca di “ragazza immagine”.

La Corte d’appello conferma la prima sentenza negando il danno morale e da perdita di chance

Ma, con sentenza del 2020, la Corte d’appello di Bologna aveva rigettato il gravame. I giudici avevano confermato in toto la decisione di prime cure ritenendola corretta nel motivare la quantificazione degli esiti permanenti nel 22-23% anziché nella più elevata percentuale stimata dal consulente di parte, sulla base dei motivati esiti della consulenza tecnica d’ufficio disposta dal Tribunale, con conseguente conferma della quantificazione del danno biologico, effettuata tenendo conto di quella percentuale di invalidità, e applicando le tabelle milanesi.

La Corte territoriale inoltre aveva ritenuto non provate le circostanze atte a giustificarne un aumento in via di personalizzazione e aveva pertanto rigettato la domanda volta al risarcimento del danno esistenziale ritenendola duplicatoria, così come anche la domanda volta al risarcimento del danno morale in quanto, sebbene autonomamente risarcibile, non provato.

Infine, aveva respinto anche la domanda di risarcimento del danno da perdita di chance lavorative, ritenendo parimenti non provato l’avvio alla carriera di modella o ragazza immagine che la danneggiata sosteneva esserle stata definitivamente preclusa a causa della deturpazione estetica permanente residuata dal mal riuscito intervento.

 

La danneggiata ricorre anche per Cassazione, che ha accolto buona parte delle doglianze

A questo punto, dunque, la giovane ha proposto ricorso anche per Cassazione lamentando in particolare il fatto che i giudici territoriali non avessero considerato il danno estetico e il danno anatomico funzionale subito in giovane età e non avessero accolto la sua domanda di personalizzazione del danno non patrimoniale e di autonomo riconoscimento del danno morale, nonché del danno da perdita di chance, nonostante le prove addotte, sia del dolore subito per il grave danno estetico, oltre che funzionale, sia la perdita delle possibilità di una qualsiasi carriera che puntasse sul suo avvenente aspetto.

Riconosciuto in primis il danno morale, che rileva autonomamente

La Suprema Corte ha respinto le pretese della ricorrente limitatamente alla quantificazione del danno biologico, ma ha invece accolto le sue doglianze relativamente al risarcimento del danno morale e, soprattutto, al danno da perdita di chance, o meglio da interpretare, come chiariscono i giudici, come “danno da perdita di chance patrimoniali da futuro guadagno”.

Per quanto concerne il primo, la Corte territoriale, spiegano i giudici del Palazzaccio, “dopo aver confermato l’accertamento di una rilevante invalidità permanente in capo alla danneggiata, comportante un rilevantissimo danno estetico e anche considerevoli limitazioni funzionali subiti da una giovane donna nel pieno della sua vita relazionale e sessuale, si è solo apparentemente conformata all’ormai consolidatosi orientamento di legittimità secondo il quale, in tema di danno non patrimoniale da lesione della salute, il danno morale consiste in uno stato d’animo di sofferenza interiore che rileva autonomamente, a prescindere dalle vicende dinamico relazionali della vita del danneggiato, insuscettibile di accertamento medico-legale”.

Infatti, prosegue la Cassazione, subito dopo, “in poche righe”, ha rigettato la domanda volta al risarcimento del danno morale, “affermando che si trattasse di pregiudizi solo allegati dall’appellante ma non provati, dovendosi intendere rinunciate le istanze istruttorie non reiterate in sede di precisazione delle conclusioni di primo grado, consistenti nelle sofferenze patite in conseguenza dell’isolamento sociale e dell’abbandono delle attività lavorative, attinenti, questi ultimi, alla sfera dinamico relazionale della lesione subita e già valorizzate nella liquidazione del danno biologico”.

 

Il pregiudizio non patrimoniale va risarcito in modo integrale

Questa affermazione, prosegue la Cassazione, “nella sua scarna lapidarietà, e nella mancanza di ogni riscontro motivazionale dell’aver effettivamente valutato sotto questo diverso, seppur connesso profilo, la situazione emotiva della vittima, si pone in contrasto con il principio della integrale valutazione del pregiudizio non patrimoniale complessivamente subito, ed in particolare con quello secondo il quale, ai fini dell’accertamento della sussistenza di un danno morale, in tema di danno non patrimoniale discendente da lesione della salute, se è vero che all’accertamento di un danno biologico non può conseguire in via automatica il riconoscimento del danno morale (trattandosi di distinte voci di pregiudizio della cui effettiva compresenza nel caso concreto il danneggiato è tenuto a fornire rigorosa prova), la lesione dell’integrità psico-fisica può rilevare, sul piano presuntivo, ai fini della dimostrazione di un coesistente danno morale, alla stregua di un ragionamento inferenziale cui deve, peraltro, riconoscersi efficacia tanto più limitata quanto più basso sia il grado percentuale di invalidità permanente, dovendo ritenersi normalmente assorbito nel danno biologico di lieve entità (salvo rigorosa prova contraria) tutte le conseguenze riscontrabili sul piano psicologico, ivi comprese quelle misurabili sotto il profilo del danno morale”.

Un grave danno estetico rileva anche presuntivamente nell’affermazione del danno morale

La Corte d’appello aveva invece implicitamente escluso che un rilevante pregiudizio estetico e funzionale, con deturpazione permanente del seno, in una giovane donna, potesse risultare elemento rilevante, in via presuntiva, ai fini dell’affermazione del danno morale, idoneo cioè a determinare un’apprezzabile compromissione dell’equilibrio emotivo-affettivo del soggetto.

Ma così facendo, prosegue la Suprema Corte, “non ha valutato affatto se ad esso potessero presumibilmente associarsi conseguenze in termini di sofferenza interiore, omettendo di indagare in ordine alla pur presumibile predicabilità di tale stato d’animo conseguente alla lesione di un diritto costituzionalmente protetto. E ha poi circoscritto il contesto probatorio su cui fondare la valutazione del danno morale alle sole prove orali, la cui istanza non era stata adeguatamente reiterata, senza prendere in considerazione la situazione della giovane come processualmente accertata e valutarla nella sua idoneità a produrre anche uno stato di sofferenza interiore in termini di ansia, infelicità, disaccettazione di se stessa e del proprio corpo così significativamente e irreparabilmente vulnerato dall’intervento sanitario”.

E a tal fine, aggiungono e obiettano i giudici del Palazzaccio, “non ha preso minimamente in considerazione neppure la sopraggiunta separazione personale della ricorrente né la sua produzione documentale, in particolare la relazione psicodiagnostica prodotta – non oggetto in sé di contestazione – il cui esito, ove ritenuto inattendibile, sarebbe stato verificabile tramite un approfondimento dell’indagine medico legale sotto questo profilo, ove ritenuto opportuno, ma non poteva essere tout court ignorato”.

 

La Cassazione dispone anche il risarcimento del danno da perdita di chance e fa chiarezza

Ma l’elemento che più preme della sentenza è che gli Ermellini hanno, come detto, accolto anche il motivo di doglianza relativo all’omesso riconoscimento del diritto al risarcimento del danno da perdita di chances (intese come chances patrimoniali di futuro guadagno).  Anche in questo caso, spiega la Cassazione, la motivazione fornita dalla Corte d’appello è a dir poco “sbrigativa, oltre che non conforme a diritto”: quanto alla compromissione delle prospettive lavorative della ragazza, che assumeva di essere avviata ad una carriera nel settore pubblicitario e della moda, e di svolgere all’epoca dei fatti l’attività di ragazza immagine, la Corte d’appello, come detto, aveva affermato che l’appellante non aveva fornito alcuna prova dell’avvio di una simile carriera, aggiungendo poi che il risarcimento del danno da perdita di chance esigeva la prova, anche presuntiva, purché fondata su circostanze specifiche e concrete, dell’esistenza di elementi oggettivi dai quali desumere in termini di certezza o di elevata probabilità la sua esistenza.

La “chance” deve tradursi nella concreta possibilità di conseguire un determinato risultato

La Cassazione conviene sul fatto che la chancenon è una mera aspettativa di fatto, bensì deve tradursi nella concreta ed effettiva possibilità di conseguire un determinato risultato (nella specie, la possibilità di affermazione nella carriera di modella) o un certo bene giuridicamente ed economicamente suscettibile di autonoma valutazione, e che la sua perdita configura un danno concreto ed attuale commisurato alla possibilità perduta del risultato sperato”.

Pertanto, chiariscono i giudici del Palazzaccio, la prova del danno da perdita di chance si sostanzia nella “dimostrazione della esistenza e della apprezzabile consistenza di tale possibilità perduta, da valutarsi non in termini di certezza, ma di apprezzabile probabilità – nel caso di specie, in termini di affermazione economica o nel mondo del lavoro nel campo prescelto -, prova che può essere data con ogni mezzo, e quindi anche a mezzo di presunzioni”; nell’accertamento “del nesso causale tra la condotta colpevole e l’evento di danno – nella specie, le possibilità lavorative perdute a causa delle condizioni fisiche permanenti, estetiche e funzionali, della persona della danneggiata, con recisione delle concrete possibilità di affermazione nel campo prescelto. Di tal che il nesso tra condotta ed evento si caratterizza, nel territorio della perdita di chance, per la sua sostanziale certezza eziologica (cioè, dovrà risultare causalmente certo che, alla condotta colpevole, sia conseguita la perdita di quella migliore possibilità), mentre l’incertezza si colloca esclusivamente sul piano eventistico (è incerto, in altri termini, che, anche in assenza della condotta colpevole, la migliore possibilità si sarebbe comunque realizzata)”.

Pertanto, il soggetto che agisce per ottenere il risarcimento del danno da perdita di chance è tenuto ad allegare e provare l’esistenza dei suoi elementi costitutivi, ossia di una plausibile occasione perduta, del possibile vantaggio perso e del correlato nesso causale, fornendo la relativa prova pure mediante presunzioni, ed eventualmente ricorrendo anche ad un calcolo di probabilità.

Non consiste nella perdita di un vantaggio certo, ma della “possibilità qualificata” di ottenerlo

In definitiva, il danno da chance perduta consiste “non nella perdita di un vantaggio, economico e/o non economico, che sia certo ed attuale, ma nella perdita della concreta possibilità di conseguire un vantaggio sperato” viene al dunque la Suprema Corte, secondo la quale la Corte d’Appello, nel rigettare la domanda risarcitoria in merito della giovane, per un verso “non si è conformata ai principi suesposti nel ritenere che la valutazione in termini di danno risarcibile della chance debba essere compiuta col metro della certezza e non piuttosto con quello della possibilità qualificata secondo i canoni della apprezzabilità, serietà, consistenza, così confondendo, sovrapponendoli, il piano della causalità con quello dell’evento di danno; e per altro verso, ha totalmente omesso di considerare “alcune evidenze documentali che ben avrebbe potuto, all’esito di una complessiva valutazione di tipo inferenziale, ritenere, sia pur non determinanti o conclusive, pur tuttavia esistenti in punto di fatto, e tali da non poter essere ignorate”.

Fatti che, esplicano gli Ermellini, consistono, in particolare, quanto alla limitazione della capacità lavorativa generica, “nel riconoscimento dell’invalidità civile nella misura del 67%, come da verbale della Commissione medica prodotto in atti”; quanto al percorso fino a quel momento intrapreso dalla giovane, “nel book fotografico in atti predisposto dall’agenzia per modelle con la quale la danneggiata collaborava all’epoca”, e quanto alle prospettive lavorative future, “nelle dichiarazioni provenienti dalla stessa agenzia in ordine all’attività svolta all’epoca dalla ragazza: circostanze tutte da valutare nella loro idoneità a comprovare non un avviato percorso lavorativo in ordine al quale poter lamentare la perdita certa di una capacità reddituale già in atto, ma la perdita della possibilità di affermarsi nel campo che la ricorrente aveva prescelto all’epoca dei fatti, della cui riuscita non poteva essere certa al momento dell’intervento sanitario, ma rispetto al quale aveva delle apprezzabili probabilità di conseguire un risultato diverso e migliore, che dopo l’accaduto le sono state del tutto precluse”.

La sentenza impugnata è stata pertanto cassata con l’accoglimento dei succitati motivi del ricorso e la causa rinviata alla Corte d’Appello felsinea, in diversa composizione, per una rideterminazione del risarcimento.

Scritto da:

Dott. Nicola De Rossi

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Categoria:

Malasanità

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