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Non incombe sul paziente vittima di un asserito caso di mala sanità dimostrare il nesso causale tra la condotta dei medici e il danno lamentato: al contrario, spetta a questi ultimi e all’Azienda sanitaria provare che le prestazioni fornite sono state eseguite con diligenza.  Con la ordinanza n. 5922/24 depositata il 5 marzo 2024 la terza sezione Civile della Cassazione ha riaffermato con forza un principio, relativo all’onere probatorio, essenziale a tutela dei danneggiati ma che diversi giudici di merito continuano a interpretare in modo difforme.

Paziente cita l’Asl di Torino: domanda accolta in primo grado, ma rigettata in secondo

Un uomo aveva citato in causa l’Ulss di Torino denunciando il fatto che nel febbraio del 2011 si era sottoposto a intervento per ipertrofia prostatica e in occasione dell’operazione gli era stata praticata un’anestesia spinale con bupivacaina (un anestetico locale) nello spazio vertebrale L2-L3, e due mesi dopo, nell’aprile 2011, gli era stata diagnosticata una “paralisi del nervo ascellare destro e dell’emidiaframma sinistro da verosimile reliquato di anestesia”.

Il paziente aveva quindi invocato la responsabilità della struttura per i danni derivanti dalla manovra di anestesia spinale che egli asseriva essere stata svolta erroneamente: infatti, in seguito alla errata introduzione dell’ago nella cavità spinale, questo avrebbe subito una deviazione, che gli aveva provocato un forte dolore e non aveva raggiunto l’effetto anestetico, tanto che l’anestesista aveva dovuto estrarre l’ago e ri-posizionarlo più in alto. 

Per la Corte d’appello il danneggiato non ha provato il nesso causale condotta dei medici-danno

Il Tribunale di Torino aveva accolto la sua domanda risarcitoria riconoscendogli una somma di quasi trentamila euro, ma la Corte d’appello, accogliendo il gravame dell’Azienda sanitaria, aveva totalmente riformato la decisione rigettando l’istanza. Secondo i giudici di secondo grado, il non aveva fornito la prova del nesso causale tra la condotta dei Sanitari e il danno lamentato, non avendo formulato neppure la prova testimoniale per dimostrare l’asserita condotta imperita dell’anestesista – in particolare, la circostanza che questi avrebbe introdotto l’ago due volte per riposizionarlo più in alto, confessando egli stesso all’infermiera presente di avere sbagliato – e l’effettività dello stress algico quale concausa dell’irritazione radicolare e della sofferenza neurologica.

E la prova non poteva essere desunta in via presuntiva

In secondo luogo, la Corte territoriale aveva osservavano che la mancata prova del nesso eziologico non poteva essere desunta in via presuntiva anche considerando che il consulente tecnico d’ufficio in sede di Accertamento Tecnico Preventivo si sarebbe costantemente espresso in termini puramente ipotetici e di mera probabilità individuando la manovra di anestesia come possibile fattore favorente l’irritazione radicolare che avrebbe potuto determinare, poi, la sofferenza nervosa del nervo circonflesso destro e frenico sinistro”, precisando anche che, per citarne le conclusioni, “da un punto di vista anestesiologico si era trattato, se effettivamente verificato, con elevata probabilità, di una deviazione laterale nella progressione dell’ago da anestesia sub aracnoidea con contatto della punta sulle superfici articolari laterali”.

 

Il paziente ricorre per Cassazione lamentando inversione e travisamento dell’onere probatorio

Il paziente a questo punto ha proposto ricorso per Cassazione lamentando, in estrema sintesi, che la Corte di Appello avrebbe erroneamente sovrapposto due elementi distinti della responsabilità (la condotta e il nesso causale materiale) e la loro diversa prova, sul presupposto che la dimostrazione del nesso causale materiale potesse essere raggiunta mediante una prova testimoniale.

Il ricorrente ha sostenuto che la prova del nesso causale materiale non avrebbe mai potuto essere fornita attraverso la dichiarazione di testimoni, i quali avrebbero potuto descrivere la condotta dell’anestesista, ma non esprimere il giudizio sulla sussistenza della relazione di causalità intercorrente tra la condotta contestata e l’evento di danno.

La Suprema Corte accoglie le censure, spetta a medico e Asl provare il corretto adempimento

Censure entrambe fondate secondo la Suprema Corte, che ha evidenziato come la Corte d’appello avesse invertito gli oneri probatori delle parti, rammentando che non spetta al danneggiato dimostrare l’inadempimento del medico, bensì grava su quest’ultimo la prova dell’esatto adempimento della prestazione medica.

Il paziente, al contrario, aveva documentalmente provato l’aggravamento della patologia degenerativa preesistente, esitato nella paralisi del nervo ascellare destro e dell’emidiaframma sinistro diagnosticata due mesi dopo l’intervento all’esito di numerose visite, ma non era anche onerato di provare la sua allegazione circa la condotta negligente e imperita dell’anestesista perché, riaffermano i giudici del Palazzaccio, spettava alla Azienda Sanitaria, all’opposto, provare che la prestazione sanitaria era stata eseguita con diligenza

I Giudici di Appello hanno dunque completamente confuso tali elementi arrivando a rigettare la domanda del paziente sul rilievo – del tutto errato – che non era stata fornita la prova dell’allegata condotta errata dell’anestesista.

 

I giudici di secondo grado hanno anche omesso di accertare il nesso causale materiale

Oltre alla violazione delle regole di riparto dell’onere probatorioi giudici di appello, rimarcano poi gli Ermellini, hanno anche indebitamente omesso di procedere all’accertamento del nesso causale materiale, avvalendosi degli elementi probatori precostituiti forniti dal paziente e delle risultanze della Ctu, sulla base del criterio del più probabile che non.

Doveva essere adottato il criterio del “più probabile che non”

E qui la Suprema Corte rammenta che la regola della preponderanza dell’evidenza, o del più probabile che non, si specifica in due criteri distinti: nel primo caso (regola del più probabile che non) il giudice valuta se una certa condotta (attiva od omissiva) possa essere considerata causa di un evento dannoso sul rilievo che le probabilità che l’evento contestato sia la conseguenza di quella condotta risultano maggiori delle probabilità che non lo sia; nel secondo caso (criterio della prevalenza relativa) il giudice valuta se la probabilità che una certa condotta sia la causa di un evento dannoso prevalga sulla probabilità che lo siano tutte le altre cause alternative o le possibili concause teoricamente esistenti.

E della “prevalenza relativa” in caso di pluralità di cause possibili

In particolare, se l’evento dannoso è ipoteticamente riconducibile a una pluralità di cause, in applicazione progressiva dei due criteri, il giudice dapprima deve eliminare dalle ipotesi valutabili quelle meno probabili, poi deve analizzare le rimanenti ritenute più probabili, e infine scegliere tra di esse quella che abbia ricevuto il maggior grado di conferma, assumendo la veste di probabilità prevalente.

Applicando tali principi al caso concreto, i giudici torinesi avrebbero pertanto dovuto formulare il giudizio probabilistico tenendo conto, oltre che delle allegazioni del paziente, degli elementi di prova documentali da esso forniti (che evidenziavano la vicinanza cronologica tra l’anestesia e le sopravvenute problematiche) e delle risultanze della Ctu che aveva individuato la manovra di anestesia “come possibile fattore favorente l’irritazione radicolare”.

Il ricorso del paziente è stato perciò accolto e la sentenza impugnata cassata, con rinvio alla Corte d’Appello di Torino, in diversa composizione, per un riesame del caso alla luce dei riaffermati principi di diritto.

Scritto da:

Dott. Nicola De Rossi

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Categoria:

Malasanità

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