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Il cosiddetto danno esistenziale, quando sussiste, va ovviamente riconosciuto, ma esso non consiste nel mero “sconvolgimento dell’agenda” o nella mera perdita delle abitudini e dei riti propri della quotidianità della vita, e in particolare da meri disagi, fastidi, disappunti o ansie: esso implica un radicale cambiamento di vita, l’alterazione/cambiamento della personalità del soggetto. È quanto ha chiarito la Corte di Cassazione, Sezione III Civile, con la recente ordinanza del 29 gennaio 2018, n. 2056, con la quale ha rigettato i ricorsi e confermato quanto già deciso, nel caso specifico, dalla Corte d’Appello di Bologna.

La pronuncia in esame ha avuto origine dall’azione di un medico indebitamente danneggiato dalle procedure di un concorso pubblico. Nel 2007 il Tribunale di Modena gli aveva riconosciuto una somma a titolo di risarcimento dei danni subiti in conseguenza dell’illegittima formazione e approvazione della graduatoria per la copertura di un posto di medico di base in convenzione con il Comune di Utopia, nel Modenese, nonché per l’inottemperanza alla decisione del Presidente della Repubblica 26/8/1993 di accoglimento del ricorso in relazione alla suddetta graduatoria.

La Corte d’Appello di Bologna (in foto), con una sentenza datata 2014, in parziale accoglimento del gravame in via incidentale spiegato dal medico, e in conseguente parziale riforma della pronunzia del Tribunale di Modena, aveva riconosciuto la sussistenza del danno patrimoniale da lucro cessante ed, escluso quello non patrimoniale, aveva rideterminato in aumento l’ammontare liquidato dal giudice di prime cure in favore del dottore.

Avverso quest’ultima sentenza la Regione Emilia-Romagna ha proposto ricorso per Cassazione affidato a tre motivi. E il medico ha resistito proponendo ricorso incidentale. Ed è appunto il ricorso incidentale, e in particolare il primo motivo addotto, ad aver dato l’occasione alla Suprema Corte per chiarire gli aspetti del danno esistenziale.

Il ricorrente, infatti, ha lamentato la “violazione e/o falsa applicazione” dell’art. 2059 c.c.; nonché “l’omesso esame” di fatti decisivi per il giudizio, in riferimento all’art. 360, 1° co. n. 5, c.p.c. Il medico, in sostanza, si doleva che la Corte di merito non avesse ritenuto il danno non patrimoniale in re ipsa e che avesse a suo dire erroneamente valutato le emergenze probatorie dalle quali risultava che egli aveva subito stress, stato depressivo, trauma psicologico, che “era sempre turbato, depresso e soprattutto dormiva malissimo”.

La Corte di Cassazione, mediante l’ordinanza n. 2056/2018, ha ritenuto i motivi del ricorso incidentale non fondati e ha rigettato il ricorso. Sul punto controverso, la Suprema Corte precisa che, diversamente da quanto sostenuto dal ricorrente in via incidentale, “anche in caso di lesione di valori della persona il danno non può considerarsi in re ipsa, risultando altrimenti snaturata la funzione del risarcimento, che verrebbe ad essere concesso non in conseguenza dell’effettivo accertamento di un danno, bensì quale pena privata per un comportamento lesivo (v. Corte di Cassazione, Sez. Un., 11/11/2008, nn. 26972, 26973, 26974, 26975), ma va provato dal danneggiato secondo la regola generale ex art. 2697 c.c”.

A tale stregua, (anche) “il danno non patrimoniale deve essere allora sempre allegato e provato, in quanto l’onere della prova non dipende dalla relativa qualificazione in termini di “danno-conseguenza”, ma tutti i danni extracontrattuali sono da provarsi da chi ne pretende il risarcimento, e pertanto anche il danno non patrimoniale, nei suoi vari aspetti, potendo d’altro canto essere data la prova con ogni mezzo, anche per presunzioni” (v. Corte di Cassazione, 3/10/2013, n. 22585; Corte di Cassazione, 20/11/2012, n. 20292; Corte di Cassazione, 23/1/2014, n. 1361)

Con particolare riferimento al danno esistenziale, conclude l’ordinanza, “atteso che, giusta principio consolidato nella giurisprudenza di legittimità, esso consiste non già nel mero “sconvolgimento dell’agenda” o nella mera perdita delle abitudini e dei riti propri della quotidianità della vita, e in particolare da meri disagi, fastidi, disappunti, ansie, stress o violazioni del diritto alla tranquillità (v. Corte di Cassazione, 3/10/2016, n. 19641; Corte di Cassazione, 20/8/2015, n. 16992; 23/1/2014, n. 1361), bensì nel radicale cambiamento di vita, nell’alterazione/cambiamento della personalità del soggetto, nello sconvolgimento dell’esistenza in cui di detto aspetto (o voce) del danno non patrimoniale si coglie il significato pregnante (cfr. Corte di Cassazione, 16/11/2017, n. 27229; Corte di Cassazione, 11/4/2017, n. 9250; Corte di Cassazione, 19/10/2016, n. 21059; Corte di Cassazione, 20/8/2015, n. 16992), si è dalla Corte più volte avuto modo di affermare che esso va dal danneggiato allegato e provato, secondo la regola generale ex art. 2697 c.c. (v. Corte di Cassazione, 16/2/2012, n. 2228; Corte di Cassazione, 13/5/2011, n. 10527), e l’allegazione a tal fine necessaria deve concernere fatti precisi e specifici del caso concreto, essere cioè circostanziata, e non già purchessia formulata, non potendo invero risolversi in mere enunciazioni di carattere del tutto generico e astratto, eventuale ed ipotetico (v. Corte di Cassazione, 13/5/2011, n. 10527; Corte di Cassazione, 25 settembre 2012, n. 16255; Corte di Cassazione, 20/8/2015, n. 16992 )”.

Scritto da:

Dott. Nicola De Rossi

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