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Come si calcola il danno patrimoniale da perdita della capacità lavorativa?

La Cassazione, con la sentenza n. 16913/19 depositata il 25 giugno 2019, ha apportato importanti chiarimenti in merito ad un’altra importante voce di danno, quella patita da chi resta coinvolto in un sinistro e che non può più svolgere per un determinato periodo di tempo, a causa delle lesioni subite, la propria attività lavorativa conseguendo i relativi guadagni, si veda il caso dei liberi professionisti.

In particolare, la Suprema Corte ha stabilito che la quantificazione va effettuata con coefficienti di capitalizzazione di maggiore affidamento e più aggiornati che non possono essere certo quelli approvati con il regio decreto n. 1403 del 1922, quasi un secolo fa.

 

La battaglia di un avvocato coinvolto in un grave sinistro per un equo risarcimento

La vicenda riguarda un avvocato il quale, in seguito ad un grave incidente stradale avvenuto nel dicembre 2005 e nel quale la sua auto si era scontrata con quella di un’altra automobilista, a fronte della totale responsabilità ascritta a quest’ultima, era stato risarcito con 337.500 euro dall’assicurazione della controparte.

Secondo il danneggiato, tuttavia, la somma era del tutto inadeguata, di qui la sua citazione in causa della compagnia assicurativa e della proprietaria dell’auto che aveva causato il sinistro avanti il tribunale di Cremona, per una richiesta danni pari a 2 milioni e 692mila euro al netto dell’acconto.

Il Tribunale, con sentenza del 13 maggio 2013, aveva condannato solidalmente i convenuti, detratto l’acconto, a risarcire i danni patrimoniali e non patrimoniali per l’importo di ulteriori 411.060, oltre a interessi legali dalla pronuncia al saldo.

Non ancora soddisfatto, il legale ha appellato la sentenza presso la Corte d’Appello di Brescia, che ha accolto parzialmente le sue istanze risarcitorie condannando le parti appellate, tra le altre cose, a integrare il risarcimento del danno non patrimoniale della somma di 41.028 euro oltre interessi.

 

Il ricorso per Cassazione inerente soprattutto il danno da mancato guadagno

Il danneggiato, tuttavia, non si è ritenuto ancora soddisfatto e ha proposto ricorso per Cassazione adducendo una serie di motivi di doglianza, che vertevano sostanzialmente tutti, per l’appunto, sulla quantificazione del risarcimento del danno patrimoniale.

Il ricorrente, in particolare, ha lamentato il fatto che il Tribunale aveva ritenuto che il suo reddito sarebbe rimasto costante, laddove la sua richiesta risarcitoria teneva invece conto di quanto egli avrebbe guadagnato aumentando progressivamente i suoi redditi, esercitando la sua professione di avvocato.

In altre parole, il giudice di merito aveva determinato il danno futuro patrimoniale per la vita lavorativa in modo stabile, cioè con lo stesso reddito annuo che l’avvocato percepiva prima del sinistro, senza considerare le attestazioni fornite dal legale stesso circa il suo progressivo aumento reddituale nel corso degli anni, mediamente del 5 per cento annuo, né della nozione di comune esperienza per cui “ogni libero professionista beneficia di incrementi reddituali in funzione della durata della carriera, per la progressiva espansione delle conoscenze tecniche, dell’esperienza e della clientela“.

Il danneggiato, quindi, ha censurato gravemente la sentenza di primo grado per avere attualizzato il mancato guadagno futuro avvalendosi del coefficiente di capitalizzazione delle tavole allegate al r.d. 1403/1922: una scelta definita “incongrua perché presupponente una vita più breve di quella odierna e altresì un tasso di capitalizzazione del 4,5% mentre dal 2005 in poi il suddetto tasso sarebbe stato del 2,5% o anche inferiore”: doglianza ignorata dal giudice d’appello.

 

La Suprema Corte accoglie in pieno le doglianze

Motivi di censura accolti in toto dalla Suprema Corte. “Anche a prescindere dall’inevitabile perplessità che suscita la singolare – perché oggettivamente assai riduttiva – scelta, quale parametro costante per tutta la vita lavorativa di un professionista, di un reddito ottenuto a brevissima distanza dall’avvio dell’esercizio dell’attività (quando accadde il sinistro, omissis aveva 32 anni) – recita la sentenza degli Ermellini -, è evidente che la corte territoriale ha aderito, con la sua sentenza pubblicata il 12 gennaio 2017, a una soluzione adottata dal giudice di prime cure nel 2013, non tenendo minimamente conto, pertanto, dell’evoluzione della giurisprudenza di legittimità che nel frattempo si era compiuta e poteva ben dirsi del tutto nota quando la sentenza d’appello fu pronunciata” recita la sentenza.

Allo “stato dell’arte”, il danno permanente da incapacità di guadagno – prosegue la Suprema Corte – non può più liquidarsi utilizzando i coefficienti di capitalizzazione approvati con r.d. 1403/1922, dal momento che questi, sia a causa dell’aumento della durata media della vita, sia a causa della diminuzione dei saggi d’interesse, non sono più idonei a garantire un corretto risarcimento equitativo del danno e, pertanto, a rispettare il dettato dell’articolo 1223 c.c.”.

 

Vanno adottati coefficienti di capitalizzazione aggiornati e scientificamente corretti

La Cassazione riconosce al giudice di merito la libertà di adottare i coefficienti di capitalizzazione che ritenga preferibili (trattandosi di una valutazione sostanzialmente di merito rispetto al caso concreto), “a condizione però che si avvalga di coefficienti aggiornati e scientificamente corretti”: un esempio che viene fornito sono i coefficienti di capitalizzazione approvati con provvedimenti vigenti per la capitalizzazione di rendite assistenziali o previdenziali o i coefficienti elaborati in dottrina.

Gli Ermellini adducono a sostegno delle proprie asserzioni anche una  calzante sentenza della stessa Cassazione, del 28 aprile 2017 n. 10499, nella quale si chiarisce che, a proposito del danno patrimoniale futuro da perdita di capacità lavorativa specifica, “la liquidazione, in rispetto dell’articolo 1223 c.c. e del principio della integralità del risarcimento, va effettuata mediante la moltiplicazione del reddito perduto per un adeguato coefficiente di capitalizzazione“, sottolineando altresì che vanno usati come parametri “da un lato, la retribuzione media dell’intera vita lavorativa della categoria di pertinenza, desunta da parametri di rilievo normativo o altrimenti stimata in via equitativa, e, dall’altro, coefficienti di capitalizzazione di maggiore affidamento, in quanto aggiornati e scientificamente corretti”.

E si citano ad esempio quelli approvati con provvedimenti normativi per la capitalizzazione delle rendite previdenziali o assistenziali oppure quelli elaborati specificamente nella materia del danno aquiliano.

La (auto)citazione non è causale, in quanto il caso riguardava proprio il risarcimento da liquidare a un avvocato che esercitava la sua attività professionale da pochi mesi.

E la Suprema Corte aveva anche allora aveva cassato la sentenza d’appello che aveva determinato la quota di reddito perduto da prendere in considerazione in base all’imponibile fiscale dichiarato dal danneggiato nell’anno del sinistro, ritenendo che essa avesse errato nell’omettere di considerare “il prevedibile progressivo incremento reddituale che, notoriamente, caratterizza tale attività”, e a ciò aggiungendo il riscontro dell’errore consistente nella moltiplicazione di tale parametro “per il coefficiente di capitalizzazione tratto dalla tabella allegata al r.d. n. 1403 del 1922, sebbene ancorata a dati non più attuali”.

In conclusione, il ricorso è stato accolto e la sentenza impugnata cassata, con rinvio del caso ad altra sezione della Corte d’appello di Brescia.

Scritto da:

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Dott. Nicola De Rossi

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