Il Consiglio di Stato, nella prima Adunanza Plenaria del 2018, ha statuito un importante principio di diritto, mutuando nella giurisdizione amministrativa quello che è il portato della più recente giurisprudenza della Corte di Cassazione sullo specifico tema del rapporto fra indennizzo e risarcimento.
Il tema è quello relativo alla sussistenza (e quantificazione) di un diritto al risarcimento del danno maturato da un soggetto che abbia beneficiato di un meccanismo indennitario volto a compensarlo del pregiudizio subito.
Nel caso di specie, i fatti riguardavano un magistrato che, a causa dell’esposizione ad emissioni di amianto, aveva contratto importanti patologie accertate dalle competenti commissioni come dipendenti da causa di servizio. In forza di tale rapporto causale fra svolgimento delle mansioni e insorgenza della patologia, il danneggiato era stato beneficiato di una somma di denaro a titolo di indennizzo secondo i criteri tabellari previsti.
Era poi avvenuto che il danneggiato avesse agito in giudizio al fine di ottenere il risarcimento del danno subito. Posta l’evidente sussistenza sia di un danno biologico sia di un nesso di causalità, l’effettivo thema decidendum del giudizio consisteva nel quesito se fosse o meno applicabile l’istituto della compensatio lucri cum damno. Ossia, in termini pratici, se dall’importo riconosciuto come risarcimento del danno dovesse scomputarsi o meno la somma di cui il danneggiato aveva già beneficiato a titolo di indennizzo.
Il giudizio di primo grado si era concluso con una risposta negativa a tale quesito, ossia con l’effettivo cumulo dei due importi. A fronte dell’appello proposto dal Ministero soccombente, la Quarta Sezione, alla quale era assegnata la controversia, ha ritenuto che fosse riscontrabile un contrasto interpretativo nell’ambito della giurisprudenza della Corte di Cassazione.
Secondo un primo orientamento, al quale si era uniformato il giudice di primo grado, infatti, deve ritenersi che in questi casi possa operare il cumulo tra indennizzo e risarcimento, venendo in rilievo fonti diverse delle obbligazioni dovute e la condotta illecita è mera “occasione” e non “causa” dell’attribuzione dell’indennità.
Secondo un secondo orientamento, per la verità minoritario, in queste circostanze occorrebbe operare la compensatio lucri cum damno, in quanto ciò che rileva è che la condotta sia unica e, nella specie, il fatto illecito deve considerarsi “causa” dell’attribuzione dell’indennità.
Nell’ordinanza di rimessione la Quarta Sezione,“in considerazione del pregio delle argomentazioni poste a sostegno del più recente indirizzo, dell’esposto contrasto giurisprudenziale fra Sezioni della Corte di cassazione e della possibilità che tale contrasto possa svilupparsi anche in seno alla giurisprudenza del Consiglio di Stato”, ha ritenuto opportuno deferire il ricorso all’esame dell’Adunanza Plenaria per la decisione del seguente punto di diritto: “se sia possibile o meno sottrarre dal complessivo importo dovuto al danneggiato a titolo di risarcimento del danno gli emolumenti di carattere indennitario versati da assicuratori privati o sociali ovvero da enti pubblici, specie previdenziali”.
L’Adunanza Plenaria (in foto, Palazzo Spada a Roma, sede del Consiglio di Stato) ha ribaltato l’esito del giudizio di primo grado, statuendo la necessità di operare, in questi casi, una compensazione fra indennizzo e risarcimento.
Il percorso argomentativo seguito dall’Adunanza Plenaria muove da alcune considerazioni di carattere generale. La prima attiene ai titoli delle obbligazioni dai quali sorgono rapporti giuridici, che definiscono anche le cause giustificative degli spostamenti patrimoniali. Sul punto, viene ricordato come tali rapporti, anche in ragione, tra l’altro, dei soggetti coinvolti, possono avere natura semplice o complessa. “In particolare, vi possono essere rapporti obbligatori con un solo soggetto responsabile e obbligato, eventualmente in forma complessa, ovvero più rapporti obbligatori collegati che possono, in ragioni di variabili dipendenti dal caso concreto, giustificare l’attribuzione di una o di più prestazioni patrimoniali.”
A questa premessa, segue poi una indagine in ordine alle finalità dell’istituto del risarcimento del danno. Al riguardo la pronuncia ricorda come “in relazione alla funzione del risarcimento del danno, le Sezioni unite della Corte di Cassazione, con sentenza 5 luglio 2017, n. 16601, hanno affermato, con riferimento alla responsabilità civile, che essa può perseguire plurime finalità che si pongono su piani differenti (Cass. civ., sez. un., 5 luglio 2017, n. 16601).” Ed a ciò viene aggiunto che “la finalità generale e prioritaria è compensativa: lo scopo è di reintegrare la sfera giuridica del danneggiato ponendolo, in attuazione del cd. principio di indifferenza, nella situazione in cui si sarebbe trovato senza il fatto illecito”.
Queste affermazioni di ordine generale fanno quindi da sfondo concettuale allo sviluppo successivo dell’argomentazione, laddove viene affermato che “le diverse fattispecie concrete, inserite nel descritto contesto generale, presentando, accanto a specifiche peculiarità, taluni elementi comuni, possono essere collocate, per fini ordinatori, in tre diverse categorie, che si differenziano sul piano dei titoli delle obbligazioni e dei soggetti responsabili e obbligati, con implicazioni diverse in punto di causa giustificativa delle attribuzioni, nonché di causalità giuridica e funzione della responsabilità”.
La prima di queste categorie è quella in cui vi è un unico soggetto autore della condotta responsabile e obbligato ad effettuare una prestazione derivante da un unico titolo. E in tale contesto, la giurisprudenza e la dottrina non hanno mai dubitato della necessità di valutare l’entità dei vantaggi conseguiti dal danneggiato ai fini della determinazione effettiva del danno. Di conseguenza, “sul piano funzionale, l’istituto in esame impedisce che il danneggiante sia costretto a corrispondere una somma superiore a quella necessaria per reintegrare il patrimonio leso”.
La seconda riguarda l’ipotesi in cui fattispecie che si caratterizzano per la presenza di un solo soggetto autore della condotta responsabile e di due soggetti obbligati sulla base di titoli differenti. Sono le ipotesi in cui vi sia la presenza di forme di assicurazione privata o pubblica, che accanto all’obbligo risarcitorio dell’autore del danno pongono a diverso titolo un obbligo indennitario in capo a terzi. A riguardo, nella pronuncia si afferma che tali situazioni rendono più complessa la ricostruzione dei modi di operatività della compensatio. L’Adunanza Plenaria non entra dunque nel merito della vicenda cercando di risolvere questa questione, rilevando soltanto che essa è comunque stata rimessa alle Sezioni Unite della Corte di Cassazione.
La terza categoria è quella in cui si colloca il caso di specie e riguarda l’ipotesi in cui è presente un’unica condotta responsabile, un solo soggetto obbligato ma titoli differenti delle obbligazioni. I due titoli giuridici vantati dal danneggiato sono, nel caso di specie: a) l’art. 2087 cod. civ., applicabile anche in ambito pubblicistico, il quale prevede che “l’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”; b) l’art. 68 del decreto del Presidente della Repubblica 10 gennaio 1957, n. 3 (Testo unico delle disposizioni concernenti lo statuto degli impiegati civili dello Stato), il quale nella versione applicabile prevedeva che “per le infermità riconosciute dipendenti da causa di servizio è a carico dell’amministrazione la spesa per la corresponsione di un equo indennizzo per la perdita dell’integrità fisica eventualmente subita dall’impiegato”.
Ciò premesso, la pronuncia ricorda quale sia l’orientamento tradizionale in relazione a questo secondo titolo giuridico. “In relazione alla natura di tale indennità questa Adunanza plenaria ha ritenuto che essa sia diversa dalle somme corrisposte a titolo di risarcimento del danno e deve essere considerata alla stessa stregua delle altre indennità corrisposte in costanza di rapporto di lavoro, per le seguenti ragioni. Sul piano strutturale, nella disciplina dell’indennità «il legislatore prescinde da ogni riferimento a criteri di responsabilità conseguenti al verificarsi dell’evento dannoso» e «la perdita dell’integrità fisica è valutata tenendo esclusivamente conto delle oggettive condizioni di tempo e di luogo nelle quali la prestazione lavorativa risulta effettuata ed in presenza delle quali si è verificata la lamentata menomazione» (sentenza 16 aprile 1985, n. 14; nello stesso senso 8 ottobre 2009, n. 5). Sul piano funzionale, le norme di legge sopra riportate non proteggono il bene «integrità psico-fisica» che «è solo l’occasione dell’erogazione, ma la speciale condizione del dipendente divenuto infermo in ragione del suo rapporto con l’amministrazione e del servizio prestato». Il fine, pertanto, «non è risarcitorio ma si inserisce nell’ambito di un sinallagma in cui si intrecciano prestazioni e controprestazioni di contenuto plurimo» e «appare avvicinabile ad una delle tante indennità che l’amministrazione conferisce ai propri dipendenti in relazione alle vicende del servizio» (sentenza 16 luglio 1993, n. 9). Lungo questa linea, più recentemente, si è affermato come il legislatore abbia «preso in considerazione l’interesse pubblico collegato allo svolgimento di determinate attività particolarmente pericolose per la salute o anche solo le condizioni disagevoli per l’espletamento delle mansioni dei dipendenti pubblici ed ha predisposto un regime di ristoro del lavoratore pubblico dipendente che in occasione dello svolgimento di dette attività subisca una rilevante lesione della sua integrità fisica». Ne consegue che «pur nell’adempimento ordinario e diligente delle obbligazioni di entrambe le parti del rapporto di lavoro, può accadere che si verifichino menomazioni della integrità fisica del lavoratore sia in ragione della pericolosità obiettiva delle lavorazioni (…) che in relazione allo svolgimento di ogni altra mansione del lavoratore» (sentenza n. 5 del 2009, cit.).”
Nella pronuncia si afferma però che tale pregresso orientamento deve essere rimeditato. E ciò in quanto la indennità in questione pare avere natura sostanzialmente analoga a quella risarcitoria derivante da un illecito contrattuale. A sostegno di tale affermazione, viene evidenziato come la nozione di “indennità” sia normalmente collegata ad una condotta che integra gli estremi di un atto lecito dannoso, in quanto tale autorizzato dal sistema. E tuttavia, la nozione di “indennità” è però compatibile anche con una condotta che integri gli estremi di un atto illecito, in quanto tale vietato dal sistema. In altri termini, potrebbe esservi un obbligo indennitario in presenza sia di un atto lecito che in assenza di esso.
Ciò premesso, e ricordando le considerazioni generali introduttive, ossia la natura compensativa dell’istituto del risarcimento del danno, il Consiglio di Stato giunge alle proprie conclusioni evidenziando che “sul piano della struttura degli illeciti, la presenza di una condotta unica responsabile che fa sorgere due obbligazioni da atto illecito, aventi entrambe finalità compensativa del medesimo bene giuridico, in capo allo stesso soggetto determina la nascita di rapporti obbligatori sostanzialmente unitari che giustifica l’attribuzione di una, altrettanto unitaria, prestazione patrimoniale finalizzata a reintegrare la sfera personale della parte lesa”.
Di contro, sul piano della funzione degli illeciti, il riconoscimento del cumulo implicherebbe infatti l’attribuzione alla responsabilità contrattuale di una funzione punitiva. E questo perché l’esistenza di un solo soggetto responsabile e obbligato comporterebbe per esso l’obbligo di corrispondere una somma superiore a quella necessaria per reintegrare la sfera del danneggiato con ingiustificata locupletazione da parte di quest’ultimo.
Si giunge dunque, infine, ad affermare il seguente principio di diritto: “la presenza di un’unica condotta responsabile, che fa sorgere due obbligazioni da atto illecito in capo al medesimo soggetto derivanti da titoli diversi aventi la medesima finalità compensativa del pregiudizio subito dallo stesso bene giuridico protetto, determina la costituzione di un rapporto obbligatorio sostanzialmente unitario che giustifica, in applicazione della regola della causalità giuridica e in coerenza con la funzione compensativa e non punitiva della responsabilità, il divieto del cumulo con conseguente necessità di detrarre dalla somma dovuta a titolo di risarcimento del danno contrattuale quella corrisposta a titolo indennitario”.
Scritto da:
Dott. Nicola De Rossi
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