Il reato di disturbo della quiete pubblica, per configurarsi, richiede certo che i rumori contestati abbiamo una diffusività tale da essere potenzialmente forieri di disturbo, appunto, per un numero indeterminato di persone, ma nulla rileva se a chiedere i danni sia anche un solo soggetto.
A chiarire questo punto, non così scontato, è stata la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 18377/21 depositata il 12 maggio 2021, con cui ha definitivamente respinto il ricorso della titolare di un’attività condannata ex art. 659 cod. pen. la quale, tra i vari motivi di doglianza, sosteneva che a lamentarsi per i “decibel” troppo altri era di fatto un unico nucleo familiare.
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Una causa per disturbo della quiete pubblica
La donna, citata in causa da un vicino, in primo grado era stata assolta dal Tribunale di Milano nel 2017 “perché il fatto non è previsto dalla legge come reato” in relazione alla contravvenzione ex art. 659 cod. pen., disturbo della quiete pubblica, ma la Corte d’Appello meneghina, accogliendo l’appello della costituita parte civile, con sentenza del gennaio del 2020 aveva riformato la decisione di primo grado, affermandone invece la responsabilità ai soli effetti civili e condannandola al risarcimento del danno in favore del danneggiato.
Il ricorso in Cassazione dell’imputata che parla di “lamentele isolate”
L’imputata ha quindi proposto ricorso per Cassazione con tre motivi. Quello che qui interessa è il secondo, con il quale ha dedotto i vizi ex art. 606 comma 1 lett. b) ed e) cod. proc. pen. per presunta erronea applicazione della legge e contraddittorietà e illogicità della motivazione, circa l’applicabilità della fattispecie ex art. 659 cod. pen.
La donna in buona sostanza ha dissentito dalla ricostruzione dei fatti operata dal vicino circa il coinvolgimento, quali destinatarie dei disturbi sonori, di tre diverse unità abitative, la diffusione del disturbo tra “la popolazione residente” identificata negli abitanti del “mezzo isolato insistente tra due vie”, dal momento che le “unità abitative” avrebbero in realtà corrisposto ai vari locali abitati dai familiari conviventi della parte civile, e che la stessa Arpav avrebbe effettuato rilievi e analisi sull’unico appartamento del vicino. Dunque, la “popolazione residente” altro non sarebbe stata che un unico nucleo familiare. Secondo la ricorrente, la Corte avrebbe correttamente ricostruito la situazione fattuale, costituita dalla presenza di sei persone collocate in stanze appartenenti alla medesima unità abitativa, attigua al locale indicato in imputazione, non facendo tuttavia corretta applicazione dei principi di diritto da essa stessa richiamati.
Secondo la Suprema Corte, tuttavia, questo, come del resto anche gli altri motivi fi ricorso, sono infondati. Gli Ermellini non condividono l’affermazione preliminare della ricorrente secondo cui la corte territoriale avrebbe correttamente inquadrato la vicenda fattuale nei termini sostenuti dalla medesima, e difformi dalle prospettazioni, diverse, della parte civile appellante.
“Al contrario – obiettano i giudici del Palazzaccio – è intervenuta, da parte dei giudici di appello, seppure con motivazione sintetica, la condivisione della ricostruzione di una fattispecie conforme alle rappresentazioni di parte civile, con particolare riferimento al significativo dato della sussistenza di distinti condomini, come tali residenti in diverse unità abitative e quindi alla diffusività dei rumori lamentati. E a ciò ha fatto riscontro la corretta applicazione del principi significativi in materia”.
Se viene potenzialmente turbata la pubblica quiete, basta che se ne lamenti anche una persona
Principi secondo i quali, chiarisce bene la Cassazione, “la rilevanza penale della condotta contestata, produttiva di rumori censurati come fonte di disturbo delle occupazioni e del riposo delle persone, richiede l’incidenza sulla tranquillità pubblica, in quanto l’interesse tutelato dal legislatore è la pubblica quiete, sicché i rumori devono avere una tale diffusività che l’evento di disturbo sia potenzialmente idoneo ad essere risentito da un numero indeterminato di persone, anche se poi però concretamente solo taluna se ne possa lamentare”.
La Suprema Corte, per la cronaca, ha confermato anche l’importo liquidato a tutolo di risarcimento, determinato in via equitativa, in ragione della durata delle emissioni, e del disturbo cagionato in termini di alterazione del ritmo sonno-veglia, della vita familiare e delle ordinarie occupazioni.
Tanto infatti risulta conforme – conclude la Cassazione – “alla regula iuris per la quale, in tema di liquidazione del danno morale, la relativa valutazione del giudice, in quanto affidata ad apprezzamenti discrezionali ed equitativi, costituisce valutazione di fatto sottratta al sindacato di legittimità, se sorretta (come nello specifico, ndr) da congrua motivazione”.
Scritto da:
Dott. Nicola De Rossi
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