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La “compensatio lucri cum danno” è un principio del nostro ordinamento in base al quale, nel determinare l’ammontare del danno, occorre calcolare anche gli eventuali vantaggi che trovino origine nello stesso atto che l’ha prodotto.

A chiarire ed esemplificare bene questa complessa e controversa questione è la sentenza n. 14.362/19 della terza sezione civile della Cassazione, depositata il 27 maggio e relativa ad un caso di incidente mortale un itinere, cioè un sinistro stradale di un lavoratore nell’ambito della sua attività lavorativa.

A rivolgersi alla Suprema Corte i familiari della vittima contro la sentenza del 23 luglio 2014 della Corte d’appello di Messina la quale, pur accogliendo parzialmente il gravame principale che gli stessi ricorrenti avevano esperito contro la sentenza di primo grado pronunciata il 28 febbraio 2011 dal Tribunale di Messina, aveva rigettato la loro domanda di risarcimento del danno patrimoniale da lucro cessante proposta avverso la società proprietaria del veicolo e la Toro Assicurazioni S.p.a. (poi divenuta Generali Business Solutions S.C.p.A.).

 

Il caso di un infortunio sul lavoro in itinere

Ripercorrendo la vicenda giudiziaria, i ricorrenti avevano adito il Tribunale messinese per conseguire il risarcimento di tutti i danni conseguenti al decesso, avvenuto a causa di un incidente stradale successo il 25 luglio 2007, del loro caro.

E avevano convenuto in giudizio, come detto, la società proprietaria del furgone a bordo del quale la vittima viaggiava come trasportato da un collega, e Toro Assicurazioni quale assicuratrice per la Rca del mezzo in questione.

Quest’ultima aveva versato loro la somma di 150mila euro ciascuno per danno da perdita del rapporto parentale, ma non aveva riconosciuto il danno patrimoniale da lucro cessante, obiettando il fatto che l’Inail aveva costituito a favore della vedova una rendita vitalizia, nonché a favore dei figli una rendita temporanea, fino al compimento degli studi e, comunque, fino al ventiseiesimo anno di età. Inail, che a sua volta era intervenuta in causa, esercitando azione di rivalsa per le somme versate – ammontanti a oltre 375mila euro – agli eredi e per la relativa capitalizzazione della rendita futura, nelle more del giudizio di primo grado, aveva accettato dalla compagnia di assicurazione della Rc Auto, a tacitazione del suo diritto di surroga, l’importo complessivo di 180mila euro.

Il giudizio, pertanto, in assenza di contestazioni circa la responsabilità del sinistro – era proseguito per la quantificazione del danno non patrimoniale e per la debenza di quello patrimoniale da lucro cessante, in relazione al quale, peraltro, i ricorrenti avevano formulato, in via di principalità, la richiesta di liquidazione dell’importo di 329.627 (ovvero, di 263.701). In subordine, essi avevano chiesto il pagamento della differenza tra la prima di tali somme e quella versata dalla compagnia assicurativa all’Inail per soddisfarne il diritto di surroga, ovvero 149.627 euro.

Il Tribunale di Messina aveva rigettato la domanda – compresa quella articolata in via di subordine – relativa al danno patrimoniale da lucro cessante, con statuizione confermata dalla Corte territoriale all’esito dell’appello proposto dai familiari della vittima.

 

Il ricorso in Cassazione per il riconoscimento del danno da lucro cessante

Contro quest’ultima decisione, i ricorrenti si sono rivolti alla Cassazione adducendo tre motivi, di cui qui interessano in particolare i primi due. Con il primo – proposto ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3), cod. proc. civ. – hanno dedotto la violazione ed erronea applicazione degli artt. 143, 1223, 1226 e 2056 cod. civ., quanto al danno patrimoniale da lucro cessante, contestando l’applicazione che entrambi i giudici di merito hanno fatto del principio della “compensatio lucri cum damno”.

In particolare, gli eredi della vittima hanno evidenziato che la (denegata) domanda di risarcimento mirava al ristoro del danno ad essi spettante in ragione del decesso dell’unico produttore di reddito all’interno del proprio nucleo familiare, sicché esso nulla avrebbe avuto a che vedere con l’erogazione delle rendite in loro favore, in quanto dovute “ai congiunti del defunto in esecuzione di una precisa obbligazione previdenziale, in virtù dei versamenti contributivi” operati dal lavoratore all’Inail nel corso dell’attività lavorativa.

In altre parole, secondo il ricorso sarebbe la diversità dei titoli della prestazione indennitaria e di quella risarcitoria a giustificare la loro coesistenza. La Corte messinese, disattendo tale interpretazione, avrebbe anche violato “gli articoli di legge e della Costituzione che tutelano la intangibilità della reciproca solidarietà nell’ambito della famiglia e dei suoi bisogni materiali”.

Con il secondo motivo – anch’esso proposto ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3), cod. proc. civ. -, i ricorrenti hanno dedotto la violazione ed erronea applicazione degli artt. 143, 1223, 1226, 2056 e 1916 cod. civ, asserendo che, anche qualora si intendesse aderire all’orientamento minoritario che ravvisa, nell’ipotesi de qua, i presupposti per l’applicazione della “compensatio lucri cum damno”, non si potrebbe, comunque, negare il loro diritto a conseguire la differenza tra quanto da essi preteso a titolo di danno da lucro cessante (329.627 euro) e l’importo di 180mila euro conseguito, in via transattiva e a titolo di rivalsa dall’Inail, da parte dell’assicurazione dell’auto.

In altre parole, il ricorso ha censurato la sentenza impugnata laddove ha confermato la reiezione anche della domanda proposta dai ricorrenti in via di subordine, che la Corte d’Appello di Messina aveva ritenuto “irragionevole”, essendo i congiunti “del tutto estranei all’accordo intervenuto tra le predette pari”, ovvero l’Inail e Toro Assicurazioni.

Questa statuizione non avrebbe tenuto conto del principio secondo cui, dal momento in cui l’ente gestore dell’assicurazione sociale del danneggiato comunichi all’assicuratore Rca del terzo responsabile di aver ammesso l’assicurato danneggiato all’indennizzo, e con ciò lo preavverta di voler effettuare la surroga, “il danneggiato perde la legittimazione ad agire per la parte di risarcimento per cui l’istituto ha dichiarato di volersi surrogare, anche se l’istituto manifesti la propria volontà di surroga” – come accaduto nel caso dì specie, stante la qualità di interveniente volontario di Inail – “quando il giudizio è già in corso”.

Difatti, secondo i ricorrenti, poiché l’Istituto, nel caso di specie, aveva esercitato il suo diritto di surroga definendo la vertenza con la società assicuratrice del responsabile, transattivamente, mediante la riscossione dell’importo di 180mila euro, essi avrebbero “perso la legittimazione ad agire solo per tale importo ma non per l’intero risarcimento del danno patrimoniale” (stimato, come detto, in 329.627 euro), donde il loro diritto almeno alla differenza tra l’una e l’altra somma, giacché, diversamente opinando, “il danneggiante otterrebbe un ingiusto vantaggio in quanto risarcirebbe solo tale voce di danno”, ovvero quello da lucro cessante.

 

I chiarimenti della Cassazione

Secondo la Suprema Corte, tuttavia, il ricorso va rigettato. La questione centrale, concernente l’operatività o meno del principio della “compensatio lucri cum damno”, è stata esaminata alla luce del recente arresto delle Sezioni Unite della Cassazione (Cass. Sez. Un., sentenza del 22 maggio 2018, n. 12566).

La sentenza muove dal rilievo che – in base a un certo indirizzo espresso dalla giurisprudenza di legittimità – “la costituzione, da parte dell’assicuratore sociale, di una rendita in favore dei prossimi congiunti di persona deceduta in conseguenza di un sinistro stradale «in itinere», non esclude né riduce in alcun modo il loro diritto al risarcimento del danno patrimoniale nei confronti del responsabile, non operando in tale ipotesi il principio della «compensatio lucri cum damno», a causa della diversità del titolo giustificativo della rendita rispetto a quello del risarcimento”,

Per cui, ”non sussiste alcuna duplicazione del danno ai sensi dell’art. 1916 cod. civ., che concerne il diritto di surrogazione dell’assicuratore verso il responsabile, e non già il diritto del medesimo di eccepire il pagamento del terzo assicuratore sociale come fatto estintivo o compensativo del proprio debito”.

 

La Suprema Corte propende per il “diffalco”

Tuttavia, osservano gli Ermellini, le Sezioni Unite rammentano come sia prevalente “l’orientamento, di segno opposto, nel senso del diffalco: le somme liquidate dall’Inail in favore del danneggiato da sinistro stradale a titolo di rendita vanno detratte, in base al principio indennitario, dall’ammontare del risarcimento dovuto al danneggiato da parte del terzo responsabile”.

Un indirizzo che si fonda su una serie di argomenti: il valore capitale della rendita Inail corrisponde al valore patrimoniale già risarcito, non ulteriormente computabile a favore del danneggiato, onde evitare duplicazioni di risarcimento sia in favore del danneggiato che a carico del responsabile o del suo assicuratore; nelle assicurazioni sociali, quando l’istituto comunica al terzo responsabile che il caso è stato ammesso all’assistenza prevista dalla legge ed agli indennizzi e lo preavverte della volontà di esercitare il diritto di surroga, la certezza e l’automatismo delle successive prestazioni sono elementi sufficienti per integrare ì presupposti richiesti dall’art. 1916 cod. civ. e determinano l’impossibilità, per il terzo responsabile, di opporre eventuali successivi accordi intervenuti con il danneggiato; in caso di esercizio da parte dell’Inail dell’azione di surroga (che rappresenta una peculiare forma di successione a titolo particolare nel diritto di credito del danneggiato) nei confronti del responsabile del danno, il credito del leso si trasferisce all’istituto previdenziale per la quota corrispondente all’indennizzo assicurativo da questo corrisposto, con la conseguenza che l’infortunato perde, entro tale limite, la legittimazione all’azione risarcitoria, conservando il diritto a ottenere nei confronti del responsabile il residuo risarcimento ove il danno sia solo in parte coperto dalla detta prestazione assicurativa.

Come si continua nella sentenza, le Sezioni Unite hanno ritenuto preferibile quest’ultimo indirizzo, sulla base di un ragionamento che, “sebbene riferito alla prestazione indennitaria (e risarcitoria) fruibile dalla stessa vittima del sinistro, può estendersi al pregiudizio patrimoniale da “lucro cessante” lamentato – in caso di infortunio mortale – dai suoi familiari, relativamente alle prestazioni contemplate dall’art. 66, comma 1, n. 4, del d.P.R. 30 giugno 1966, n. 1124.”.

La base di partenza è la constatazione che, in caso di infortunio sulle vie del lavoro scaturito da un fatto illecito di un terzo estraneo al rapporto giuridico previdenziale, la vittima (il soggetto infortunato ma anche, in caso di decesso, i suoi familiari) “può contare su un sistema combinato di tutele, basato sul concorso delle regole della protezione sociale garantita dall’Istituto e di quanto riveniente dalle regole civilistiche in materia di responsabilità”, ricorrendo, così, un “duplice rapporto bilaterale, rappresentato, per un verso, dal welfare garantito dal sistema di assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro, che dà titolo ad ottenere le prestazioni dell’assicurazione, e, per l’altro, dalla relazione creata dal fatto illecito del terzo, permeata dalla disciplina della responsabilità civile“.

Ora, si tratta di stabilire se tale “duplicità” di strumenti di tutela sia in rapporto di complementarietà o di incompatibilità. Per rispondere a questo interrogativo le Sezioni Unite affermano che è innanzitutto, necessario “superare l’inconveniente di una interpretazione «asimmetrica» dell’art. 1223 cod. civ.: una interpretazione che, quando si tratta di accertare il danno, ritiene che il rapporto fra illecito ed evento può anche non essere diretto ed immediato”, laddove, invece, “esige al contrario che lo sia, quando passa ad accertare il vantaggio per avventura originato dal medesimo fatto illecito”.

 

Le recenti conclusioni delle Sezioni Unite

Fatta questa premessa metodologica, le Sezioni Unite, nel citato arresto, hanno concluso che “nell’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro, la rendita Inail costituisce una prestazione economica a contenuto indennitario erogata in funzione di copertura del pregiudizio (l‘inabilità permanente generica, assoluta o parziale, e, a seguito della riforma apportata dal d.lgs. 23 febbraio 2000, n. 38, anche il danno alla salute) occorso al lavoratore in caso di infortunio sulle vie del lavoro”, cosicché essa, pur potendo “presentare delle differenze nei valori monetari rispetto al danno civilistico”, comunque “soddisfa, neutralizzandola in parte, la medesima perdita al cui integrale ristoro mira la disciplina della responsabilità risarcitoria del terzo, autore del fatto illecito, al quale sia addebitabile l’infortunio «in itinere» subito dal lavoratore”.

 

Il diritto di rivalsa dell’Inail

Nella sentenza, gli Ermellini fanno poi notare che “l’art. 1916 cod. civ. dispone che l’assicuratore che ha pagato l’indennità è surrogato, fino alla concorrenza dell’ammontare di essa, nei diritti dell’assicurato verso il terzo danneggiante”, così come l’art. 142 cod. assicurazioni, per parte propria, “stabilisce che, qualora il danneggiato sia assistito da assicurazione sociale, l’ente gestore di questa abbia diritto di ottenere direttamente dall’impresa di assicurazione il rimborso delle spese sostenute per le prestazioni erogate al danneggiato ai sensi delle leggi e dei regolamenti che disciplinano detta assicurazione”.

Ora, per quanto tali norme regolino dei rapporti intersoggettivi diversi tra loro, le relative fattispecie sono connotate da un elemento comune: la successione nel credito risarcitorio dell’assicurato/danneggiato” (o dei suoi eredi), “la quale attribuisce all’ente gestore dell’assicurazione sociale che abbia indennizzato la vittima” (o i suoi eredi) “la titolarità della pretesa nei confronti dei distinti soggetti obbligati, al fine di ottenere il rimborso tanto dei ratei già versati quanto del valore capitalizzato delle prestazioni future”.

 

Il divieto di “cumulo”

Questo “fenomeno successorio”, esaminato dal punto di vista del danneggiato, “impedisce a costui di cumulare, per lo stesso danno, la somma già riscossa a titolo di rendita assicurativa con l’intero importo del risarcimento del danno dovutogli dal terzo, e di conseguire così due volte la riparazione del medesimo pregiudizio subito”. Ne consegue, spiegano i giudici del Palazzaccio, che “le somme che il danneggiato si sia visto liquidare dall’Inail a titolo di rendita per l’inabilità permanente vanno detratte dall’ammontare dovuto, allo stesso titolo, dal responsabile al predetto danneggiato”. Senza tale detrazione, infatti da un lato il danneggiato verrebbe a conseguire un importo maggiore di quello a cui ha diritto, dall’altro, poi, l’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni si pone come “espressione del «favor» che la Costituzione e il legislatore hanno inteso accordare al lavoratore con l’addossare in ogni caso all’istituto le prestazioni previdenziali, le quali assumono perciò carattere di anticipazione rispetto all’assolvimento dell’obbligo a carico del responsabile”.

Proprio perché l’indennità mantenga tale funzione (solo) di “anticipo” del futuro – eventuale – risarcimento, si palesa come necessario che “l’intervento del sistema di sicurezza sociale attraverso l’erogazione della prestazione assicurativa” non consenta “al lavoratore di reclamare un risarcimento superiore al danno effettivamente sofferto”, permettendogli, “invece, di agire nei confronti del terzo, cui è addebitabile l’infortunio «in itinere», per ottenere la differenza tra il danno subito e quello indennizzato, allo stesso titolo, dall’Inail”; di qui, pertanto, la perdita della “legittimazione all’azione risarcitoria per la quota corrispondente all’indennizzo assicurativo riscosso” (o riconosciuto in suo favore), ed il mantenimento, invece, del “diritto ad ottenere nei confronti del responsabile il residuo risarcimento ove il danno sia solo in parte coperto dalla detta prestazione assicurativa”

 

La Cassazione respinge il ricorso

Da tutti questi principi deriva, secondo la Cassazione, la non fondatezza dei primi due motivi del ricorso. Anche la rendita vitalizia in favore del coniuge superstite del lavoratore vittima di un infortunio “in itinere”, così come quella temporanea liquidata ai figli dello stesso, secondo la Suprema Corte assolve ad una funzione di “anticipo” del ristoro del danno da perdita degli apporti economici garantiti dal loro familiare.

Di conseguenza, nel caso di specie, poiché i ricorrenti hanno ricevuto dall’INAIL la somma di C 375mila, essi non hanno diritto a pretendere le somme ulteriori indicate e non possono richiamare a sostegno della loro richiesta neanche la non operatività della “compensatio lucri cum damno” quanto alla pensione di reversibilità, giacché si tratta di una eccezione che trova la sua ragion d’essere nella peculiarità di tale provvidenza, che realizza una “tutela previdenziale connessa a un peculiare fondamento solidaristico e non geneticamente connotata dalla finalità di rimuovere le conseguenze prodottesi nel patrimonio del danneggiato per effetto dell’illecito del terzo”.

Nè è fondata, concludono gli Ermellini, la pretesa di circoscrivere l’operatività della “compensatio” nei limiti della somma oggetto di transazione tra Inail e compagnia assicurativa per la Rc Auto: pretesa che, al netto del rilievo circa l’estraneità dei ricorrenti a tale contratto, “non risulta in linea con il loro diritto ad ottenere nei confronti del responsabile il residuo risarcimento ove il danno sia solo in parte coperto dalla detta prestazione assicurativa”, giacché il suo accoglimento “varrebbe ad assicurare ai medesimi quel risarcimento ultracompensativo che risulta ammissibile solo in presenza di un’espressa previsione di legge, anche al fine di escludere attribuzioni patrimoniali non sorrette da una adeguata “causa adquirendi”.

Scritto da:

Dott. Nicola De Rossi

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