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Il datore di lavoro ha l’obbligo di fornire e mantenere in stato di efficienza i dispositivi di protezione individuale dei propri dipendenti e, soprattutto, la nozione di Dpi non è circoscritta alle sole attrezzature create e commercializzate appositamente per la protezione di specifici rischi alla salute, in base a caratteristiche tecniche certificate, ma deve essere riferita a qualsiasi attrezzatura, complemento o accessorio, dunque anche indumenti, che possa in concreto costituire una barriera protettiva rispetto a qualsiasi rischio per la salute e la sicurezza del lavoratore, come nel caso delle tute con barre catarifrangenti, che costituiscono per l’appunto una sicurezza per il lavoratore impegnato in attività interferenti con la circolazione stradale.

E’ un’ordinanza significativa sul fronte della tutela dei lavoratori quella, la n. 8042/22, depositata dalla Cassazione, sezione Lavoro civile, l’11 marzo 2022.

Un operatore ecologico cita il Comune di Napoli perché non lava le tute catarifrangenti

L’oggetto del contendere in sé può sembrare poco rilevante, ma in realtà la questione ha una notevole valenza sul piano generale. Un addetto alla raccolta dei rifiuti differenziati per l’Ente di bacino Napoli 5 aveva citato in causa il Comune partenopeo perché ne fosse accertata la violazione dell’obbligo di provvedere alla manutenzione ed al lavaggio del vestiario fornitogli, con particolare riferimento alle tute con barre catarifrangenti, che costituivano, a suo dire, a tutti gli effetti dispositivo di protezione individuale.

In primo grado la sua domanda era stata accolta, ma in secondo la Corte d’Appello di Napoli, con sentenza del 2016, in totale riforma della prima decisione, l’aveva rigettata. Due le ragioni addotte dai giudici a fondamento del loro verdetto: secondo le loro conclusioni il Comune di Napoli non era il datore di lavoro e, quand’anche lo si fosse ritenuto tale, avrebbe dovuto essere qualificato come datore di mero fatto, responsabile, pertanto, nei soli limiti di cui all’art. 2126 c.c., ossia per il pagamento delle retribuzioni e contributi, ma non anche per le pretese risarcitorie. In secondo luogo, il punto che qui più preme,le tute con strisce luminose utilizzate dagli addetti al prelievo dei rifiuti urbani non si potevano qualificare quali Dpi.

Il lavoratore tuttavia non si è dato per vinto e ha proposto ricorso per Cassazione. Innanzitutto, l’operatore ecologico ha eccepito sulla ritenuta carenza di legittimazione passiva (più precisamente, di titolarità del rapporto nel lato datoriale) del Comune di Napoli, asserendo che l’Ente era datore di lavoro di fatto del ricorrente, avendone utilizzato e diretto il rapporto in tutti gli aspetti in luogo dell’Ente Bacino Napoli 5, che in realtà non era mai stato costituito, e quindi l’Amministrazione comunale partenopea, per l’effetto, ex art. 2126 c.c. era responsabile nei suoi confronti anche in termini risarcitori.

E la Suprema Corte gli ha dato ragione piena, accertando effettivamente come il Consorzio di Bacino Napoli 5 non fosse mai stato costituito e l’Ente di Bacino Napoli 5 (non costituito in consorzio) fosse stato gestito, sin dall’origine e sia pure in via di mero fatto, come un ramo dell’amministrazione del Comune di Napoli. “I rapporti di lavoro degli operatori impegnati nel servizio di raccolta differenziata venivano gestiti in via diretta proprio dal Comune di Napoli (o dall’assessore preposto), che ne organizzava prestazione lavorativa e turni di lavoro, pagando poi le retribuzioni” spiega la Cassazione, aggiungendo anche che “la prestazione lavorativa veniva resa in favore del Comune di Napoli, che ha anche fornito gli indumenti di lavoro e i D.P.I”.

Essendo questi i presupposti fattuali del rapporto di lavoro, accertati peraltro anche in sede di merito, “risulta fondata la dedotta violazione degli art. 2094 e 2126 c.c – sottolineano gli Ermellini – È noto, infatti, che elemento essenziale e caratterizzante la subordinazione è l’assoggettamento alla eterodirezione datoriale, ovvero la conformazione della prestazione alle direttive del datore di lavoro

La sentenza impugnata, rilevano ancora i giudici del Palazzaccio, aveva negato la legittimazione passiva del Comune (meglio, la titolarità del rapporto) in quanto non era mai stato il Comune di Napoli a procedere per proprio nome e conto all’assunzione del personale impiegato nel complessivo progetto, ma la relativa azione amministrativa era sempre stata posta in essere dal Commissario e Sub-Commissario di Governo nominati per l’emergenza rifiuti, “limitandosi il ruolo del Comune a quello di soggetto attuatore”. Ma questo percorso motivazionale, obietta la Cassazione, non considera che proprio il ricorrente aveva dedotto non già un valido rapporto di pubblico impiego, ma un rapporto di mero fatto nell’aver lavorato alle dipendenze del Comune di Napoli dal primo novembre 2000 al 30 gennaio 2009, svolgendo le mansioni di addetto alla raccolta di rifiuti differenziati, di cui al terzo livello del c.c.n.l., per i dipendenti di aziende municipalizzate di igiene urbana, non essendo stato costituito l’Ente Bacino Napoli 5. In breve, “lo stesso ricorrente aveva dedotto un rapporto di lavoro di mero fatto, regolato dall’art. 2126 c.c., alle dipendenze del Comune di Napoli quale soggetto che ne aveva diretto e retribuito la prestazione”.

 

Ai datori di lavoro di fatto compete l’obbligo della tutela antinfortunistica

La Cassazione risponde anche ad un’altra obiezione della Corte territoriale, secondo cui l’art. 2126 c.c. farebbe salvi solo i diritti retributivi e contributivi maturati a seguito di un rapporto di lavoro nullo e non anche quelli risarcitori ad esso connessi: affermazione, questa, incalzano gli Ermellini, che si pone in contrasto con la ratio stessa dell’art. 2126 c.c., “che è quella di garantire al lavoratore gli stessi diritti anche ulteriori rispetto a quelli meramente retributivi e previdenziali – che egli avrebbe avuto se il rapporto fosse stato validamente instaurato. Non a caso, ad esempio, l’obbligo di apprestare ogni tutela antinfortunistica per il lavoratore sussiste anche in capo al datore di lavoro di fatto ed indipendentemente dalla conclusione di un valido contratto”.

In materia di prevenzione degli infortuni sul lavoro, richiama il principio la Suprema Corte , “l‘obbligo del datore di lavoro di apprestare adeguate tutele antinfortunistiche in favore dei lavoratori subordinati sussiste indipendentemente dalla conclusione di un formale contratto di lavoro e si estende, pertanto, nei confronti di tutti gli addetti, anche solo di fatto, ad una determinata attività lavorativa, anche se questa sia svolta senza compenso alcuno e per mero spirito religioso. Siffatto principio è tuttora immanente nel nostro sistema e ricavabile, oltre che dall’art. 2087 c.c., anche dagli artt. 2, lett. b), e 299 del d.lgs. n. 81 del 2008, con la conseguenza che chi di fatto esercita i poteri decisionali e di spesa (si vedano gli artt. 1 e 299) ed ha la responsabilità dell’organizzazione del lavoro deve predisporre ogni presidio atto a tutelare salute e sicurezza dei relativi addetti”.

 

Va qualificata come Dpi ogni attrezzatura che protegga da rischi, comprese le tute riflettenti

Stabilito che il Comune di Napoli poteva essere chiamato in causa pienamente a ragione, la Cassazione passa al secondo, essenziale motivo di doglianza nei confronti della sentenza impugnata espresso dal lavoratore, il quale sosteneva che che ciò che vale a differenziare i Dpi rispetto agli ordinari indumenti di lavoro è l’astratta idoneità dei primi a preservare la salute del lavoratore rispetto ai rischi connessi all’espletamento della prestazione lavorativa, avuto riguardo al contenuto della prestazione stessa e alle modalità di tempo e di luogo in cui viene effettuata.

Ed anche qui la Suprema Corte dichiara fondata l’argomentazione, chiarendo che “la nozione legale di Dispositivi di Protezione Individuale (D.P.I.) non si riduce alle attrezzature appositamente create e commercializzate per la protezione di specifici rischi alla salute in base a caratteristiche tecniche certificate, ma va riferita a qualsiasi attrezzatura, complemento o accessorio che possa in concreto costituire una barriera protettiva rispetto a qualsiasi rischio per la salute e la sicurezza del lavoratore, in conformità con l’art. 2087 c.c., come nel caso delle tute con barre catarifrangenti”.

Ne consegue ovviamente la “configurabilità a carico del datore di lavoro di un obbligo di fornitura e di mantenimento in stato di efficienza di tali indumenti di lavoro, anche essi inquadrabili nella categoria dei D.P.I” proseguono gli Ermellini, citando la sentenza della Cassazione n. 16749/19 che riguardava proprio gli addetti alla raccolta e allo smaltimento dei rifiuti solidi urbani. Un orientamento a cui i giudici del Palazzaccio intendono dare continuità anche nel caso specifico, “sul rilievo che le caratteristiche intrinseche degli indumenti descritti nella sentenza della Corte territoriale (“indumenti ad alta visibilità”, “giacca e pantalone di colore arancione fluorescente”), in relazione all’attività lavorativa del prestatore, addetto alla raccolta differenziata dei rifiuti, sono sufficienti a qualificarli come Dpi perché volti a proteggere i lavoratori dai pericoli connessi alla raccolta dei rifiuti in strada in concomitanza con la normale circolazione dei veicoli”. La sentenza è stata pertanto cassata con rinvio alla Corte di appello di Napoli, in diversa composizione.

Scritto da:

Dott. Nicola De Rossi

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Categoria:

Contenzioso con Pubblica Amministrazione

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