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Che il destino di un procedimento penale per un fatto di estrema gravità qual è un omicidio stradale dipenda dal cosiddetto “schizzo di campagna” non depone certo a favore della cura con cui (non) sono evidentemente state condotte le indagini, ma il tragico caso di cui si è occupata la Cassazione, con la sentenza 20091/21 depositata il 20 maggio 2021, è significativo per chiarire una serie di elementi con particolare riferimento all’aspetto del concorso di colpa.

 

Automobilista condannato per omicidio stradale

Qui infatti un punto fermo era assodato, ossia la grave responsabilità di un automobilista che aveva travolto e ucciso un ciclista. L’imputato infatti era stato condannato per omicidio stradale sia in primo grado, dal Tribunale di Pisa, sia in secondo, dalla Corte d’Appello di Firenze, che aveva in buona sostanza confermato il verdetto di prime cure. Gli si imputava di aver superato altre due vetture in presenza di linea continua di mezzeria mentre percorreva con la sua Fiat 500 la strada regionale 68 in direzione di Saline di Volterra e, nel rientrare repentinamente nella propria corsia di marcia all’approssimarsi dei una curva, di aver sbandato e investito la bicicletta condotta dalla vittima che procedeva nello stesso senso di marcia.

La dinamica dell’accaduto era stata ricostruita dal giudice di primo grado sulla scorta delle sommarie informazioni, rese nell’immediatezza del fatto e successivamente confermate, dall’unico teste oculare, il conducente di una delle due auto superate, ma era stato nominato anche un consulente tecnico, un ingegnere cinematico, i cui accertamenti avevano portato a concludere che l’urto tra la bici e la Fiat 500 sarebbe avvenuto al centro della corsia di pertinenza dei due mezzi, a circa 20 metri dalla fine della curva sinistrorsa che precedeva il rettilineo in cui si era consumato il fatale impatto.

Il ricorso per Cassazione dell’imputato che sostiene di aver rispettato il limite di velocità

L’automobilista ha quindi proposto ricorso per Cassazione, sollevando tre motivi di doglianza. Con il primo ha lamentato del fatto che la Corte d’appello avesse reputato la velocità tenuta non adeguata alle condizioni di tempo e di luogo, e tale da essere inidonea ad evitare l’investimento del ciclista, senza però precisare quale dovesse essere l’andatura adeguata al caso concreto.

Motivo, questo, che gli Ermellini hanno rigettato, fornendo anche utili chiarimenti al riguardo della cosiddetta velocità “esigibile”. “L’accertamento della violazione cautelare – spiega la Suprema Corte – richiede la preliminare identificazione della regola che doveva essere osservata nel caso concreto. Operazione, questa, che si rivela meno agevole allorquando la regola cautelare non ha un contenuto sufficientemente determinato, come invece avviene per le cosiddette regole cautelari “rigide”.

 

Le regole cautelari “elastiche”

Quella riguardante la velocità, l’art 141 del codice della strada, infatti, è una norma cautelare cosiddetta “elastica” e come tale necessita, per la sua applicazione, “di un legame più o meno esteso con le condizioni specifiche in cui l’agente deve operare, mentre regole cautelari cosiddette “rigide” sono quelle che fissano con assoluta precisione lo schema di comportamento”.

Entrambi i giudici di merito avevano ritenuto che il ricorrente avesse violato l’art. 141, comma 3, cod. strada, il quale, com’è ben noto, impone al conducente di regolare la velocità, tra l’altro, nei tratti di strada a visibilità limitata, nelle curve.

Un articolo che, prosegue la Suprema Corte, impone di tenere una velocità prudenzialema non definisce quale essa sia attraverso parametri “rigidi”, valevoli in ogni caso, giacché intende che essa sia definita in relazione alle condizioni concrete nelle quali si pone l’atto della guida. È la stessa disposizione dell’art. 141 cod. strada a venire in soccorso: da essa, infatti, emerge che la velocità prudenziale è quella che permette al conducente di mantenere il controllo del proprio veicolo e di compiere manovre di emergenza senza creare ulteriori pericoli; di arrestare il veicolo entro i limiti del proprio campo di visibilità e dinanzi ad ostacoli prevedibili”.

 

L’investitore non aveva tenuto un’andatura congrua allo stato dei luoghi e prudenziale

Tutti principi a cui la Corte territoriale, secondo la Cassazione, si è correttamente uniformata, fornendo, “con giudizio conforme alle risultanze istruttorie”, congrua e coerente motivazione sulla colpa ascrivibile all’imputato e sulla sua incidenza sotto il profilo causale. Entrambi i giudici di merito avevano ritenuto che causa dell’incidente fosse stata la velocità non prudenziale tenuta dall’imputato, cui andava ad aggiungersi una sua probabile distrazione, ovvero un suo fallito tentativo di superare la bicicletta senza urtarla: ciò in considerazione del fatto che non erano state rilevate tracce di frenata nella fase ante urto e che non vi è stato il superamento del velocipede da parte dell’imputato.

Nella ricostruzione operata dai giudici di merito – conclude sul punto la Cassazione – la velocità tutt’altro che prudenziale della Fiat 500 è stata dunque ritenuta la causa principale del sinistro perché ha impedito al conducente dell’auto, una volta venutosi a trovare in pochi istanti ad immediato ridosso della bicicletta e constatata l’impossibilità di superarla, di arrestare l’auto in tempo utile a scongiurare la collisione. La velocità dell’automobilista, stimata in circa 90 km/h, pur corrispondente al limite massimo stabilito per quella strada, si rilevava, tuttavia, del tutto inadeguata in rapporto allo stato dei luoghi, dato che quel tratto di strada era connotato dalla presenza di un dosso a visibilità totalmente preclusa, di accessi laterali e di due curve, opportunamente presegnalate, di cui la prima con ridotto raggio di curvatura e visibilità limitata”: dunque, anche una velocità pari a 65/70 km/h, come stimata dal consulente tecnico, non sarebbe stata adeguata.

La Suprema Corte accoglie invece il motivo sul concorso di colpa

La suprema Corte ha invece ritenuto fondato il secondo motivo di doglianza del ricorrente, che ha lamentato illogicità e contraddittorietà della motivazione con riguardo al concorso del ciclista nella causazione dell’evento. La Corte territoriale, a detta dell’imputato, avrebbe liquidato in modo eccessivamente sintetico la questione senza tenere conto dell’unico elemento oggettivo rilevato dai Carabinieri, evidenziato, per l’appunto, nel cosiddetto “schizzo di campagna” elaborato dai militari che avevano effettuato i rilievi, schizzo che individuava il punto d’urto come più vicino alla linea di mezzeria che al margine destro della carreggiata.

Se dunque il ciclista si fosse mantenuto sul margine destro, il sinistro non si sarebbe verificato: questa la tesi sostenuta dal ricorrente. E se la Corte territoriale avesse valutato questa circostanza sarebbe pervenuta a ridurre la pena ai sensi del comma 7 dell’art. 589-bis cod. pen., così come era stato richiesto nell’atto di appello.

 

La circostanza attentante nel reato di omicidio stradale

La circostanza attenuante ad effetto speciale di cui all’art. 589-bis, comma 7, cod. pen., fa riferimento all’ipotesi in cui l’evento non sia esclusiva conseguenza dell’azione o dell’omissione del colpevole: ipotesi che ricorre nel caso in cui sia accertato il cosiddetto “concorso di colpa” fra il presunto responsabile e altro utente della strada (la vittima, ma non solo essa).

Va precisato – evidenziano gli Ermellini – che la norma non evoca alcuna percentuale di colpa né in capo al colpevole, né in capo ad altri, con la conseguenza che anche una minima percentuale di colpa altrui potrà valere a integrare la circostanza attenuante”. E dunque, sotto questo profilo, il motivo di ricorso coglie effettivamente nel segno secondo la Cassazione, “dato che la motivazione della sentenza impugnata sul concorso di colpa del ciclista appare del tutto apodittica e, quindi, di fatto, inesistente, atteso che la questione era stata devoluta dall’imputato con specifico motivo di appello”.

La Cassazione peraltro ricorda che sul punto anche la sentenza di primo grado, pur nulla stabilendo al riguardo, “dava in effetti atto di quanto rilevato dallo stesso perito, e cioè che il ciclista, nel percorrere il breve rettilineo in ascesa che collega le due curve presenti sulla strada in questione, viaggiava in prossimità del centro della propria corsia di marcia e non sul margine destro della carreggiata, come prescrive l’art. 143, comma 2, cod. strada”.

Dunque, solo per questo motivo la sentenza è stata cassata con rinvio ad altra sezione della d’appello di Firenze che dovrà ri-pronunciarsi sul possibile concorso della persona offesa nella causazione dell’evento.

Scritto da:

Dott. Nicola De Rossi

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Categoria:

Blog Incidenti da Circolazione Stradale

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