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Il medico chirurgo, in situazioni a rischio, è sempre tenuto a monitorare il paziente che ha operato pur in mancanza di segnali di allarme, viceversa ne risponde. A stabilire questo principio e a ribadire la totale tutela di cui devono godere quanti usufruiscono di cure sanitarie la Cassazione, quarta sezione Penale, con la sentenza n. 13375/24 depositata il 3 aprile 2024.

Donna muore per emorragia post partum da atonia uterina

La Suprema Corte ha trattato un grave caso di mala sanità di cui era rimasta vittima una donna salernitana, deceduta nel 2012 all’ospedale San Giovanni di Dio e Ruggi d’Aragona di Salerno a causa di una emorragia post partum da atonia uterina.

La puerpera, al nono mese di gravidanza, si era ricoverata presso la Casa di cura “Tortorella“, sempre a Salerno, per sottoporsi a un programmato intervento di taglio cesareo e dare alla luce il suo quinto figlio. L’operazione era stata eseguita dallo stesso medico di fiducia della donna, assistito da un altro dottore e da un’ostetrica e, subito dopo l’intervento, e dopo un controllo soddisfacente dell’immediato post partum, la paziente era stata ricondotta nella stanza di degenza ordinaria.

In tale fase, secondo quanto riportato in cartella clinica, erano stati eseguiti un rilevamento della temperatura corporea e della pressione arteriosa e un controllo del chirurgo operatore, nella stessa serata, con riscontro di condizioni buone e di utero contratto. Un’ora dopo, tuttavia, l’ostetrica aveva allertato il medico inter-divisionale della struttura sanitaria in quel momento di turno, per la verifica di un grave quadro di shock ipovolemico in atto.

Era stato avvisato il medico di guardia di ginecologia, che aveva annotato in cartella clinica dispnea, ipotensione, tachicardia e abbondanti perdite dai genitali esterni. Dopo un’infruttuosa terapia farmacologica, in tarda serata alla puerpera era stata praticata una laparotomia esplorativa e, poco dopo, una laparoisterectomia, con diagnosi di atonia uterina postcesareo. Nel corso dell’intervento però, la paziente era andata in arresto cardiocircolatorio: gli operatori erano riusciti a rianimarla e ne era stato quindi disposto il trasferimento nel più attrezzato ospedale principale di Salerno, dove però sarebbe deceduta dopo una settimana di agonia. All’esito dei giudizi di merito e delle consulenze espletate in primo grado, non era emerso alcun dubbio sulla causa della morte, concordemente ritenuta da ricondurre alla negativa evoluzione di una emorragia post partum da atonia uterina.

 

Condannati il chirurgo e l’ostetrica per non aver monitorato nel post partum la paziente

Sia il Tribunale in primo grado sia la Corte d’appello salernitana in secondo avevano ritenuto responsabili della morte della paziente, condannandoli per omicidio colposo in concorso, il chirurgo che aveva effettuato l’intervento e l’ostetrica, non imputando loro censure quanto all’esecuzione degli interventi, ma rimproverando ai sanitari, nelle rispettive posizioni di garanzia, di non avere accuratamente monitorato le condizioni cliniche della paziente nelle prime ore dopo il parto e, in particolare, di non aver verificato alcuni parametri (pressione arteriosa, frequenza cardiaca, contrazione dell’utero, livelli di emoglobina nel sangue) che avrebbero consentito una precoce diagnosi di atonia uterina e dell’emorragia post partum in corso e, in tal modo, di prevenire ed impedire la progressione della patologia nei termini infausti in cui si concluse.

I due imputati tuttavia hanno proposto ricorso per Cassazione, in particolare il chirurgo sosteneva di aver affidato la paziente, dopo aver seguito il post operatorio, sollecitando ulteriori controlli ed esami, alle strutture e all’organizzazione della clinica: secondo la tesi difensiva, doveva quindi operare il principio di affidamento quale limite all‘obbligo di diligenza gravante su ogni titolare della posizione di garanzia; l’avvocato del medico ha anche richiamato la giurisprudenza della Suprema Corte in tema di équipe medica, sostenendo che l’accertamento del nesso causale doveva essere compiuto con riguardo alla condotta e al ruolo di ciascuno, “non potendosi aprioristicamente configurare una responsabilità di gruppo, specie quando ruoli e compiti degli operatori siano nettamente distinti tra loro”. In conclusione, ai fini della valutazione della condotta dell’imputato, le diagnosi e le omissioni realizzate da altri medici, successivamente intervenuti, con particolare riferimento al ginecologo di turno che non era stato invece ritenuto responsabile, dovevano trovare il limite tracciato dal doveroso affidamento del chirurgo operatore al cospetto di comportamenti che avevano il carattere della eccezionalità ed imprevedibilità.

Ma la Suprema Corte ha rigettato le doglianze. Gli Ermellini alla fine hanno annullato senza rinvio la sentenza impugnata agli effetti penali per l’intervenuta prescrizione del reato contestato, ma hanno riaffermato nel contempo le responsabilità dei due imputati rigettando il ricorso agli effetti civili.

La posizione di garanzia del capo équipe chirurgica ci estende anche al contesto post-operatorio

La posizione di garanzia del capo dell’equipe chirurgica non è limitata all’ambito strettamente operatorio, ma si estende al contesto postoperatorio, giacché il momento immediatamente successivo all’atto chirurgico non è avulso dall’intervento operatorio. Le esigenze di cura ed assistenza del paziente devono poi essere, con tutta evidenza, rapportate alle peculiarità del caso concreto: peculiarità note al medico che ha condotto l’intervento più che ad ogni altro sanitario, anche per la precipua considerazione che (omissis) era il medico di fiducia della donna e l’aveva seguita nei parti precedenti”, e dunque era a conoscenza delle criticità, spiegano i giudici del Palazzaccio.

 

Mancata la predisposizione di un monitoraggio adeguato e accurato

E aggiungono. “La Corte di appello ha esaminato la concreta vicenda processuale, anche alla luce delle informazioni scientifiche offerte dagli esperti, reputando che, in tale situazione, fosse imprescindibile disporre un monitoraggio accurato e costante dei parametri vitali. La mancata adozione di tale cautela ha avuto decisivo ruolo nello sviluppo degli accadimenti, impedendo l’esecuzione tempestiva delle procedure occorrenti per fronteggiare la sopraggiunta emorragia. L’imputato ha colpevolmente omesso tale essenziale prescrizione che afferiva al suo ruolo di garante. Per le ragioni testé richiamate, priva di pregio appare la doglianza secondo cui la condotta asseritamente omissiva del ginecologo di turno si porrebbe come causa esclusiva dell’evento, atteso l’affidamento che l’imputato avrebbe riposto nell’intervento di costui. Si tratterebbe comunque di condotta che, non ponendosi in termini di eccezionalità e di imprevedibilità, non fa venir meno la responsabilità dell’imputato.

E in conclusione la Cassazione ha affermato il seguente principio di diritto: “in presenza di situazioni ad alto rischio, il medico, pur in mancanza di specifici segnali di allarme, è tenuto ad adottare tutte le cautele del caso e, in particolare, a disporre un attento regime di monitoraggio della paziente, nonché l’effettuazione ad opera del personale qualificato di tutti i necessari controlli, onde evitare eventi lesivi”.

 

Scritto da:

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Dott. Nicola De Rossi

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Categoria:

Malasanità

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