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La morte, tanto più se per colpa altrui, di un proprio caro fa presumere da sola una conseguente e profonda sofferenza morale da parte dei congiunti, che convivessero o meno con la vittima. A riaffermare con forza questo principio di diritto, oltre che di buon senso e di tutta evidenza, la Cassazione, terza sezione Civile, con l’ordinanza n. 2776/24 depositata il 30 gennaio 2024 con la quale ha rigettato l’ennesimo ricorso di un’Azienda sanitaria che, per non risarcire il dovuto, metteva in dubbio il legame affettivo tra un paziente deceduto per malpractice medica e i suoi familiari.

Paziente deceduto per un caso di mala sanità

L’uomo era stato sottoposto a colonscopia presso l’ambulatorio del Nuovo Ospedale San Giovanni di Dio di Firenze: l’esame aveva evidenziato la presenza di polipi del colon nonché di lesioni dell’intestino che, all’esito dell’esame istologico, erano risultati adenomi tubulo villosi intestinali, vale a dire formazioni tumorali.

Il paziente però era stato dimesso, con il consiglio di ritornare in ospedale qualora avesse riscontrato nuovamente sangue nelle feci. Cosa che la vittima avrebbe fatto di lì a poco, recandosi nuovamente al pronto soccorso del San Giovanni di Dio con forti dolori addominali. Da quel momento era stato sottoposto ad una ulteriore colonoscopia, da cui era emersa la necessità di procedere subito con un intervento chirurgico, che sarebbe stato effettuato, ma ormai evidentemente troppo tardi: le sue condizioni si sono progressivamente aggravate tanto da richiedere il trasferimento in Rianimazione, da dove però non sarebbe più uscito, spirando qualche giorno dopo.

I congiunti citano l’Asl per il risarcimento dei danni e i giudici accolgono la domanda

La moglie, i figli, i fratelli e la sorella della vittima hanno quindi citato in causa l’Asl per ottenere il risarcimento dei danni da perdita del loro congiunto che essi attribuivano all’ operato dei medici protagonisti di questa triste vicenda, e sia il Tribunale di Firenze, sia, in secondo grado, la Corte d’appello toscana avevano accertato i gravi errori commessi dai sanitari riconoscendo ai congiunti dell’uomo sia il danno non patrimoniale iure proprio che quello patrimoniale.

L’azienda ricorre in Cassazione per la mancata prova del legame affettivo tra vittima e familiari

L’azienda sanitaria tuttavia ha proposto ricorso per Cassazione lamentando, tra i vari motivi, che i giudici territoriali avrebbero riconosciuto il danno come se fosse in re ipsa, ossia senza che gli eredi avessero fornito alcuna prova del legame affettivo che li univa al loro congiunto.

Ma la doglianza è rigettata, la sofferenza per la perdita del proprio caro è presumibile da sola

Ma per la Suprema Corte la doglianza è infondata. Ed è appunto qui che la Cassazione ricorda che “l’uccisione di una persona fa presumere da sola, ex art. 2727 c.c., una conseguente sofferenza morale in capo ai genitori, al coniuge, ai figli o ai fratelli della vittima, a nulla rilevando né che essa e il superstite non convivessero, né che fossero distanti” circostanze, queste ultime, che potranno al massimo incidere sulla quantificazione del risarcimento, ma in alcun modo escluderlo.

 

Scritto da:

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Dott. Nicola De Rossi

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Categoria:

Malasanità

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