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In tema di danno da infezione trasfusionale, e nell’azione di responsabilità contrattuale nei confronti dell’ospedale, non spetta al danneggiato di dover provare che al momento della trasfusione incriminata non era infetto, ma al contrario è la struttura sanitaria chiamata in causa a dover dimostrare che il paziente in quel momento era già affetto dell’infezione per la quale domanda il risarcimento.

E’ un’ordinanza di fondamentale importanza a tutela delle vittime di trasfusioni da sangue infetto, e più in particolare relativa al delicatissimo aspetto, in questi casi, dell’onere probatorio, quella depositata dalla Corte di Cassazione, Terza Sezione Civile, il 7 settembre 2023, la numero 26091/23.

Paziente cita Azienda sanitaria per l’epatite contratta a seguito di trasfusione da sangue infetto

Una donna nel 2009 aveva citato in giudizio un’Azienda Sanitaria Provinciale per ottenere il risarcimento dei danni subiti a causa dell’epatite (epatopatia HCV) che avrebbe contratto, a quanto denunciato, in seguito a un’emo-trasfusione eseguita presso un ospedale pubblico locale nel dicembre del 1998. L’Asp si era costituita eccependo il proprio difetto di legittimazione passiva, chiedendo la declaratoria di legittimazione passiva del Ministero alla Salute ed il rigetto della domanda perché infondata.

Per i giudici d’appello la donna non aveva provato di essere immune al momento del ricovero

Il Tribunale, disposta ed esperita la consulenza tecnica d’ufficio medico-legale, aveva accertato la responsabilità dell’Asp e, in accoglimento della domanda della paziente, l’aveva condannata al risarcimento dei danni alla persona patiti dalla danneggiata nella misura di 286.355,40 euro.

In sede di appello, tuttavia, la decisione di primo grado era stata integralmente riformata per difetto della prova del nesso di causalità materiale. Secondo la Corte d’appello di Caltanissetta, nell’accogliere il gravame dell’Azienda Sanitaria, da un lato la paziente non aveva provato di essere immune da epatite al momento del ricovero, quando era risultata affetta da una generica sofferenza epatica astrattamente compatibile con una infezione da epatite, dall’altro l’Asp aveva allegato di utilizzare un procedimento cosiddetto “a circuito chiuso”, che, secondo la rinnovata Ctu, “in condizioni standard di normalità non consentiva alcuna contaminazione“.

Ma la Cassazione le dà ragione: è la struttura a dover dimostrare che la paziente era già infetta

La danneggiata ha quindi proposto ricorso per Cassazione, che ha accolto i suoi motivi di doglianza stabilendo un principio chiave in materia di ripartizione dell’onere della prova: in tema di danno da infezione trasfusionale, è onere della struttura sanitaria dimostrare che, al momento della trasfusione, il paziente fosse già affetto dall’infezione di cui domanda il risarcimento, nonché allegare e dimostrare di avere rispettato, in concreto, le norme giuridiche, le leges artis e i protocolli che presiedono alle attività di acquisizione e perfusione del plasma.

Scritto da:

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Dott. Nicola De Rossi

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Categoria:

Malasanità

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