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Nel valutare una domanda di risarcimento danni, un giudice deve tenere conto del contenuto sostanziale della pretesa e non delle formule adottate dal richiedente: insomma, sostanza e non forma. E’ una sentenza “forte” contro il “formalismo” di tanti tribunali quella depositata il 13 febbraio 2023, la n. 4302/23, dalla Cassazione, che ha accolto in pieno il ricorso di un uomo rimasto convolto in un incidente stradale.

 

Passeggero ferito in un sinistro lamenta la scarsa liquidazione del danno alla capacità lavorativa

Nel caso di specie la dinamica conta poco trattandosi di un terzo trasportato che, come tale, ha sempre diritto ad essere risarcito: per la cronaca, comunque, il passeggero aveva citato in giudizio il conducente della vettura dove viaggiava e il procedimento in tribunale si era concluso con il riconoscimento di una corresponsabilità determinata nel 20 per cento a carico di quest’ultimo e per la (maggiore) restante parte in capo al guidatore dell’altra auto coinvolta nel sinistro. La decisione tuttavia era stata appellata dal danneggiato che aveva lamentato una insufficiente liquidazione del danno alla capacità lavorativa specifica – lavorava come radiologo in libera professione – e da perdita di chance, che, anche sulla scorta di una consulenza tecnica d’ufficio, il Tribunale aveva liquidato nella misura (solo) del cinque per cento.

In appello richiesta respinta perché sarebbe stata formulata in modo generico

Le controparti in secondo grado non avevano proposto appello incidentale ma avevano eccepito la “novità” della domanda di risarcimento per la perdita della capacità lavorativa specifica e della chance, sostenendo che, in primo grado, quella domanda era stata formulata in modo generico, non conteneva specificamente la richiesta di risarcimento della perdita di capacità lavorativa specifica, ma era compresa in una formula buona ad indicare ogni tipo di danno, e la Corte d’appello di Bologna aveva accolto tale eccezione, ritenendo che i fatti identificativi della domanda non fossero stati specificati.

Più precisamente, i giudici di seconde cure, avevano reputato che la domanda di risarcimento del danno alla capacità lavorativa specifica e di perdita della chance non fosse stata espressamente formulata in primo grado in quanto, pur essendovi formalmente un riferimento alla perdita della specifica attività lavorativa, quantificata in 35 mila euro, il danneggiato non aveva indicato, per citare la sentenza, “nemmeno genericamente, alcuna circostanza di fatto, sulla quale basava le sue pretese”, né avrebbe allegato “alcun documento a precisare fatti a illustrazione e sostegno delle stesse; in nessuna parte dell’atto fece riferimento al dato fattuale della impossibilità di svolgere i turni sopra indicati e l’attività libero professionale, nemmeno affermò che prima del sinistro svolgesse i turni e attività libero professionale”.

Il danneggiato ricorre anche per Cassazione

A questo punto, dunque, il danneggiato ha proposto ricorso anche per Cassazione, obiettando che, contrariamente a quanto affermato dalla Corte di Appello, egli in realtà aveva allegato le prove della perdita di capacità lavorativa, così come la circostanza di non poter più svolgere turni di servizio che copriva in precedenza, oltre all’impossibilità di dedicarsi alla libera professione. La Corte di Appello, assumendo che alcun fatto era stato allegato ad illustrare la domanda di risarcimento, non avrebbe dunque preso in considerazione tali documenti, e con essi il fatto allegato, trascurando anche il fatto processuale di richiesta delle prove volte a dimostrare quella perdita.

Inoltre, ed è il punto su cui si è particolarmente soffermata la Cassazione, il danneggiato ha lamentato il fatto che la Corte di Appello avesse ritenuto non formulata in primo grado alcuna domanda di risarcimento del danno da perdita di chance e capacità lavorativa specifica, sulla base di un criterio errato di qualificazione della domanda, reputando cioè che occorressero “formule sacramentali” per esprimere quella richiesta, laddove invece, secondo assodati principi di diritto, l’interpretazione delle domanda si può compiere esaminando il complessivo tenore dell’atto, e tenendo conto degli atti allegati, criterio questo che invece sarebbe stato del tutto disatteso dalla Corte di Appello.

 

La Suprema Corte gli dà ragione piena, il giudice deve tenere conto del contenuto sostanziale

Obiezione, questa, accolta in pieno dalla Suprema Corte, la quale conviene con il ricorrente che è principio di diritto che “nell’esercizio del potere di interpretazione e qualificazione della domanda, il giudice di merito non è condizionato dalla formula adottata dalla parte, dovendo egli tener conto del contenuto sostanziale della pretesa come desumibile dalla situazione dedotta in giudizio e dalle eventuali precisazioni formulate nel corso del medesimo, nonché del provvedimento in concreto richiesto, non essendo condizionato dalla mera formula adottata dalla parte”.

In buona sostanza, nell’interpretare la domanda, “e ciò vale anche quando si tratta di stabilire se di ritenerla proposta o meno” puntualizzano gli Ermellini, il giudice di merito “non deve fermarsi alla formula adottata dalla parte nelle conclusioni, ma deve considerare il contenuto sostanziale dell’atto, compreso ciò che lo supporta, ossia documenti e richieste di altre prove”.

Pertanto, se una domanda sia stata proposta e se lo sia stata in modo sufficiente, “è questione che si desume dall’intero contenuto dell’atto, non solo dalle espressioni utilizzate”, che comunque in questo caso erano ugualmente indicative, “avendo il ricorrente quantificato espressamente in 35 mila euro la somma per la perdita della capacità lavorativa specifica” proseguono i giudici del Palazzaccio.

La Cassazione conviene sul fatto che la “domanda deve consistere non solo nella richiesta finale, ma anche nella indicazione degli elementi su cui è basata”, e tuttavia ribadisce che “tali elementi possono e devono desumersi dal contenuto sostanziale e dalle finalità che la parte intenda perseguire”.

In altre parole, anche se il danneggiato si limiti a richiedere genericamente il risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali, “la domanda specifica di risarcimento dei danni da perdita di capacità lavorativa specifica, e di chance, non può dirsi per ciò stesso assente, qualora, dal contenuto dell’atto, comprese le richieste istruttorie ed i documenti allegati, risulti che il ricorrente intendeva proporla”.

 

Nello specifico, le allegazioni del danneggiato erano più che sufficienti per supportare la pretesa

La Suprema corte rammenta poi che, laddove venga denunciato un “error in procedendo” per omessa pronuncia su un capo di domanda che si afferma regolarmente proposto, “spetta al giudice di legittimità il potere-dovere di procedere direttamente all’esame e all’interpretazione degli atti processuali e, in particolare, delle istanze e delle deduzioni delle parti”. E sulla base di quanto riportato dallo stesso ricorrente, il quale aveva indicato di svolgere prima dell’incidente turni notturni ed estivi, e che, dopo l’incidente, non era più in grado di effettuarli, gli Ermellini concludono che “questa allegazione è sufficiente ad identificare una domanda di risarcimento di tale perdita; allo stesso modo, egli aveva allegato di aver perso opportunità di libera professione, ed anche questa allegazione è indicativa di una domanda di risarcimento di tale perdita”.

In conclusione, e in sostanza, dal contenuto complessivo dell’atto, e dunque “al di là delle formule utilizzate”, si poteva ben dedurre che il ricorrente aveva proposto la domanda di risarcimento della perdita di capacità lavorativa e di chance, “in quanto tale domanda, al di là della generica richiesta di risarcimento dei danni patrimoniali e non, era ricavabile dall’insieme delle sue difese e allegazioni, di cui non si è tenuto conto”. La sentenza impugnata è stata pertanto cassata con rinvio alla Corte di Appello di Bologna, in diversa composizione.

Scritto da:

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Dott. Nicola De Rossi

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Categoria:

Incidenti da Circolazione Stradale

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