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Le somme che vengono liquidate in via equitativa dal giudice nelle cause di lavoro per danni alle capacità professionali del lavoratore, ad esempio nei casi di ingiusto demansionamento, vanno considerate “non imponibili”, cioè non soggette a tassazione, in quanto si configurano come danno emergente e quindi sono volte a risarcire la perdita economica subita dal patrimonio: pertanto non sono assoggettabili a ritenuta alla fonte ai sensi della normativa fiscale.

Si tratta di una conferma di assoluto rilievo, non solo per il gran numero di lavoratori interessati, ma anche perché arriva dalla fonte più autorevole, ossia dalla stessa Agenzia delle Entrate, con la risposta a un interpello ad hoc, la n. 185/2022.

Una società condannata a risarcire un ex dipendente per demansionamento

A porre il quesito un’azienda che aveva corrisposto, a titolo di risarcimento per demansionamento, a favore di un ex dipendente la somma di 28.507,40 euro, a seguito di una sentenza del Tribunale – Sezione Lavoro. Il lavoratore aveva presentato ricorso contro la società per accertare il trentennale demansionamento operato ai suoi danni ed ottenere il risarcimento del danno patrimoniale, biologico, morale nonché esistenziale. I giudici, in parziale accoglimento del ricorso, avevano riconosciuto al ricorrente di aver subito un danno alla sua professionalità quale conseguenza del demansionamento, mentre aveva negato il riconoscimento del danno non patrimoniale, biologico, morale ed esistenziale. Perciò, l’azienda era stata condannata, a titolo di risarcimento del danno in favore del ricorrente, al pagamento, determinato in via equitativa, della somma di 16mila euro oltre rivalutazione ed interessi dalla data di cessazione della condotta lesiva, nonché al rimborso delle spese di lite.

L’azienda però applica la ritenuta alla fonte sulla somma da liquidare

Nel 2020, la società, rinunciando a proporre appello avverso la sentenza, aveva corrisposto all’ex dipendente la somma complessiva, per l’appunto, di 28.507,40 euro ma sull’importo liquidato a titolo di risarcimento del danno, oltre che sugli accessori, l’azienda aveva operato, prudenzialmente, la ritenuta di cui all’articolo 23 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, ed aveva provveduto al versamento della stessa entro il 16 del mese successivo all’erogazione delle somme e al rilascio della CU 2021.

Il 30 dicembre 202, il dipendente aveva notificato alla ex datrice di lavoro un atto di precetto ai sensi dell’articolo 480 c.p.c., affinché gli venisse corrisposta la somma di 7.203,67 euro, pari alla differenza tra quanto liquidato con la sentenza e quanto effettivamente ricevuto, contestando l’applicazione delle ritenute alla fonte, in quanto le somme ricevute, non sarebbero state assoggettabili a tassazione.

Non ritenendo opportuno instaurare un nuovo contenzioso, l’azienda non ha presentato opposizione avverso tale precetto ed ha corrisposto al proprio dipendente quanto richiesto, ma ha presentato un interpello all’Agenzia della entrate, chiedendo se l’importo versato a titolo di risarcimento per demansionamento sia volto a reintegrare il cosiddetto danno emergente e, come tale, sia privo di rilevanza reddituale ed impropriamente assoggettato a ritenuta; o se, diversamente, sia volto a reintegrare il cosiddetto lucro cessante, con piena rilevanza reddituale e, pertanto, correttamente assoggettato a ritenuta. Inoltre, la società aveva chiesto, nel caso in cui l’importo fosse privo di rilevanza reddituale, le modalità con le quali potessero essere recuperate le ritenute versate.

L’azienda, in linea con l’orientamento interpretativo più recente, riteneva che l’importo liquidato fosse qualificabile come danno emergente. In particolare, il demansionamento subito dal proprio dipendente aveva determinato l’obbligo di risarcimento del cosiddetto “danno da dequalificazione professionale”, cioè un danno patrimoniale derivante dall’impoverimento della capacità professionale acquisita dal lavoratore e dalla mancata acquisizione di una maggiore capacità. Pertanto, le somme erogate dalla società non dovevano assumere rilevanza reddituale essendo volte a reintegrare il patrimonio del dipendente.

La Società evidenziava di aver applicato la ritenuta alla fonte, in via prudenziale, stante il rischio di errore di qualificazione giuridica della fattispecie e, per l’effetto, il rischio di irrogazione di sanzioni in caso di mancata applicazione e versamento delle ritenute. Pertanto, riteneva di poter recuperare la ritenuta erroneamente versata in sede di presentazione del modello 770/2021 relativo all’anno di imposta 2020.

 

L’Agenzia conferma che in tale fattispecie il risarcimento non va tassato e chiarisce

L’Agenzia delle Entrate, con risposta a firma della direttrice centrale, ha confermato questa interpretazione. Nel parere si parte dal citare l’articolo 6, comma 2, del Testo Unico delle Imposte sui redditi approvato con d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 (Tuir), il quale prevede che “i proventi conseguiti in sostituzione di redditi, (…), e le indennità conseguite, anche in forma assicurativa, a titolo di risarcimento di danni consistenti nella perdita di redditi, esclusi quelli dipendenti da invalidità permanente o da morte, costituiscono redditi della stessa categoria di quelli sostituiti o perduti. Gli interessi moratori e gli interessi per dilazione di pagamento costituiscono redditi della stessa categoria di quelli da cui derivano i crediti su cui tali interessi sono maturati”.

Imponibili le somme per sostituire mancati guadagni, ossia il lucro cessante

Al riguardo, precisa l’Agenzia, in diversi documenti di prassi “è stato precisato che devono essere ricondotte a tassazione le indennità corrisposte a titolo risarcitorio, sempreché le stesse abbiano una funzione sostitutiva o integrativa del reddito del percipiente; sono in sostanza imponibili le somme corrisposte al fine di sostituire mancati guadagni (cd lucro cessante) sia presenti che futuri del soggetto che le percepisce”.

 

Non assume rilevanza reddituale invece l’indennità risarcitoria del danno emergente

Diversamente, invece, “non assumono rilevanza reddituale le indennità risarcitorie erogate al fine di reintegrare il patrimonio del soggetto, ovvero al fine di risarcire la perdita economica subita dal patrimonio (cd. danno emergente)”. In linea generale, dunque qualora l’indennizzo percepito da un determinato soggetto vada a compensare in via integrativa o sostitutiva, la mancata percezione di redditi di lavoro ovvero il mancato guadagno, “le somme corrisposte sono da considerarsi dirette a sostituire un reddito non conseguito (c.d. lucro cessante) e conseguentemente vanno ricomprese nel reddito complessivo del soggetto percipiente ed assoggettate a tassazione”.

Quanto poi all’aspetto specifico del demansionamento, l’Agenzia delle Entrate aggiunge che va distinto il danno patrimoniale, “derivante dall’impoverimento della capacità professionale del lavoratore o dalla mancata acquisizione di maggiori capacità, con la connessa perdita di chances, ovverosia di ulteriori possibilità di guadagno”, da quello non patrimoniale, “comprendente sia l’eventuale lesione dell’integrità psico-fisica del lavoratore, accertabile medicalmente, sia il danno esistenziale, da intendersi come ogni pregiudizio di natura non meramente emotiva ed interiore, ma oggettivamente accertabile, che alteri le sue abitudini e gli assetti relazionali propri, inducendolo a scelte di vita diverse quanto all’espressione e realizzazione della sua personalità nel mondo esterno, sia infine la lesione arrecata all’immagine professionale ed alla dignità personale del lavoratore.

 

Alcune sentenze della Cassazione

Nel parere si cita quindi una sentenza della Corte di Cassazione, la n. 28887/2008, con cui era stato accolto il ricorso di un contribuente fondato sulla tesi secondo cui la somma liquidata “non è soggetta a imposizione fiscale ai fini IRPEF in quanto non rappresenta alcuna reintegrazione di reddito patrimoniale non percepito ma piuttosto il risarcimento del danno alla professionalità e all’immagine derivato dal demansionamento”. “Per quanto riguarda, in particolare, le somme erogate che trovino titolo nella necessità di ristorare la perdita delle cosiddette “chance professionali” ossia connesse alla privazione della possibilità di sviluppi o progressioni nell’attività lavorativa – – prosegue l’Agenzia – è stato altresì chiarito che le stesse non sono imponibili”. Secondo la Suprema Corte, infatti, per citare un’altra sentenza, “posto che la chance è un’entità patrimoniale, giuridicamente ed economicamente suscettibile di autonoma valutazione, la sua perdita configura un danno attuale e risarcibile (consistente non in un lucro cessante, bensì nel danno emergente da perdita di possibilità attuale), a condizione che il soggetto che agisce per il risarcimento ne provi, anche secondo un calcolo di probabilità o per presunzioni, la sussistenza”.

Nel ribadire come la perdita di chance, quale elemento di danno emergente che non assume rilevanza ai fini fiscali, debba poter essere concretamente provato dal contribuente, la Corte di Cassazione ha (però) puntualmente chiarito che il risarcimento “non può essere riconosciuto, in concreto, se non in presenza di adeguata allegazione, ad esempio deducendo l’esercizio di una attività (di qualunque tipo) soggetta ad una continua evoluzione, e comunque caratterizzata da vantaggi connessi all’esperienza professionale destinati a venire meno in conseguenza del loro mancato esercizio per un apprezzabile periodo di tempo”. Nella stessa logica, anche della perdita di chance, ovvero delle ulteriori potenzialità occupazionali o di ulteriori possibilità di guadagno, “va data prova in concreto, indicando, nella specifica fattispecie, quali aspettative, che sarebbero state conseguibili in caso di regolare svolgimento del rapporto, siano state frustrate dal demansionamento o dalla forzata inattività. In mancanza di detti elementi, da allegare necessariamente ad opera dell’interessato, sarebbe difficile individuare un danno alla professionalità, perché – fermo l’inadempimento – l’interesse del lavoratore può ben esaurirsi, senza effetti pregiudizievoli, nella corresponsione del trattamento retributivo quale controprestazione dell’impegno assunto di svolgere l’attività che gli viene richiesta dal datore”.

Ne deriva quindi, afferma l’Agenzia, “che le somme liquidate a titolo di perdita di chance professionali possono essere correttamente qualificate alla stregua di risarcimenti di danno emergente solo ove l’interessato abbia fornito – in conformità alle indicazioni della Suprema Corte – prova concreta dell’esistenza e dell’ammontare di tale danno”. Nel parere anche qui si cita un’ordinanza della Cassazione, la n. 3632/22, nella quale si ribadisce che “il titolo al risarcimento del danno, connesso alla “perdita di chance”, non ha natura reddituale, poiché consiste nel ristoro del danno emergente dalla perdita di una possibilità attuale”. E nella medesima ordinanza viene messo in rilievo che “il giudice del lavoro ha riconosciuto al ricorrente il risarcimento del danno emergente (consistente appunto nella perdita delle possibilità ricollegate complessivamente alla progressione di carriera) e, per la quantificazione dell’importo dovuto, ha fatto ricorso al criterio di valutazione equitativa con riferimento al maggior stipendio non conseguito”. La Suprema Corte ha ritenuto, inoltre, che “tale criterio rileva ai limitati fini della determinazione del quantum e non è idoneo a mutare il titolo dell’attribuzione, la quale non è riconducibile all’art. 6 T.u.i.r., perché non ha natura reddituale e non è sostitutiva del reddito non percepito”.

 

Il lavoratore in questione era stato risarcito per lesione della capacità professionale

Venendo qui al caso di specie, l’Agenzia rileva come nella sentenza di condanna della società al pagamento delle somme in esame all’ex dipendente, il giudice aveva evidenziato come dalla espletata istruttoria orale emergesse che, sebbene nel 1987, da una precedente sentenza, fosse stato giudizialmente accertato che le mansioni di archivista erano inferiori rispetto a quelle che spettavano professionalmente al ricorrente, esse erano state mantenute dalla società datrice per tutto il resto del rapporto di lavoro, circostanza sostanzialmente riconosciuta dalla stessa; ciò, ad avviso del giudice, aveva rappresentato indubbiamente una lesione della capacità professionale del lavoratore. “Tale sentenza, quindi – va a concludere il parere – evidenzia come il lavoratore abbia adempiuto all’onere di allegazione circa il danno alla professionalità, mentre la quantificazione del danno è stata determinata dal giudice in via equitativa ai sensi dell’articolo 1226 c.c. E per evitare una statuizione arbitraria è stato preso come criterio di riferimento la liquidazione contenuta nella precedente sentenza del 1987, applicando i dovuti incrementi, considerando la lesione alla professionalità per tutto il rapporto di lavoro”.

Quindi, la liquidazione riconosciuta all’ex dipendente non è imponibile

In definitiva, pertanto, l’Agenzia ritiene che “le somme liquidate in via equitativa dal Tribunale adito, a seguito della lesione della capacità professionale del lavoratore, sono da considerarsi non imponibili, in quanto configurabili come danno emergente e quindi volte a risarcire la perdita economica subita dal patrimonio, e pertanto non sono assoggettabili a ritenuta alla fonte ai sensi dell’articolo 23 del d.P.R. n. 600 del 1973”. Perciò, avendo l’’azienda già restituito le ritenute in oggetto all’ex dipendente, “potrà recuperare detto importo presentando la dichiarazione integrativa del Modello 770/2021 relativo all’anno di imposta 2020”.

Scritto da:

Dott. Nicola De Rossi

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Categoria:

Vertenze di Lavoro

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