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Per quanto, nella maggior parte dei casi, le “spie” di un infarto siano rappresentate da dolori toracici o, tecnicamente, dalla precordialgia, un medico non può non sapere che non di rado esso può presentarsi con sintomi “atipici” e, laddove non li riconosca, nonostante i segnali di allarme, va incontro a responsabilità.

A chiarirlo la Cassazione, con la sentenza n. 16483/21 depositata il 4 maggio 2021, con il quale la Suprema Corte ha affrontato uno dei purtroppo non rari tragici casi sul genere.

 

Recatosi al pronto soccorso per dolori alle braccia viene dimesso e subito dopo spira

Un uomo, nel Mantovano, rientrando dal lavoro, il 5 luglio 2014, aveva accusato un dolore al braccio sinistro e la madre gli aveva praticato un’iniezione di antidolorifico. Durante la notte, però, la vittima si era svegliata lamentando il persistere del dolore e quindi era stato accompagnato al pronto soccorso dell’ospedale di Castiglione delle Stiviere.

Il paziente aveva quindi riferito al medico di turno quella notte al Triage di accusare algie ad ambedue le braccia e di avere avuto un episodio di vomito dopo avere mangiato un panino; il dolore, che a detta del paziente si sarebbe presentato con modalità analoghe un anno prima, risultava aumentare alla digitopressione, d’altra parte il controllo dei valori pressori e del battito cardiaco dava esiti nella norma. Il dottore lo aveva pertanto dimesso con diagnosi di “dispepsia, algia arti superiori” e correlate prescrizioni farmacologiche.

L’uomo era tornato a casa e a letto, ma alle 7.30 del mattino seguente, del 6 luglio 2014, la madre lo aveva trovato senza vita.

 

Medico di turno e responsabile civile dell’ospedale condannati per omicidio colposo

Il medico di turno e il responsabile civile Ospedale San Pellegrino erano stati quindi indagati per omicidio colposo. La consulenza medico legale disposta nell’ambito del procedimento, a seguito di autopsia e di indagini tossicologiche, aveva indicato, quale causa del decesso, un evento ischemico coronarico acuto, conseguente a trombosi di un ramo coronarico, a sua volta secondario a fissurazione di placca ateromasica, in soggetto affetto da severa miocardiopatia ischemica cronica e arteriosclerosi diffusa.

Sebbene più soggetti qualificati, compresi il Ctu e i periti nominati nel corso dell’udienza preliminare, avessero dato atto della natura scarsamente tipica della sintomatologia del paziente, mancando in particolare il caratteristico sintomo della precordialgia, tuttavia era stata presa in considerazione la rilevante concomitanza del dolore alle braccia e dell’episodio di vomito, che, considerata la non infrequente casistica di episodi di infarto caratterizzati da sintomi atipici o addirittura assenti, avrebbe dovuto essere presa in considerazione ai fini di una diagnosi differenziale rispetto a quella formulata.

 

Se sottoposta ad accertamenti per verificare un possibile infarto, la vittima si sarebbe salvata

In sostanza, le valutazioni peritali si erano appuntate sul fatto che, se il medico, anziché dimettere nel giro di nemmeno un’ora la vittima, avesse esperito indagini su una possibile origine ischemica della sintomatologia, disponendo un Ecocardiogramma e il dosaggio della troponina, ragionevolmente vi sarebbe stato il tempo sufficiente per intervenire utilmente sul paziente, aumentando in modo significativo (anche se sul punto non é stata raggiunta la certezza) le sue possibilità di sopravvivere.

Considerazioni che hanno portato alla condanna dei due imputati da parte del Tribunale di Mantova con sentenza del 10 ottobre 2018, decisione sostanzialmente confermata anche in appello, nel gennaio del 2020, dalla Corte di Brescia, che ha saltanto riformato la parte riguardante le statuizioni civili, diminuendo la misura della provvisionale dovuta alle parti civili.

In particolare, la Corte di merito, nel replicare ai motivi di doglianza dell’imputato e del responsabile civile proposti con i rispettivi atti d’appello, aveva ravvisato la sussistenza del nesso di causalità tra la condotta omissiva e l’evento, inquadrando la condotta del medico come caratterizzata da colpa grave.

 

Gli imputati ricorrono per Cassazione lamentando in primis il nesso di causalità

Il dottore e il responsabile civile Ospedale San Pellegrino di Castiglione delle Stiviere hanno pertanto proposto ricorso anche per Cassazione. Il medico ha contestato in primis l’accertamento del nesso di causalità tra la condotta asseritamente omissiva e l’evento: la succinta motivazione resa sul punto dalla Corte di merito non avrebbe rispettato, a suo dire, il dovere di accertare la dipendenza eziologica fra la condotta addebitata e la morte del paziente “con alto grado di credibilità razionale“, nonché attraverso il ragionamento controfattuale.

Il ricorrente ha osservato che l’assunto secondo cui la sua condotta omissiva sarebbe stata quella di avere omesso di eseguire immediatamente l’ECG e di esperire subito un tentativo di vascolarizzazione era stato modificato in quello di non avere disposto il ricovero in terapia intensiva coronarica, dato che gli interventi suddetti non erano prontamente disponibili; ma soprattutto, ha evidenziato come gli stessi periti avessero escluso che una tempestiva diagnosi avrebbe nel caso specifico evitato o ritardato il decesso con alto grado di probabilità.

Contestata anche la “colpa grave”

Il medico ha lamentato anche l’aspetto della configurabilità della colpa, e della sua qualificazione come “grave”: la colposità della condotta, secondo il ricorrente, sarebbe stata qui ravvisata con disamina ex post, anziché procedere a una valutazione ex ante che tenesse conto di tutte le peculiarità del caso concreto e, innanzitutto, della sintomatologia rilevata.

In particolare, non si sarebbe tenuto conto del fatto che il dolore alle braccia, come affermato dalle Linee guida più accreditate, può ritenersi indicativo di una patologia cardiaca solo in assenza di altre evidenti cause che lo possano giustificare e di ulteriori sintomi che lo accompagnino, laddove invece il paziente poi deceduto aveva riferito al medico che quello stesso giorno, durante la sua attività lavorativa, aveva effettuato sforzi fisici che potevano giustificare il dolore agli arti superiori e consentivano di escludere l’origine cardiaca degli stessi.

Quanto poi al grado di colpa, muovendo dalla considerazione che al caso di specie doveva applicarsi quanto stabilito dalla legge 189/2012 (legge Balduzzi), secondo il dottore andava verificato se nella specie potesse o meno parlarsi di colpa “grave”, tale da legittimare in base alla disciplina richiamata la rilevanza penale della condotta, e in tale verifica occorreva accertare il grado di “prevedibilità” e di “prevenibilità” dell’evento, che invece non sarebbe stato per nulla “altamente” prevedibile e prevenibile.

L’imputato ha espresso riserve anche circa i criteri di valutazione delle prove e del giudizio di inattendibilità delle prove contrarie nonché sulla determinazione della provvisionale a favore delle parti civili, di cui ha lamentato l’eccessività e la scarsa giustificazione in ragione della a suo dire scarsità di legami con la vittima.

Il responsabile civile dell’Ospedale San Pellegrino, dal canto suo, ha a sua volta lamentato la liquidazione della provvisionale, contestando l’assenza di elementi idonei a provare l’effettiva esistenza del danno e il fatto che la misura della somma liquidata eccedesse la soglia di prevedibilità degli importi da liquidare a titolo di danno, ed è tornato sul nesso causale, riproponendo in buona sostanza le argomentazioni a base del primo motivo del ricorso del medico

Sul piano della qualificabilità della condotta del dottore come colposa, i motivi di ricorso vengono ritenuti infondati dalla Suprema Corte, la quale parte dalla nozione di “dolore toracico”, che – spiega – “comprende qualsiasi dolore che, anteriormente, si collochi tra la base del naso e l’ombelico e, posteriormente, tra la nuca e la 12. vertebra e che non abbia causa traumatica o chiaramente identificabile che lo sottenda“.

Secondo gli Ermellini, dunque, i giudici di merito avevano correttamente osservato che nello specifico per la vittima, che presentava dolore agli arti superiori, “poteva senz’altro parlarsi di dolore toracico”.

 

L’infarto può presentare anche sintomi “atipici”, si poteva e doveva diagnosticarlo

I giudici del Palazzaccio, ed è qui uno dei punti fermi della sentenza, ammettono che non era presente, nello specifico, il tratto sintomatico maggiormente tipico delle patologie ischemiche cardiache (ossia la precordialgia), “ma é pur vero – proseguono – che vi é una non trascurabile percentuale di casi in cui i sintomi di tali patologie (e, in specie, dell’infarto) possono essere atipici, o comunque non riconducibili univocamente a un corteo sintomatologico specifico e inequivocabile, al punto che in un significativo numero di casi addirittura non vi sono sintomi di alcun tipo.

Ciò che invece assumeva, nella specie, una portata suggestiva era la concomitanza fra il dolore alle braccia – che si é visto potersi annoverare tra i dolori toracici – e l’episodio di vomito occorso nella serata prima del ricovero, successivamente al quale peraltro il paziente stava ancora male. E’ in forza della compresenza di siffatti elementi che, quanto meno a livello di ipotesi, l’imputato poteva e doveva rappresentarsi l’eventualità di essere al cospetto di un soggetto con infarto in corso”.

Oltretutto, la Cassazione  sottolinea anche come la circostanza, riferita al medico dalla vittima, di avere eseguito sforzi fisici durante la giornata lavorativa “era essa stessa, a ben vedere, potenzialmente correlabile a possibili episodi ischemici da sforzo”. E ritiene altresì frutto di una “disamina parcellizzata delle emergenze del caso” la valutazione dell’episodio di vomito come banale conseguenza della consumazione di un panino kebab, in quanto, “come ben chiarito dalla Corte di merito, i sintomi agli arti e quelli dispeptici non andavano valutati isolatamente, ma congiuntamente, in un quadro d’insieme.

Dunque, anche per la Suprema Corte “vi erano tutte le condizioni che suggerivano, ed anzi imponevano al medico di turno di esperire accertamenti onde pervenire a una diagnosi differenziale, ossia di considerare l’ipotesi – tutt’altro che remota – che i sintomi presentati dal paziente potessero essere correlati a episodio di cardiopatia ischemica acuta e che si dovesse pertanto procedere ad accertamenti in tale direzione”: ovvero, l’esecuzione di elettrocardiogramma e il dosaggio della troponina, che più che verosimilmente avrebbero dato conferma dell’infarto in atto.

 

La colpa è grave non essendo state seguite le linee guida

Quanto poi al grado della colpa, la Cassazione nota che, proprio in relazione a quanto disposto dall’articolo 3, comma 1, della Legge Balduzzi, “la limitazione della responsabilità penale alle ipotesi di colpa “non lieve” vale unicamente nel caso in cui l’esercente la professione sanitaria si attenga alle linee guida e alle buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica. Ma le linee guida, nel caso di dolore ad ambedue le braccia, associato ad episodio emetico, avrebbero imposto un accertamento circa la possibile riferibilità del quadro clinico a patologia ischemica, cosa che l’imputato omise di fare”.

Il nesso causale

Ugualmente infondate secondo gli Ermellini, per quanto qui il discorso sia più complesso, anche le doglianze relative al nesso causale. La Cassazione, infatti, prende atto di come la morte fosse intervenuta a breve distanza temporale dal momento in cui il paziente era tornato a casa dal pronto soccorso, per l’insorgere di un’aritmia: come già detto, l’esame autoptico aveva stabilito la causa del decesso in un evento ischemico miocardico acuto conseguente a trombosi di un ramo coronarico, a sua volta secondario a fissurazione di placca ateromasica, in soggetto affetto da severa miocardiopatia ischemica cronica e aterosclerosi diffusa.

E’ su questo “sostrato fattuale” che, spiega la Suprema Corte, va esaminata la concreta possibilità salvifica degli accertamenti diagnostici colposamente omessi dall’imputato.

Il Tribunale e la Corte d’appello avevano ritenuto che la condizione patologica acuta del paziente, in corso al momento della visita al pronto soccorso, sarebbe stata sicuramente rilevata in caso di esecuzione degli accertamenti elettivi in caso di sospetta crisi ischemica, che vi fossero rilevanti possibilità che l’uomo potesse essere salvato da una tempestiva e corretta diagnosi, anche alla luce del fatto che all’ospedale di Castiglione delle Stiviere operava un reparto di cardiologia con unità di terapia intensiva coronarica, che l’emodinamica era attiva h24 e che crisi cardiache di tipo ischemico come quella in oggetto possono essere affrontate e risolte in modo pressoché istantaneo, per mezzo della defibrillazione elettrica.

 

Il giudizio di alta probabilità logica e l’analisi del fatto concreto

A questo punto, per completare il ragionamento, i giudici del Palazzaccio rammentano che “nel reato colposo omissivo improprio, il rapporto di causalità tra omissione ed evento non può ritenersi sussistente sulla base del solo coefficiente di probabilità statistica, ma deve essere verificato alla stregua di un giudizio di alta probabilità logica, sicché esso é configurabile solo se si accerti che, ipotizzandosi come avvenuta l’azione che sarebbe stata doverosa ed esclusa l’interferenza di decorsi causali alternativi, l’evento, con elevato grado di credibilità razionale, non avrebbe avuto luogo ovvero avrebbe avuto luogo in epoca significativamente posteriore o con minore intensità lesiva.

Viceversa, l’insufficienza, la contraddittorietà e l’incertezza del nesso causale tra condotta ed evento, e cioè il ragionevole dubbio, in base all’evidenza disponibile, sulla reale efficacia condizionante dell’omissione dell’agente rispetto ad altri fattori interagenti nella produzione dell’evento lesivo comportano l’esito assolutorio del giudizio”.

La Suprema corte cita anche le conclusioni delle Sezione Unite nel processo Thyssenkrupp, “dove vi si é affermato, sempre nel caso di reato colposo omissivo improprio, che il rapporto di causalità deve bensì essere verificato alla stregua di un giudizio di alta probabilità logica, ma tale giudizio deve a sua volta essere fondato, oltre che su un ragionamento di deduzione logica basato sulle generalizzazioni scientifiche, anche su un giudizio di tipo induttivo elaborato sull’analisi della caratterizzazione del fatto storico e sulle particolarità del caso concreto”.

 

Il giudizio contrafattuale si può basare anche si massime di esperienza

E si sofferma sul caso, simile a quello oggetto di causa, di un sanitario del pronto soccorso di cui era stato rigettato il ricorso contro la conferma della condanna per il decesso di un paziente, al quale non era stato diagnosticato un infarto acuto del miocardio per cui era stato omesso il trasferimento presso un’unità coronarica per l’esecuzione di un intervento chirurgico che avrebbe avuto un’elevata probabilità risolutiva.

Qui la Corte di Cassazione aveva affermato che “é configurabile la sussistenza del nesso di causalità tra condotta ed evento, qualora esso sia stato accertato con giudizio controfattuale che, sebbene non fondato su una legge scientifica di spiegazione di natura universale o meramente statistica – per l’assenza di una rilevazione di frequenza dei casi esaminati – ma su generalizzate massime di esperienza e del senso comune, sia stato comunque ritenuto attendibile secondo criteri di elevata credibilità razionale, in quanto fondato sulla verifica, anche empirica, ma scientificamente condotta, di tutti gli elementi di giudizio disponibili, criticamente esaminati

Ora, applicando tali principi ala tragica vicenda in questione, “la sentenza impugnata evidenzia come nello stesso presidio ospedaliero, ove il dott. (omissis) svolgeva il suo turno di pronto soccorso al momento dell’arrivo del paziente, fosse attivo un reparto di cardiologia con unità di terapia intensiva coronarica, in grado di praticare tempestivamente la defibrillazione, con esiti prevedibilmente istantanei e favorevoli al paziente: é ben chiara la conclusione della Corte distrettuale nell’affermare che, mentre il paziente tornato a casa e coricatosi, non era monitorato quando sopravvenne l’aritmia mortale, qualora invece fosse rimasto nello stesso ospedale e sottoposto a monitoraggio, l’aritmia sarebbe stata interrotta con effetto immediato con applicazione della defibrillazione elettrica, e con esito salvifico”.

 

Il grado di probabilità logica calato nel caso di specie “inchioda” l’imputato

Dunque, proprio attraverso la caratterizzazione del caso concreto e la valutazione correlata ad esso del grado di probabilità logica, secondo la Cassazione va disatteso quanto osservato dai ricorrenti a proposito della “supposta lacunosità” della risposta argomentativa della Corte di merito alle lagnanze in punto di nesso causale tra condotta omissiva ed evento letale.

Pur in mancanza di elementi certi e precisi in ordine all’orario esatto del decesso, “la caratterizzazione della vicenda sulla base delle ricostruite peculiarità della situazione concreta induce a ritenere che, ove i necessari esami diagnostici fossero stati eseguiti nella prospettiva di una diagnosi differenziale, l’episodio infartuale acuto in corso sarebbe stato immediatamente accertato, il paziente sarebbe stato immediatamente avviato all’unità di terapia intensiva coronarica, ove gli sarebbe stata praticata la defibrillazione e, con elevato grado di probabilità logica, il paziente stesso si sarebbe salvato”.

Per la cronaca la Cassazione ha rigettato anche gli altri motivi, compresi quelli legati alla statuizione pronunciata in sede penale e relativa alla concessione e quantificazione della provvisionale, decisione peraltro non impugnabile con ricorso per cassazione “trattandosi di decisione di natura discrezionale, meramente delibativa e non necessariamente motivata, per sua natura non suscettibile di passare in giudicato e destinata ad essere “travolta” dall’effettiva liquidazione dell’integrale risarcimento” in sede civile.

Scritto da:

Dott. Nicola De Rossi

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Categoria:

Blog Malasanità

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