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Il medico chirurgo non può limitarsi a effettuare l‘intervento di cui risulta essere stato incaricato per l’asportazione di un tumore, ma è tenuto a eseguire anche un’attenta opera di “follow up” nei confronti del paziente, per tenerlo costantemente monitorato onde contrastare per tempo le eventuali recidive.

In caso contrario, e se il sanitario non fornisce all’assistito le necessarie indicazioni, deve rispondere delle conseguenze anche fatali sulla salute del malato, anche se ne sono corresponsabili anche altri professionisti. E’ una sentenza rilevante in tema di responsabilità medica quella, la n. 13509/22, depositata dalla Corte di Cassazione lo scorso 29 aprile 2022.

I congiunti di un paziente oncologico deceduto citano in causa chirurgo e Azienda Sanitaria

I familiari avevano  avevano citato in causa un medico e la Gestione Liquidatoria ex USL 12 di Pisa per ottenere il risarcimento di tutti i danni, anche non patrimoniali, “iure proprio” e “iure hereditatis”, correlati alla morte del loro congiunto, che essi imputavano appunto al dottore. Il chirurgo chiamato in giudizio aveva proceduto, nel 1985, sul paziente poi deceduto, all’asportazione di una lesione cutanea cupoliforme sospetta, localizzata sul dorso sottoscapolare sinistro, con diagnosi di melanoma.

Il medico che aveva asportato il tumore non aveva svolto né esame istologico né “follow up”

Tuttavia, non era stato effettuato un esame istologico né un trattamento di “follow up” informativo o anche solo di monitoraggio. Nel 1997 era così emersa, all’apparire di rigonfiamenti ai linfonodi del cavo ascellare, una metastasi massiva da melanoma, che era stata ricollegata dai medici all’oggetto del passato intervento di escissione e che, nonostante i numerosi interventi e trattamenti succedutisi nei mesi seguenti, aveva condotto alla morte il paziente.

 

I giudici riconoscono rilevanza causale del mancato follow up e danno da perdita di chance

Il Tribunale aveva accolto la domanda risarcitoria ma la sentenza era stata riformata nel 2018 dalla Corte d’appello di Firenze, che, per quel che qui rileva, dopo aver rinnovato gli atti istruttori disponendo nuova consulenza tecnica, aveva escluso che la pur riscontrata inadeguatezza della tecnica operatoria adottata nel 1985, per insufficienza dei margini di escissione, e difetto di successiva radicalizzazione, avesse prodotto effetti apprezzabili, tenuto conto delle mancate recidive locali. Il giudice di seconde cure tuttavia aveva riconosciuto la rilevanza causale del mancato “follow up”, del quale non poteva che rispondere anche il chirurgo come tale e, dunque, quale sanitario dell’azienda coinvolta, concludendo per la sussistenza del nesso causale rispetto dal danno da perdita di “chances” di sopravvivenza, e liquidandolo con una riduzione volta a tener conto della misura di quelle, rispetto all’evento morte.

La sentenza è stata quindi impugnata dai familiari della vittima per Cassazione e il medico ha resistito con controricorso, così come l’azienda sanitaria. In particolare, i ricorrenti principali asserivano che la Corte d’Appello non avrebbe considerato che la consulenza tecnica giudiziale svolta in seconde cure aveva chiaramente indicato che l’esame istologico, a cui si era infine proceduto solamente nel 1997, aveva indicato un melanoma al primo stadio, con percentuale di sopravvivenza, in caso di cura e controllo adeguati, al 97% a cinque anni e al 95% a 10 anni: pertanto, la successiva conclusione per cui il paziente sarebbe “rientrato in quella fascia nettamente minoritaria di casi ad esito sfavorevole” sarebbe stata contraddittoria. Anche perché non erano stati svolti controlli né cure dopo l’escissione, e la conclusione riportata avrebbe avuto una logica esclusivamente se fosse stato eseguito il necessario intervento di allargamento dell’asportazione dopo la prima biopsia escissionale tumorale. In ogni caso, rilevavano i familiari del paziente, alla possibilità di fruire della percentuale di sopravvivenza a cinque anni nell’individuata misura del 59-78%, inibita dal mancato “follow up”, si sarebbe dovuta aggiungere l’ulteriore percentuale che avrebbe garantito un corretto intervento chirurgico: la percentuale avrebbe così dovuto essere stimata nella misura del 100%.

Inoltre, i ricorrenti hanno censurato la sentenza impugnata per aver sovrapposto il profilo della causalità a quello dell’evento di danno, con ciò riducendo erroneamente la relativa liquidazione di un terzo, laddove, una volta affermata la sussistenza del nesso eziologico in base al criterio del “più probabile che non”, il danno subìto era quello della perdita del risultato, ossia della vita, e non della possibilità di conseguirlo. Infine, si contestava il fatto che la Corte di appello non avesse liquidato, oltre all’invalidità temporanea, anche il danno catastrofale pure richiesto “iure hereditatis” e accordato dal Tribunale, in ragione della consapevolezza, vissuta dalla vittima, dell’assenza di una concreta possibilità di salvezza, una volta compresi il contenuto e la tardività della diagnosi conclusiva.

Ma è rilevante, qui, citare anche i motivi del ricorso incidentale con cui il medico si doleva che la corte territoriale gli avesse addebitato una responsabilità medica da “équipe”, laddove non era in questione una determinante inadeguatezza di un intervento chirurgico eseguito con la collaborazione di più sanitari, bensì della diversa responsabilità della struttura sanitaria per il mancato “follow up”, rimasto estraneo alla sfera di controllo del chirurgo, tenuto anche conto del fatto che il paziente era seguìto da altro professionista di fiducia che lo aveva invitato a farsi operare come poi correttamente avvenuto. Inoltre, il chirurgo contestava il fatto che i giudici territoriali avessero accordato il danno da perdita di “chances” a fronte della diversa domanda di danno da morte, fondandolo su pretese necessità di “follow up”, successive a dieci anni, non previste dai protocolli dell’epoca ma da pochi studi scientifici successivi al 1985.

La Suprema Corte ha rigettato tutti i motivi del ricorso principale osservando, in particolare, che il giudice di seconde cure, verificato che il paziente, se fosse stato correttamente effettuato il follow up, avrebbe avuto quelle possibilità perdute di sopravvivenza, sostanzialmente in termini eziologici di certezza, “proprio perché non sta risarcendo l’evento morte bensì la perdita delle possibilità di evitarla, ha (giustamente) statuito la riduzione equitativa di un terzo dell’importo liquidato riferendosi alla “posta integrale” della perdita, in proprio, del rapporto parentale, ovvero dell’invalidità, risarcita a titolo ereditario, e così pure, infine, del danno patrimoniale rappresentato dalla perdita delle utilità economiche che sarebbero state apportate, fermo l’integrale ristoro per le spese mediche quali effettivamente sostenute”.

 

L’attività del chirurgo non può limitarsi all’operazione, è estesa anche al follow up

Ma gli Ermellini hanno rigettato anche i motivi del ricorso incidentale del dottore, ed è questa la parte più rilevante del pronunciamento. “L’attività del medico chirurgo non può essere limitata all’intervento di cui risulta essere stato incaricato ma deve ritenersi estesa, in coerenza con la compiutezza della sua prestazione e in relazione alla correlata esigenza di tutela della salute del paziente, alle informazioni per il doveroso “follow up” prescritto dai protocolli ovvero comunque, come nel caso accertato dal giudice di merito in modo resistente alle svolte censure, fatto proprio come corretto dalla comunità scientifica in relazione alla specifica – e qui affatto trascurabile – diagnosi da melanoma effettuata nel caso concreto”.

E tra i sanitari che dovevano informare il paziente, non può escludersi chi lo aveva operato

Lo stesso chirurgo, quale dipendente della struttura vincolata al contratto di spedalità, prosegue la Cassazione, “deve ritenersi appartenente, lui per primo, al collettivo dei medici tramite cui quella agisce per adempiere lo specifico impegno negoziale, senza che sia possibile sezionare, a fini di esenzione e senza sinergie funzionali alla tutela della salute, le responsabilità inerenti a quell’adempimenti”.

Come detto la Corte di secondo grado aveva accertato in fatto che alcuna indicazione, dunque neppure dal chirurgo, era stata data al paziente: “quindi, al di là dell’evocazione del termine “équipe”, da parte del Collegio di merito, si tratta del riferimento ai sanitari tramite cui l’azienda incaricata avrebbe dovuto dare séguito alla propria obbligazione negoziale, senza che possa essere espunto da quelli proprio il professionista che eseguì l’intervento, in primo luogo per dare al paziente le necessarie informazioni e istruzioni successive; né l’eventuale corresponsabilità di altri professionisti può escludere, per una ragione prima logica che giuridica, quella del chirurgo sul punto”.

Scritto da:

Dott. Nicola De Rossi

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Categoria:

Malasanità

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