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Quando un soggetto ricopre il ruolo di legale rappresentante di una società, è anche il direttore dello stabilimento e per di più il responsabile del servizio di prevenzione e protezione, di fatto è anche il datore di lavoro e non può pretendere di andare indenne da responsabilità in caso di infortuni in fabbrica solo perché il Consiglio di amministrazione non gli ha conferito formalmente anche la qualifica datoriale.

La Cassazione, con la sentenza n. 16562/22 depositata il 29 aprile 2022, ribadendo la valenza del concetto di “datore di lavoro di fatto” e approfondendo altri aspetti importanti della materia antinfortunistica, ha definitivamente condannato un imprenditore veneto per un incidente mortale accaduto nella sua impresa.

Legale rappresentante di una grossa azienda chimica condannato per omicidio colposo

Il legale rappresentante di una grossa azienda chimica del Vicentino nel 2001 era stato condannato alla pena di un anno di reclusione, con la sospensione condizionale, dal Tribunale di Vicenza, condanna confermata in secondo grado nel 2018 dalla Corte d’Appello di Venezia, per il delitto di omicidio colposo aggravato previsto dall’art. 589 cod. pen.: gli si imputava di avere causato nel 2006 nella sua qualità, oltre che di legale rappresentante, di direttore di stabilimento nonché di responsabile del servizio di prevenzione e protezione nella società, per colpa generica e colpa specifica dovuta alla violazione delle norme sulla prevenzione degli infortuni, la morte di un operaio, incaricato di effettuare la manutenzione e la pulizia di un macchinario mescolatore a pale, rimasto schiacciato con il capo nella coclea di tale impianto.

L’imputato ricorre per Cassazione asserendo di non essere il datore di lavoro

L’imputato ha proposto ricorso anche per Cassazione contestando in primis, il motivo che qui interessa, la qualifica di datore di lavoro che gli era stata attribuita nelle sentenze di merito, diversamente da quanto si poteva evincere dalla delibera del consiglio di amministrazione dell’azienda che invece  gli avrebbe attribuito solo compiti di ordinaria amministrazione. Inoltre, lamentava il fatto che la Corte d’appello avesse escluso la sussistenza di una delega di funzioni da parte sua a favore di un ingegnere della fabbrica.

Ma per la Suprema Corte le doglianze sono infondate. Quanto al punto che più preme, il motivo di ricorso circa la qualifica di datore di lavoro, gli Ermellini spiegano che la Corte territoriale ha “compiutamente individuato nell’imputato, quale soggetto rappresentante legale della (omissis), la figura del datore di lavoro che ha anche avuto sostanzialmente l’esercizio dei poteri decisionali e di spesa”. I giudici del Palazzaccio prendono atto che la delibera del Cda addotta dalla difesa, attribuendo al legale rappresentante solo “compiti di ordinaria amministrazione, parrebbe implicitamente escludere quello di curare la sicurezza dei lavoratori”, ma “ciò non costituisce un argomento meritevole di accoglimento”.

 

In quanto Ad e rappresentante legale, l’imputato aveva anche la qualifica di datore di lavoro

La Cassazione infatti osserva in primis che l’atto di nomina “officia l’imputato della qualifica di amministratore delegato e di rappresentante legale dell’azienda, tale da non dubitare che egli abbia maturato la qualifica di datore”, ma a aggiunge anche che sia la sentenza di primo grado, sia quella d’appello, “ricostruiscono in modo esauriente la qualifica di datore di lavoro in capo all’imputato non solo quale amministratore delegato – e ciò già sarebbe sufficiente ai sensi sia dell’art. 2 d.lgs. 19 settembre 1994, n. 626, sia della identica normativa prevista dall’art. 2, lett. b), d.lgs. 9 aprile 2008, n. 81 -, ma anche quale direttore di stabilimento con ampia capacità gestoria dell’intera azienda”.

Inoltre era il direttore dello stabilimento e aveva pieni poteri di spesa anche per la sicurezza

Con queste attribuzioni, proseguono gli Ermellini, l’imputato ha avuto “l’esercizio di potestà funzionali organizzative, decisionali, gestionali e di spesa inclusa la realizzazione delle misure di sicurezza previste per legge. Di conseguenza, l’esercizio in concreto dei poteri organizzativi datoriali, nel caso concreto coniugati con la titolarità formale di vertice dell’impresa quale amministratore delegato e rappresentante legale, costituiscono pienamente in capo all’imputato la qualifica datoriale”.

La competenza per le spese di ordinaria amministrazione, peraltro, aggiunge la Suprema Corte, “non soltanto non costituisce una “capitis deminutio” della qualifica datoriale, ma certamente non esclude il potere di spesa in materia di sicurezza; ciò in quanto è obbligo ordinario, non straordinario, e prioritario occuparsi delle misure di prevenzione e protezione in materia di sicurezza”. Nella sentenza inoltre si rimarca come, nel caso specifico, le misure mancanti sul piano della sicurezza non richiedevano alcun impegno straordinario di spesa, ma rientravano, per l’appunto, nel normale esercizio dei doveri e poteri organizzativi, formativi, e di ordinaria vigilanza.

E soprattutto aveva anche cumulato la qualifica di responsabile del servizio di prevenzione

Inoltre, sottolineano gli Ermellini, “la considerazione che l’imputato alla qualifica datoriale, formale e sostanziale, abbia impropriamente cumulato quella di responsabile del servizio di prevenzione e protezione, quindi anche di soggetto deputato alla elaborazione materiale della valutazione del rischio, contribuisce a costituire in capo al medesimo soggetto un coacervo di tutti gli obblighi che convergono in materia di valutazione del rischio, di posizione di garanzia, di adempimenti datoriali”.

 

Le due qualifiche avrebbero dovuto essere in capo a soggetti diversi

La Suprema Corte ha anche fatto notare come la qualifica di datore di lavoro e quella di responsabile del servizio di prevenzione e protezione, considerate le dimensioni dell’azienda, avrebbe dovuto risiedere in capo a soggetti diversi, e che quindi l’aver unificato entrambe le funzioni, “per scelta dello stesso datore di lavoro, contribuisce da un lato a recare confusione nell’ambito dei ruoli decisionali e consultivi nella gerarchia della organizzazione e gestione della sicurezza del lavoro, e dall’altro a concentrare in capo al medesimo soggetto tutti gli oneri esecutivi, elaborativi e decisionali in materia di valutazione, gestione, organizzazione del rischio e di esercizio dei poteri decisionali e di spesa che caratterizzano la figura del datore di lavoro”.

Di più, proprio la valutazione della difesa circa l’alterità delle funzioni datoriali e di quelle del responsabile del servizio di prevenzione e protezione, tipicamente consultive, “depone a favore non di un’elisione ma di un duplice ruolo di garanzia svolto dall’imputato particolarmente e deliberatamente concentrato in materia di sicurezza del lavoro, sia sul più alto profilo decisionale e sia sul più importante piano consultivo.

 

Questo cumulo e confusione di ruoli acuisce le disfunzioni organizzative nell’azienda

Il cumulo di due diversi ruoli, in un caso non previsto dalla normativa vigente all’epoca dei fatti, “laddove tali ruoli secondo l’architettura normativa tipica avrebbero dovuto risiedere in capo a soggetti diversi, e invece sono stati confusi, depone per una colpevole opacità e disfunzione organizzativaprosegue la Suprema corte, parlando di duplice profilo causale colposo che nel caso concreto ha manifestato tutta la sua nocività e ha ingenerato da parte dei lavoratori un incolpevole e legittimo affidamento sul corretto svolgimento dei ruoli e sull’esercizio dei poteri inerenti alle diverse posizioni di garanzia”.

Al riguardo, la Cassazione insiste sul fatto che il ruolo consultivo e interlocutorio del Rspp, il Responsabile del Servizio di prevenzione e protezione, deve essere funzionalmente distinto da qualsiasi ruolo decisionale, soprattutto da quello datoriale, “perché altrimenti si incrociano posizioni e funzioni con compiti strutturalmente diversi, che devono cooperare su piani diversi, decisionale il primo, consultivo il secondo. La dialettica tra chi esercita i poteri organizzativi e chi ha un ruolo tecnico ed elaborativo costituisce la sintesi di base da cui prende le mosse ogni determinazione organizzativa, amministrativa, tecnica, produttiva, in materia di sicurezza”. Di conseguenza, “la confusione dei ruoli di per sé è indice di un colposo difetto di organizzazione che ricade sul datore di lavoro, tutt’altro che esimente”.

 

Anche l’inquadramento dirigenziale non vale a elidere la posizione di garanzia

La Suprema Corte replica anche alla considerazione formulata dalla difesa che l’imputato era stato definito in sede contrattuale un dirigente: “questo vale per l’inquadramento mansionale sul piano retributivo e in relazione al proprio rapporto di lavoro con la società, ma non vale ad elidere la figura di datore di lavoro ai fini della sicurezza, che si costituisce sia in ragione di un mero rapporto contrattuale, comunque venga qualificato, sia in presenza dell’esercizio anche soltanto di fatto di poteri decisionali e di spesa, a prescindere dal titolo contrattuale che lo ha insediato in quel ruolo. Nel caso concreto emerge con chiarezza l’esercizio di tali poteri decisionali e di spesa che, sebbene formalmente limitati all’ordinaria amministrazione, comunque comprendevano ogni profilo gestorio e organizzativo sulla produzione, sul controllo degli impianti, sulle procedure lavorative, sulla formazione e informazione che in concreto hanno svolto un determinante ruolo causale dell’evento mortale per cui si procede”.

Quanto poi all’asserita esistenza di una delega di funzioni a favore di un ingegnere dello stabilimento, i giudici del Palazzaccio evidenziano come la sentenza di appello, peraltro in linea con quella di primo grado, avessero concluso che era mancata la prova dell’esistenza di un atto formale di trasferimento delle funzioni ad altro soggetto, anzi, dalle testimonianze dei dipendenti non era emersa l’esistenza di alcuna delega. Da tutti gli elementi probatori era emerso in maniera convergente che l’imputato, presente in fabbrica nel giorno dell’incidente, aveva sempre operato direttamente sull’organizzazione del lavoro, sulla ripartizione di compiti, sulla attribuzione di mansioni anche alla vittima dell’incidente mortalee aveva quindi svolto direttamente e concretamente le proprie funzioni datoriali esplicitate con l’esercizio di propri poteri organizzativi, decisionali e di spesa.

Ne consegue che in assenza di un atto di effettiva delega, in presenza dell’esercizio diretto dei poteri datoriali da parte dell’imputato, non v’è alcun rilevante atto di trasferimento di funzioni all’interno dell’azienda che può rilevare in senso esimente”.

 

Imputato responsabile quindi anche per non aver redatto un adeguato Dvr

Assodata la piena qualifica datoriale dell’imputato, emerge conseguentemente anche la responsabilità per gli altri due obblighi contestatigli sul piano della colpa specifica e della causalità materiale che la difesa aveva messo in discussione, ossia “l’omessa completa ed esauriente valutazione del rischio connesso all’impianto presso il quale operava la vittima, costituito dall’uso e dalla manutenzione del mescolatore a pale, come collegato all’impianto elettrico, attività che sul piano operativo, cognitivo, progettuale, rientrava pienamente nei compiti dell’imputato, innanzitutto come soggetto titolare del servizio di prevenzione e protezione, ruolo interpretato in termini meramente formali, e contemporaneamente come soggetto apicale con poteri decisionali e organizzativi su tutta l’attività produttiva”.

Secondo la Cassazione, l’imputato avrebbe dovuto in particolare valutare rischi e misure di prevenzione sull’uso del macchinario dove ha trovato la morte l’operaio, in relazione specifica alle mansioni e ai compiti attribuiti alla vittima dallo amministratore. Nella qualità di titolare del ruolo datoriale, il ricorrente avrebbe dunque dovuto tenere aggiornato il Documento di Valutazione dei Rischi anche con la mansione cui era addetto il lavoratore infortunato in relazione all’uso del macchinario che lo ha travolto. Non è pertanto accoglibile la tesi difensiva con cui si asserisce che non spettava all’imputato aggiornare il Dvr in quanto tale compito sarebbe stato di esclusiva competenza di chi era il datore di lavoro.

E per non aver informato e formato il lavoratore

Invece è proprio dalla duplice qualifica di responsabile del servizio di prevenzione e protezione e di datore di lavoro che emerge comunque il compito in capo alla medesima persona di valutare, elaborare, prevenire e gestire il rischio, ivi compreso l’aggiornamento del documento di valutazione del rischio che peraltro è compito indelegabile del datore di lavoro” aggiungono gli Ermellini, che rigettano infine anche il motivo di ricorso con cui l’amministratore delegato aveva ascritto ad altri, ossia all’ingegnere a cui asseriva di aver delegato i compiti al riguardo, il dovere di informazione, formazione ed addestramento del lavoratore deceduto, “obbligo che attiene al datore di lavoro e che nello specifico è stato sostanzialmente e totalmente omesso da parte dell’imputato – conclude la Cassazione – Volerlo ascrivere ad altro soggetto costituisce una mera asserzione che non trova riscontro in alcun atto formale di delega o comunque di incarico specifico alla formazione.

E anche a voler ritenere di avere sostanzialmente incaricato altri di adempiere all’obbligo di formare e addestrare il lavoratore deceduto, si deve evidenziare che l’omessa cura dell’addestramento e dell’istruzione professionale del lavoratore avrebbe potuto e dovuto essere controllata e corretta dall’imputato qualora altri soggetti eventualmente incaricati non vi avessero utilmente provveduto. Tale ruolo di vigilanza, di controllo e di cura dell’istruzione professionale sull’uso della macchina e degli impianti correlati in relazione ai rischi della dinamica dell’impianto stesso, non risultano comunque adempiuti”. Il ricorso quindi è stato rigettato e la condanna confermata.

Scritto da:

Dott. Nicola De Rossi

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Categoria:

Infortuni sul Lavoro

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