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E’ sufficiente la mancata previsione nel Piano Operativo di Sicurezza dell’impresa delle modalità di effettuazione di determinate attività, tanto più se si tratta di lavorazioni in quota, perché il datore di lavoro sia chiamato a rispondere dell’infortunio del proprio dipendente, anche se questi abbia tenuto una condotta imprudente.

A riaffermare con forza questo e altri principi su un tema quanto mai attuale, quello degli incidenti sul lavoro appunto, la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 5417/22 depositata il 16 febbraio 2022, con la quale hanno cassato e censurato il pronunciamento assolutorio emesso in appello a carico di due imprenditori.

Datori di lavoro condannati per un grave infortunio a un operaio dopo una caduta dall’alto

I due titolari di un’impresa edile erano stati condannati in primo grado da Tribunale di Firenze per il reato di lesioni colpose gravissime ai danni di un loro operaio, che era precipitato da una scala a pioli mentre era intento a eseguire un lavoro di rimozione di alcuni cavi in acciaio a cui erano collegati impianti di illuminazione sulla parete di un edificio destinato al culto, procurandosi lesioni insanabili alla sua integrità fisica conseguenti a un trauma cranio facciale con fratture delle ossa del cranio e focolai emorragici diffusi.

Tra le violazioni contestate anche la mancata previsione nel Pos delle attività in quota

Agli imputati era stata contestata l’inosservanza ad una serie di disposizioni del D.L.vo 9 Aprile 2008 n.81 (il Testo Unico), per la mancata predisposizione e fornitura di dispositivi di protezione individuale nonché per non aver verificato che venissero adottati questi dispositivi in relazione ai rischi specifici della lavorazione (art.74, 75 e 76); per la mancata previsione nel POS, Piano Operativo di Sicurezza, delle specifiche lavorazioni in quota a cui era stato assegnato il lavoratore e per l’omessa previsione dei rischi inerenti tale attività, delle misure di prevenzione adottate e dei dispositivi di sicurezza di cui gli operai avrebbero dovuto avvalersi (art.96 comma 1 lett.g); per la mancata previsione di strumenti di lavoro più idonei trattandosi di lavorazione da svolgersi in quota e che comportava un uso prolungato dello strumento (art.111 commi 1 e 3), laddove la scala utilizzata non consentiva punti di appoggio o di presa sicuri (art.113 comma 7) e per non avere disposto e preteso che il lavoratore utilizzasse sistemi di protezione idonei per l’uso specifico che consentissero l’ancoraggio, l’imbracatura, guide o linee vita che assicurassero un collegamento a parti stabili delle opere (art.115 commi 1 e 3).

 

In appello sentenza riformata e imprenditori assolti per “condotta abnorme” del lavoratore

La Corte d’Appello fiorentina, tuttavia, con sentenza del 23 giugno 2020, in totale riforma della decisione di primo grado, aveva mandato assolti gli imputati. I giudici di seconde cure, premessa la correttezza della ricostruzione dei fatti operata in primo grado, aveva tuttavia rilevato che i datori di lavoro avevano già da tempo organizzato e predisposto l’esecuzione del lavoro in quota mediante l’intervento di un carro ponte dotato di braccio elevatore, che l’impiego della scala da parte del lavoratore costituiva una sua iniziativa autonoma, verosimilmente determinata dalla richiesta della parte committente, e che i titolari della società datrice di lavoro non erano presenti sul luogo di lavoro, concludendo che nessun addebito di colpa potesse essere mosso loro, in ragione del comportamento abnorme e imprevedibile del lavoratore.

Secondo la Corte territoriale non si poteva attribuire loro alcuna responsabilità neanche per il fatto di non avere indicato nel POS i rischi connessi a tale tipo di lavorazione in altezza e gli strumenti da impiegare e le misure di sicurezza di porre in opera, dal momento che il lavoro era stato eseguito con modalità scorrette e pericolose che mai avrebbero dovuto essere poste in essere e, pertanto, neppure codificate o regolamentate, in quanto per eseguire l’intervento l’impresa appaltatrice aveva previsto l’impiego di prestazioni di una ditta terza e di una apposita macchina elevatrice.

 

La parte civile ricorre per Cassazione

La parte civile Inail a questo punto ha proposto ricorso per Cassazione, lamentando in primis il mancato assolvimento nella sentenza impugnata dell’obbligo di una motivazione rafforzata che desse conto, con un articolato e autonomo ragionamento logico giuridico, delle diverse conclusioni raggiunte attraverso una rinnovata e ponderata valutazione delle emergenze istruttorie, non limitandosi a cancellare il costrutto argomentativo della decisione del primo giudice e sostituendolo con una valutazione del tutto difforme peraltro attraverso una travisata interpretazione degli elementi probatori.

La ricorrente lamentava inoltre il travisamento della prova relativa alle modalità di esecuzione degli interventi in quota. Sulla base di una serie di riferimenti alle risultanze istruttorie si contestava il principale argomento che fondava la sentenza assolutoria, e cioè che gli interventi in quota relativamente allo sganciamento dei cavi che sorreggevano impianti di illuminazione avrebbero dovuto essere eseguiti mediante un carro ponte con braccio e noleggiato per l’occorrenza. E si richiamavano al riguardo alcuni esiti testimoniali e la sequenza degli interventi che avevano interessato i cavi posti più in alto, l’orario di inizio di tali lavori, l’organizzazione del cantiere da parte del datore di lavoro che, contrariamente a quanto affermato in sentenza, sarebbe stato visto in cantiere all’inizio della giornata, e la totale indifferenza del susseguirsi degli interventi in quota da parte dei lavoratori rispetto alla comunicazione della notizia che la ditta fornitrice del carro ponte non sarebbe intervenuta nel cantiere.

Da tali elementi testimoniali e logici la ricorrente deduceva che i lavori che avrebbero dovuto essere eseguiti con l’ausilio del carro ponte erano quelli da realizzarsi sulla sommità dell’edificio, mentre lo spostamento dei cavi e degli elementi di illuminazione collegati sarebbe stato un lavoro preliminare e propedeutico che avrebbe consentito al mezzo meccanico di potersi spostare in libertà all’interno della piazzetta che i cavi intersecavano ad una quota di circa 5 metri e mezzo di altezza.

Inoltre, si lamentava violazione di legge in relazione agli art.89, 96, 97 e 159 D.Ls.vo 81/2008 con riferimento alla ritenuta inesigibilità della condotta contestata ed alla ritenuta insussistenza della violazione delle prescrizioni antinfortunistiche. Nel ricorso si sottolinea che faceva certamente obbligo al datore di lavoro di regolare nel POS le modalità di esecuzione degli interventi in quota, compresi quelli concernenti lo sganciamento e la rimozione dei cavi in questione, trattandosi di interventi preliminari e indispensabili per procedere alle opere di ristrutturazione e di manutenzione e che tale obbligo sussisteva anche se per tali interventi l’appaltatore avesse inteso farsi assistere da un prestatore di opera esterno, facendo onere sul datore di lavoro di analizzare e considerare tutti i possibili fattori di pericolo da affrontare nel corso delle lavorazioni, quali quelli connessi alla rimozione di cavi aerei agganciati alle pareti dell’edificio da manutenere e comunque indicare le modalità più sicure e idonee per provvedervi.

 

Alla base dello scorretto intervento dell’operaio vi era la carente programmazione dei lavori

A fronte della nuova lavorazione commissionata l’impresa avrebbe dovuto aggiornare il POS indicando le specifiche lavorazioni da eseguire in quota e le misure preventive adottate anche mediante il richiamo all’utilizzo di un carro ponte, con indicazione delle misure di sicurezza connesse a tale impiego quali la messa in sicurezza dell’area complessiva di intervento. Secondo la ricorrente, invece, la Corte di Appello avrebbe del tutto omesso di considerare che alla base dello scorretto intervento della persona offesa vi era una carente e non documentata programmazione della complessiva operazione di rimozione dei cavi e la omessa indicazione delle precauzioni che dovevano accompagnare tale fase che presentava profili di complessità, per l’ubicazione dei cavi, la tensione degli stessi e il fatto che sostenessero elementi di illuminazione, nonché per il complessivo ambiente che circondava il luogo di lavoro.

Contestata anche la asserita abnormità della condotta dell’infortunato

Infine, la ricorrente contestava la ritenuta abnormità della condotta del lavoratore e la riconosciuta sussistenza di una causa interruttiva del nesso causale, tra la condotta omissiva degli imputati e l’evento infortunistico evidenziando come, se da un lato non risultavano essere state impartite dal datore di lavoro, pure presente in cantiere, specifiche istruzioni sugli interventi da eseguire, dall’altro l’opera del dipendente era risultata tutt’altro che abnorme, essendosi inserita nel segmento della lavorazione oggetto del rapporto di appalto, in assenza di specifici divieti da parte del datore di lavoro e realizzata nell’ambito di una palese situazione di carenza di apprestamento di misure di prevenzione e di salvaguardia, come evidenziato dalla mancata previsione della lavorazione nel POS, laddove invece il giudice di appello aveva relegato l’ipotesi di responsabilità datoriale alla sola ipotesi in cui questi fosse stato a conoscenza dell’iniziativa del lavoratore o l’avesse incoraggiata.

Ebbene, secondo la Suprema Corte il ricorso è assolutamente fondato, con il conseguente annullamento della sentenza impugnata. Le ragioni della sentenza assolutoria di appello, che come detto aveva riformato quella di condanna in primo grado, “risultano talmente minimali, assertive e illogiche da non imporre neppure il richiamo all’osservanza di una motivazione rafforzata, fondata su una rinnovata valutazione del materiale istruttorio e dotata di una forza persuasiva superiore che derivi da un autonomo ed esaustivo percorso argomentativo, pure richiesta dalla costante giurisprudenza di legittimità” asseriscono i giudici del Palazzaccio.

Alla base del ragionamento del giudice di appello soccorre un unico sillogismo – proseguono nelle loro censure gli Ermellini -: il giorno in cui si verificò l’infortunio il datore di lavoro aveva noleggiato un carro con braccio elevatore per eseguire interventi in quota, verosimilmente connessi anche alla rimozione dei cavi aerei agganciati all’edificio da ristrutturare e che per tale ragione il lavoratore non avrebbe dovuto issarsi con una scala lungo la parete dell’edificio per agevolare la disinstallazione di tali cavi“.

Poiché si era in presenza di un’iniziativa personale ed estemporanea del lavoratore di cui non aveva dato avviso al datore di lavoro, per i giudici territoriali si trattava di una “condotta eccentrica ed esorbitante del lavoratore e comunque nessun addebito di colpa poteva essere mosso al datore di lavoro in quanto le plurime regole cautelari che si assumeva da esso violate, garantivano la sicurezza di una prestazione lavorativa che nella specie non andava eseguita o andava svolta modalità diverse da quelle per cui le garanzie erano poste”.

 

Il Pos andava aggiornato anche se l’impresa intendeva servirsi di un carro ponte esterno

Ma questo “costrutto motivazionale”, secondo la Cassazione, presenza tutte le “carenze argomentative” indicate nei motivi di ricorso. “In presenza di appalto di opere da realizzare in quota, rientrava certamente nei compiti dell’impresa appaltatrice quello di eseguire tutti gli interventi preliminari volti ad agevolare e a consentire la esecuzione degli interventi di ristrutturazione dell’edificio. Pertanto a carico dell’impresa appaltatrice era posta anche la rimozione, definitiva o provvisoria, degli elementi passanti, agganciati alle pareti del manufatto da restaurare, che ostacolavano la esecuzione degli interventi. Ne consegue pertanto che nel piano operativo di sicurezza dell’impresa appaltatrice, ai sensi degli art.89, 96 lett.g) e 97 D.Lgs.vo n.81/2008 dovevano essere inserite anche le modalità di esecuzione di tali interventi, con previsione dei rischi connessi a tale lavorazione e con indicazione delle misure di sicurezza abbinate” concorda con la ricorrente la Suprema Corte.

La totale assenza di una specifica regolamentazione nel POS dell’impresa appaltatrice, prosegue la Cassazione, “non consente, pertanto, di affermare che la lavorazione sarebbe stata certamente appaltata a terzi o eseguita mediante il noleggio di un mezzo meccanico (carro-ponte), ma manifesta una carenza organizzativa e previsionale in relazione ad una fase dei lavori presi in appalto che, nondimeno, le maestranze dell’impresa esecutrice avrebbero dovuto supportare, coadiuvare e dirigere, in considerazione delle numerose e complesse articolazioni dei cavi che sorreggevano elementi illuminanti e gli incroci che gli stessi presentavano nell’ambito di spazi esterni intensamente frequentati”.

Insomma, l’assenza di qualsiasi previsione nel POS di questa complessa ed articolata attività era pertanto “un primo argomento con il quale il giudice di appello avrebbe dovuto confrontarsi senza ricorrere al sillogismo, assertivo e congetturale, secondo cui per tali lavorazioni le maestranze non avrebbero dovuto intervenire”, affermazione che peraltro, evidenziano i giudici del Palazzazzio, “non trova il conforto di alcun atto processuale, se non la circostanza che il datore di lavoro aveva noleggiato una carro ponte, ma tale circostanza non cancella il dato, di per sé assorbente, della totale assenza di previsione nel POS delle modalità di svolgimento dell’intervento di sganciamento dei pesanti cavi di acciaio che collegavano le pareti dell’edificio“.

 

Le disposizioni di sicurezza servono anche per tutelare i dipendenti dai loro errori

Le disposizioni in materia di sicurezza e prevenzione degli infortuni, infatti, rammentano gli Ermellini, perseguono il fine di tutelare il lavoratore anche dagli infortuni derivanti da sua colpa, “onde l’area di rischio da gestire comprende il rispetto della normativa prevenzionale che si impone ai lavoratori, dovendo il datore di lavoro impedire l’instaurarsi, da parte degli stessi destinatari delle direttive di sicurezza, di prassi di lavoro non corrette e, come tali, latrici di possibili rischi per la sicurezza e la incolumità dei lavoratori, soprattutto allorquando, come nel caso in specie, le modalità lavorative non erano specificamente regolamentate e il lavoratore aveva assunto una iniziativa che non si poneva in contrasto con uno specifico divieto del datore di lavoro, che pure era presente in cantiere nelle prime ore della giornata, ed aveva operato con strumenti di lavoro presenti nel cantiere

Ma la Suprema corte rileva altresì come la Corte di Appello di Firenze non si fosse limitata ad escludere in capo al datore di lavoro l’esigibilità del rispetto delle regole cautelari che presiedevano lo svolgimento dell’attività lavorativa della persona offesa, ma avesse anche ragionato in termini di esclusione del rapporto di causalità, pervenendo a una pronuncia assolutoria per insussistenza del fatto, sul presupposto che non era stato il datore di lavoro, pure presente in cantiere nelle prime ore della mattina, a sollecitare l’intervento del lavoratore con l’impiego della scala.

 

Quando il sistema di lavoro apprestato dal datore è carente il lavoratore non è responsabile

L’affermazione – incalza la Suprema Corte – si pone in contrasto con la giurisprudenza del giudice di legittimità. Depone infatti per l’esclusione dell’interruzione del rapporto di causalità in presenza della imprudente condotta del lavoratore la giurisprudenza che limita la responsabilità del lavoratore nella causazione dell’infortunio quando, come nella specie, il sistema di sicurezza apprestato dal datore di lavoro presenti delle evidenti criticità e dia pertanto ingresso a iniziative personali volte ad accelerare le modalità di lavoro.

Dunque, la motivazione della sentenza è “manifestamente contraria ai principi espressi dal giudice di legittimità in plurime sentenze” anche quando ravvisa l’abnormità della condotta del lavoratore e quindi l’interruzione del rapporto di causalità in ragione dell’iniziativa autonoma da questi assunta, “intersecando il piano eziologico e quello della colpa laddove afferma che vi sarebbe responsabilità solo se si dimostrasse che questi era a conoscenza delle decisioni assunte dal lavoratore, o le avesse addirittura suggerite”.

I giudici del Palazzaccio rammentano invece come sia stato più volte evidenziato dalla Suprema Corte che la colpa del lavoratore, eventualmente concorrente con la violazione della normativa antinfortunistica addebitata ai soggetti tenuti ad osservarne le disposizioni, non esime questi ultimi dalle proprie responsabilità, “poiché l’esistenza del rapporto di causalità tra la violazione e l’evento-morte o lesioni del lavoratore che ne sia conseguito può essere esclusa unicamente nei casi in cui sia provato che il comportamento del lavoratore fu abnorme, e che proprio questa abnormità abbia dato causa all’evento”.

 

Quando il comportamento dell’addetto può ritenersi “abnorme”

Abnorme, puntualizza ulteriormente la Cassazione, è “soltanto il comportamento del lavoratore che, per la sua stranezza ed imprevedibilità, si ponga al di fuori di ogni possibilità di controllo da parte dei soggetti preposti all’applicazione della misure di prevenzione contro gli infortuni sul lavoro, e tale non è il comportamento del lavoratore che abbia compiuto un’operazione comunque rientrante, oltre che nelle sue attribuzioni, nel segmento di lavoro attribuitogli”.

In definitiva, in tema di infortuni sul lavoro, perché possa ritenersi che il comportamento negligente, imprudente e imperito del lavoratore, pur tenuto in esplicazione delle mansioni allo stesso affidate, costituisca concretizzazione di un “rischio eccentrico“, con esclusione della responsabilità del garante, “è necessario che questi abbia posto in essere anche le cautele che sono finalizzate proprio alla disciplina e governo del rischio di comportamento imprudente, così che, solo in questo caso, l’evento verificatosi potrà essere ricondotto alla negligenza del lavoratore, piuttosto che al comportamento del garante”.

In conclusione, il giudice d’appello ha fatto “malgoverno” dei principi che regolano la responsabilità del datore di lavoro pure in presenza di un comportamento imprudente del lavoratore e “ha del tutto omesso di procedere ad una rinnovata valutazione del materiale istruttorio per formulare una plausibile alternativa ricostruzione dei fatti che potesse giustificare, sotto il profilo logico argomentativo, le diverse conclusioni assunte in ordine ai fondamentali nodi della causalità della colpa e delle ragioni per cui il datore di lavoro non fosse tenuto al rispetto delle regole cautelari in imputazione e della causalità materiale”.

Scritto da:

Dott. Nicola De Rossi

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Categoria:

Infortuni sul Lavoro

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