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Le opere edilizie “abusive” alterano il decoro architettonico di un edificio anche se non sono visibili dalla strada, né si possono “giustificare” per il semplice fatto che lo stabile aveva già subito prima, nel tempo, delle modifiche rispetto all’assetto originario.  Lo ha stabilito la Cassazione, seconda sezione civile, con l’ordinanza n. 16518/23 depositata il 12 giugno 2023, interessante non solo sotto il profilo delle questioni condominiali ed edilizie ma anche, appunto, sotto il profilo architettonico.

 

Una condomina cita un vicino che ha realizzato opere violando le distanze e alterando il decoro

La condomina di una palazzina, proprietaria di un appartamento con terrazzo che confinava con un altro terrazzo separato da un muro, nel lontano 2004 aveva citato in causa il vicino proprietario di quest’ultimo alloggio, lamentando il fatto che questi, nel corso degli anni, avesse realizzato una serie di opere in violazione delle distanze tra le costruzioni e per le vedute, alterando il decoro architettonico dell’edificio. Su questa base, nella sua qualità di proprietaria dell’unità immobiliare e di condomina, aveva pertanto chiesto la condanna del vicino al ripristino dei luoghi e al risarcimento dei danni.

Il Tribunale aveva accertato che l’uomo in effetti aveva realizzato, in appoggio al muro di confine tra i due terrazzi, un manufatto abitabile composto da più vani, coperto da tre solai calpestabili, costituenti lastrici solai, situati a differenti quote. E aveva altresì rilevato come dai due lastrici protetti fosse possibile sporgersi e guardare in tutte le direzioni nel fondo della vicina.

Il giudice di primo grado aveva pertanto applicato l’art. 905 c.c. (distanza minima di un metro e mezzo per l’apertura di vedute dirette), ordinando quindi l’arretramento dei parapetti, oltre al risarcimento dei danni da liquidarsi in separato giudizio, ma aveva esclusa la violazione dell’art. 873 c.c., evidenziando che era osservata la distanza minima dalla costruzione della condomina, poiché era possibile costruire in aderenza al muro, in applicazione del principio della prevenzione, senza che il regolamento comunale prevedesse qualcosa in contrario. La donna aveva appellato la sentenza ma la Corte d’Appello di Napoli nel 2017 aveva respinto il gravame confermando la pronuncia di prime cure.

Di qui il suo ulteriore ricorso per Cassazione che ha accolto i suoi motivi di doglianza, a cominciare dal primo in cui lamentava il fatto che la Corte di Appello avesse rigettato la domanda di condanna all’arretramento delle opere dal muro di confine, che invece la Suprema Corte ha disposto.

Ma la censura che qui interessa è quella con cui la condomina ha dedotto violazione e falsa applicazione dell’art. 1127 c.c., con riferimento alla valutazione delle caratteristiche e dell’aspetto architettonico del fabbricato, avendo la Corte d’appello omesso qualsiasi indagine volta ad individuare, in concreto, il preciso stile del fabbricato e dell’opera realizzata, giungendo alla conclusione secondo cui, per citare la sentenza impugnata, “non è apprezzabile l’incompatibilità con lo stile architettonico dell’edificio”.

Motivo anche questo pienamente fondato secondo gli Ermellini, che fanno notare come dalla consulenza tecnica d’ufficio il perito incaricato avesse rilevato che le opere realizzate, citando anche qui l’elaborato, “alterano senz’altro lo stato originario di progetto del fabbricato. Tali opere sono chiaramente osservabili dagli appartamenti circostanti (anche di altri edifici) a quota uguale o maggiore. Le forme realizzate, quali ad esempio gli archi delle portefinestre, non risultano in sintonia con l’estetica del fabbricato, caratterizzata dalla linea dritta. Inoltre, i volumi realizzati introducono elementi di disturbo e confusione, quali ad esempio solai a differenti altezze, compromettendo ulteriormente un giudizio positivo sull’estetica del fabbricato”.

 

Nulla rileva che le alterazioni non siano visibili dalla strada

La Corte aveva tuttavia ritenuto di sottovalutare questi elementi, sostenendo che, per riportare la sentenza, “queste alterazioni sono intervenute su un prospetto dell’edificio già gravemente compromesso da plurimi interventi di altri condomini che hanno concorso a disperdere la simmetria, l’estetica e l’aspetto generale del fabbricato, oltre che dal degrado connesso alla vetustà della struttura”.

Inoltre, aggiungevano i giudici di seconde cure, ed è l’aspetto che più preme,essi non sono visibili dalla strada su cui aggetta il prospetto interessato di talché non è apprezzabile l’incompatibilità con lo stile architettonico dell’edificio, né la disomogeneità delle linee e delle strutture se non perdendo di vista l’armonia estetica dell’edificio e orientando lo sguardo da siti privati, con un’attenzione al particolare, piuttosto che all’insieme”.

Una motivazione che, asserisce con forza la Cassazione, urta contro la giurisprudenza di legittimità “già perché attribuisce rilevanza alla visibilità delle alterazione – spiegano gli Ermellini –. Infatti, per decoro architettonico deve intendersi l’estetica del fabbricato risultante dall’insieme delle linee e delle strutture che lo connotano intrinsecamente, imprimendogli una determinata armonica fisionomia ed una specifica identità”. Pertanto, sentenzia la Suprema Corte, “è irrilevante il grado di visibilità delle nuove opere sottoposte a giudizio, in relazione ai diversi punti da cui si osserva l’edificio”.

I giudici del Palazzaccio evidenziano inoltre come “sottesa all’argomentazione della Corte territoriale è l’idea che non possa avere incidenza lesiva del decoro architettonico un’opera modificativa dell’edificio, quando l’originario decoro si sia già degradato in conseguenza di interventi modificativi precedenti di cui non sia stato preteso il ripristino. Tale idea, se può vantare qualche appiglio nella giurisprudenza di questa Corte, è da coordinare con una considerazione sistemica che, nel valutare l’impatto sul decoro architettonico di un’opera modificativa, adotta un criterio flessibile, di maggiore o minore rigore, in vista delle caratteristiche dell’edificio di volta in volta sottoposto a giudizio, ove devono essere reciprocamente temperati i rilievi attribuiti all’unitarietà di linee e di stile originaria, alle menomazioni apportate da precedenti modifiche altrui e all’alterazione prodotta dall’attuale opera modificativa”. 

A tutto ciò, sottolineano peraltro gli Ermellini, si aggiunge che nel caso di specie “l’allegata lesione del decoro architettonico si congiunge ad un’altra violazione accertata (in materia di distanze) che impone comunque una revisione della nuova opera. In tale contesto, far pesare in modo decisivo gli effetti delle plurime alterazioni precedenti per negare l’incidenza lesiva del decoro architettonico dell’opera modificativa sottoposta a giudizio priverebbe tale parametro estetico di qualsiasi forza normativa per il futuro, proprio nel momento in cui s’impone per altre ragioni una revisione della nuova opera”.

Nell’accogliere il secondo motivo del ricorso la Suprema Corte ha anche pronunciato un importante principio di diritto sul tema. “In materia di condominio negli edifici, nel valutare l’impatto di un’opera modificativa sul decoro architettonico è da adottare un criterio di reciproco temperamento tra i rilievi attribuiti all’unitarietà di linee e di stile originaria, alle menomazioni apportate da precedenti modifiche e all’alterazione prodotta dall’opera modificativa sottoposta a giudizio, senza che possa conferirsi rilevanza da sola decisiva, al fine di escludere un’attuale lesione del decoro architettonico, al degrado estetico prodotto da precedenti alterazioni”.

Scritto da:

Dott. Nicola De Rossi

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