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Va risarcito dal Comune il pedone che cade e si fa male sul tombino sconnesso del marciapiede: l’ora tarda in cui è accaduto l’incidente, e il fatto che il punto in questione fosse ricoperto da foglie e detriti, che occultavano ulteriormente il pericolo, qualificano quell’anomalia in tutto e per tutto come una “insidia” e sgravano di qualsiasi colpa la persona danneggiata.

Così ha deciso la Cassazione, terza sezione Civile, nell’ordinanza n. 27648/23 depositata il 29 settembre 2023 nella quale la Suprema Corre “rinfresca” anche i principi in materia.

Una donna caduta su un tombino sconnesso chiede i danni al Comune

Una donna aveva citato in giudizio il Comune avanti il Tribunale di Nocera Inferiore per essere risarcita dei danni patiti in conseguenza di una rovinosa caduta occorsale mentre camminava sul marciapiede e causata da un tombino che non era stato posizionato a regola d’arte, in quanto mancava una striscia obliqua di asfalto, per cui i bordi non combaciavano con il resto della pavimentazione.

Il fatto, peraltro, era accaduto alle sei di sera di un giorno d’autunno, il 4 novembre del 2008, quando quindi era già buio. E inoltre nell’avvallamento che si era venuto a creare si erano accumulati detriti, foglie e cartacce che rendevano non visibile, oltre che non segnalata, la situazione di pericolo.

I giudici condannano al risarcimento l’Amministrazione comunale

I giudici, acquisite le testimonianze e disposta una consulenza tecnica medico legale, avevano parzialmente accolto la domanda risarcitoria, ritenendo corresponsabile il pedone nella misura del trenta per cento di colpa, e condannando quindi il Comune a risarcire la donna sulla scorta della sua percentuale di responsabilità, del restante 70 per cento, della somma di 36.865 euro oltre agli interessi e alle spese di lite.

Il verdetto era stato appellato da entrambe le parti e la Corte d’Appello di Salerno, con sentenza del 2019, aveva dato ragione piena alla danneggiata ascrivendo l’esclusiva responsabilità della caduta al Comune e condannandolo a liquidarle la maggiore somma di 44.346 euro. Di qui dunque l’ulteriore ricorso per Cassazione dell’Amministrazione comunale secondo la quale la decisione della Corte territoriale non avrebbe fatto una corretta applicazione delle norme in materia di custodia delle strade e avrebbe comunque dovuto riconoscere un concorso di responsabilità della vittima nella caduta.

Doglianze ritenute tuttavia inammissibili e comunque infondate dalla Suprema Corte che con l’occasione ribadisce i principi in tema di responsabilità civile per danni da cose in custodia. In primis, rammentano gli Ermellini, “la condotta del danneggiato, che entri in interazione con la cosa, si atteggia diversamente a seconda del grado di incidenza causale sull’evento dannoso, in applicazione dell’art. 1227, primo comma, cod. civ., richiedendo una valutazione che tenga conto del dovere generale di ragionevole cautela, riconducibile al principio di solidarietà espresso dall’art. 2 della Costituzione”.

Ne consegue che, quanto più la situazione di possibile danno è suscettibile di essere prevista e superata “attraverso l’adozione da parte del danneggiato delle cautele normalmente attese e prevedibili in rapporto alle circostanze, tanto più incidente deve considerarsi l’efficienza causale del comportamento imprudente del medesimo nel  dinamismo  causale  del  danno, fino a rendere possibile che detto comportamento interrompa il nesso eziologico tra fatto ed evento dannoso, quando sia da escludere che lo stesso comportamento costituisca un’evenienza ragionevole o accettabile secondo un criterio probabilistico di regolarità causale, connotandosi, invece, per l’esclusiva efficienza causale nella produzione del sinistro”.

 

L’onere probatorio

Premesso questo, i giudici del Palazzaccio riaffermano poi il fondamentale principio in ordine all’onere probatorio secondo cui la responsabilità di cui all’art. 2051 c.c. “ha carattere oggettivo, e non presunto, essendo sufficiente, per la sua configurazione, la dimostrazione da parte dell’attore del nesso di causalità tra la cosa in custodia ed il danno, mentre sul custode grava l’onere della prova liberatoria del caso fortuito, senza alcuna rilevanza della diligenza o meno del custode”.

In altri termini, esplica ulteriormente la Cassazione “l’art. 2051 c.c., nel qualificare responsabile chi ha in custodia la cosa per i danni da questa cagionati, individua un criterio di imputazione della responsabilità che prescinde da qualunque connotato di colpa, sicché incombe al danneggiato allegare, dandone la prova, il rapporto causale tra la cosa e l’evento dannoso, indipendentemente dalla pericolosità o meno o dalle caratteristiche intrinseche della prima; la deduzione di omissioni, violazioni di obblighi di legge, di regole  tecniche o di criteri di comune  prudenza da parte del custode rileva ai fini della sola fattispecie dell’art. 2043 c.c., salvo che la deduzione non sia diretta soltanto a dimostrare lo stato della cosa e la sua capacità di recare danno, a sostenere allegazione e prova del rapporto causale tra quella e l’evento dannoso”.

 

Il caso fortuito

Gli Ermellini si soffermano quindi sul concetto di “caso fortuito”. “Il caso fortuito rappresentato da fatto naturale o del terzo – spiegano – è connotato da imprevedibilità ed inevitabilità, da intendersi però da un punto di vista oggettivo e della regolarità causale (o della causalità adeguata), senza alcuna rilevanza della diligenza o meno del custode; peraltro le modifiche improvvise della struttura della cosa incidono in rapporto alle condizioni di tempo e divengono, col trascorrere del tempo dall’accadimento che le ha causate, nuove intrinseche condizioni della cosa stessa, di cui il custode deve rispondere; il caso fortuito, rappresentato dalla condotta del danneggiato, è connotato dall’esclusiva efficienza causale nella produzione dell’evento; a tal fine, la condotta del danneggiato che entri in interazione con la cosa si atteggia diversamente a seconda del grado di incidenza causale sull’evento dannoso, in applicazione anche ufficiosa dell’art. 1227 c.c., comma 1; e deve essere valutata tenendo anche conto del dovere generale di ragionevole cautela riconducibile al principio di solidarietà espresso dall’art. 2 Cost.”, come già detto sopra.

Sul piano della “struttura della fattispecie, il caso fortuito, chiarisce ancora la Cassazione, “appartiene morfologicamente alla categoria dei fatti giuridici naturali e si pone in relazione causale diretta, immediata ed esclusiva con la res, senza intermediazione di alcun elemento soggettivo (dolo o colpa) in capo al custode; mentre la condotta del terzo e la condotta del danneggiato rilevano come fatti umani caratterizzati dalla colpa (art. 1227, primo comma, cod. civ.), con rilevanza causale esclusiva o concorrente intesa, nella specie, come caratterizzazione di una condotta oggettivamente imprevedibile ed oggettivamente imprevenibile da parte del custode. Ne consegue che l’equiparazione fortuito-fatto umano può avvenire esclusivamente sul piano degli effetti, e non della relativa morfologia, posto che la riconducibilità dell’evento alla res, sul piano causale, non è naturalisticamente esclusa dal fatto umano (in assenza della cosa, non si sarebbe verificato il danno), bensì giuridicamente ricondotta al principio di cui all’art. 41 cod. pen. dato che quegli stessi comportamenti umani si pongano in termini di cause sopravvenute che escludono il rapporto di causalità quando sono state da sole sufficienti a determinare l’evento, in tal modo degradando il ruolo della res in custodia a mera occasione del danno”,

Sia il fatto naturale (fortuito) sia la condotta umana (del terzo o del danneggiato) – prosegue la Suprema Corte – si pongono, specularmente, sul piano funzionale, in relazione causale con l’evento di danno non nel senso della (impropriamente definita) interruzione del nesso tra cosa e danno, bensì alla luce del principio di cui all’art. 41 cod. pen., che relega al rango di mera occasione la relazione con la res, deprivata della sua efficienza sul piano della causalità materiale (erroneamente confusa, talvolta, con la causalità naturale), senza peraltro cancellarne l’efficienza naturalistica; e ciò tanto nell’ipotesi di efficacia causale assorbente, quanto di causalità concorrente (sia del fortuito, sia delle condotte umane), poiché, senza la preesistenza e la specifica caratterizzazione della res, il danno non si sarebbe verificato”.

 

Il Comune non ha provato il caso fortuito e nulla dimostrava un concorso di colpa del pedone

Fatte tutte queste utili premesse, i giudici del Palazzaccio vengono al caso specifico concludendo che la Corte d’appello ha fatto buon governo di questa giurisprudenza ed evidenziando come la sentenza impugnata, “con un accertamento congruamente motivato e privo di vizi logici e di contraddizioni, non suscettibile di ulteriore modifica in questa sede”, abbia riconosciuto, tra l’altro, “che la ricostruzione dei fatti operata dal Tribunale era corretta, che i testimoni erano coerenti e credibili, che il Comune non aveva fornito alcuna prova dell’esistenza del caso fortuito, che l’incidente era avvenuto in ora serale ma comunque buia e che nessun elemento era emerso idoneo a dimostrare l’esistenza di un concorso di colpa della danneggiata, né un uso improprio del bene in custodia da parte sua”.

Il ricorso è stato pertanto rigettato con l’integrale conferma della decisione della Corte d’appello e la condanna del Comune a pagare anche le ulteriori spese di giudizio.

Scritto da:

Dott. Nicola De Rossi

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Categoria:

Responsabilità della Pubblica Amministrazione

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