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L’entrataccia sulle gambe dell’avversario da cartellino “rosso” in una partita a calcio, la manovra scorretta durante la volata di una gara ciclistica, insomma le irregolarità commesse durante una gara sportiva possono assumere rilevanza penale?  Tendenzialmente no, a meno di casi estremi, secondo la Cassazione, che si è occupata di una vicenda sul genere nell’interessante sentenza n. 37178/22 depositata il 3 ottobre 2022.

 

Il Tribunale assolve un pilota accusato di lesioni colpose dopo un sorpasso “vietato”

Il Tribunale di Rimini, con sentenza del 20 ottobre 2020, in riforma della decisione del Giudice di Pace della stessa città, aveva assolto un pilota automobilistico dal reato di lesioni colpose cagionate ad altro pilota nell’ambito di competizione sportiva all’interno di circuito automobilistico di Misano Adriatico (in foto) perché “il fatto non costituisce reato”, revocando contemporaneamente le statuizioni civili in favore della parte civile costituita riconosciute dal giudice di prima cure. All’imputato era stato contestato di avere eseguito una manovra di sorpasso, in prossimità di una curva a sinistra, con modalità non consentite in quanto realizzata con superamento dei margini della pista, sormontando un cordolo di delimitazione, il che aveva comportato da un lato il taglio della pista e dall’altro un rimbalzo contro un avvallamento del terreno che ne aveva determinato il rientro nel tracciato con perdita di controllo del mezzo. Mezzo che in questo modo aveva finito per tamponare l’auto del pilota avversario, che era finito in testa coda e si era poi ribaltato, riportando gravi lesioni fisiche.

Per il giudice la condotta era scriminata dalla esimente del “rischio consentito”

Il giudice di appello, pure riconoscendo che l’imputato aveva travalicato le regole del regolamento sportivo nelle competizioni su circuito automobilistico, in quanto la manovra non poteva essere realizzata in tal modo (con fuoriuscita dai margini della pista e con modalità pericolose), aveva altresì riconosciuto che la condotta del pilota era comunque scriminata dalla esimente del “rischio consentito”, in quanto finalisticamente coerente con lo spirito e le finalità della competizione, in quanto non solo non era mirata ad attentare all’incolumità fisica del contendente, ma era altresì diretta a conseguire un risultato sportivo utile e cioè ad acquisire un vantaggio per ultimare la gara nel più breve tempo possibile. Sul punto il Tribunale aveva richiamato la giurisprudenza di legittimità che riconosceva la scriminante del rischio consentito ogni qualvolta la condotta sportiva non fosse risultata sproporzionata alle caratteristiche, alla natura ed alla finalità della competizione, per quanto irregolare rispetto alla disciplina di riferimento.

 

Il pilota rimasto ferito ricorre per Cassazione

Il pilota rimasto ferito ha proposto ricorso per Cassazione lamentando violazione degli art.50 e 51 cod. pen. in relazione all’applicazione della scriminante dell’esercizio dell’attività sportiva, in quanto a suo dire, nel caso in questione, non ne sarebbero ricorsi i presupposti di legge come interpretati dalla giurisprudenza di legittimità. In particolare, il ricorrente ha contestato l’interpretazione fornita dal giudice d’appello in ordine al perimetro di applicazione del “rischio sportivo” il quale, secondo la sua tesi, non potrebbe essere in grado di scriminare condotte poste in essere con l’inosservanza di regole cautelari specifiche, come nella specie, laddove la valutazione della colpevolezza dell’atleta nell’ambito di competizioni sportive dovrebbe essere necessariamente agganciata alla verifica dell’inosservanza delle norme che disciplinano l’attività sportiva con una valutazione ex ante e tenuto conto delle circostanze del caso concreto. Secondo il danneggiato, non si sarebbe in alcun moto potuto affermare che la condotta dell’imputato, seppure irregolare in quanto contraria al regolamento di riferimento (sorpasso irregolare e pericoloso), rientrava comunque nell’ambito del rischio consentito. 

La Suprema Corte rigetta la doglianza e spiega

Nodo del contendere, dunque, la decisine di “degradare a mera “irregolarità”, non comportante un addebito di responsabilità penale per colpa in quanto intervenuta nel contesto della competizione sportiva, la violazione delle regole della gara e del circuito commessa, senza ombra di dubbio dal pilota avversario. Ma per la Suprema Corte la tesi del ricorrente, “agganciata a principi giurisprudenziali risalenti”, risulta infondata “sia con riferimento alle regole ermeneutiche formulate in epoca più recente in materia di colpevolezza nei reati colposi di evento, con particolare riferimento all’obbligo di verifica della colpa in concreto e al necessario giudizio sulla causalità della colpa, sia con riferimento all’evoluzione giurisprudenziale concernente i limiti di operatività della cosiddetta scriminante del “rischio consentito” in materia di eventi dannosi verificatosi nel corso delle competizioni sportive, fino agli ultimi approdi del giudice di legittimità che, nel mettere in discussione l’esistenza stessa di una causa di giustificazione non codificata nel settore dell’attività sportiva agonistica, ha riconosciuto comunque la necessità di ricorrere, anche in tale settore, ai principi generali in materia di colpa, ponendo una netta distinzione tra l’inosservanza della regola cautelare sportiva e la individuazione di una regola cautelare, rilevante ai fini della responsabilità penale, che connoti di anti-doverosità la condotta dell’atleta impegnato nella gara o nella pratica sportiva”.

 

La causalità della colpa

La Suprema Corte spiega che la giurisprudenza di legittimità ha ormai costantemente riconosciuto che la responsabilità colposa implica “che la violazione della regola cautelare deve avere determinato la concretizzazione del rischio che detta regola mirava a prevenire (cosiddetta causalità della colpa), poiché alla colpa dell’agente va ricondotto non qualsiasi evento realizzatosi, ma solo quello causalmente riconducibile alla condotta posta in essere in violazione della regola cautelare”.

E infatti, proseguono gli Ermellini, “la stessa titolarità di una posizione di garanzia non comporta, in presenza del verificarsi dell’evento, un automatico addebito di responsabilità colposa a carico del garante, imponendo il principio di colpevolezza la verifica in concreto sia della sussistenza della violazione – da parte del garante – di una regola cautelare (generica o specifica), sia della prevedibilità ed evitabilità dell’evento dannoso che la regola cautelare violata mirava a prevenire (cosiddetta concretizzazione del rischio), sia della sussistenza del nesso causale tra la condotta ascrivibile al garante e l’evento dannoso”.

I giudici del Palazzaccio aggiungono poi che “la verifica della causalità della colpa e l’indagine sulla ricorrenza della esigibilità della condotta doverosa e della prevedibilità dell’evento in capo all’agente dannoso risultano ancora più stringenti nello specifico settore delle competizioni sportive dove la disciplina regolamentare è diretta primariamente ad assicurare la regolarità della competizione e ad indicare i criteri in base ai quali il gesto sportivo, pure violento o pericoloso, è ammesso, tenuto conto della natura e delle caratteristiche della gara, ovvero è sanzionabile, quale illecito sportivo”.

 

Non rispettare una “regola del gioco” non comporta in automatico addebito di colpa penale

Ed è qui che la Suprema corte ribadisce che le regole del gioco “non sono necessariamente regole cautelari dalla cui inosservanza consegua automaticamente un addebito di colpa penale in presenza di eventi dannosi collegati eziologicannente al gesto sportivo, laddove la violazione di una regola del gioco che sanziona un fallo di gioco non può al contempo dar luogo a colpa penale perché quelle regole definiscono comportamenti resi leciti dall’accettazione da parte di tutti i partecipanti, e dalla loro inosservanza consegue una sanzione sportiva o disciplinare che assume rilevanza nell’ambito della stessa gara in cui è intervenuta la violazione, mediante l’applicazione di una punizione, una penalità o una squalifica, che potrebbe avere conseguenze anche nelle gare successive”.

In altri termini vengono a delinearsi due diverse aree, quella sportiva e quella penale, “coperte da regole diverse, perché dirette a gestire “rischi” diversi: quelli sportivi, conosciuti e accettati dagli atleti, i quali in tale ambito sono consapevoli della potenziale lesività di determinate azioni di gioco, quale conseguenza possibile della pratica sportiva svolta; quelli penali, quale conseguenza dannosa di azioni che esorbitano dall’ordinario sviluppo del gioco o della pratica sportiva interessata, aventi cioè un “quid pluris” che le rende perseguibili penalmente in quanto caratterizzate da dolo, allorquando siano volontariamente rivolte a procurare nocumento all’avversario ovvero da colpa, allorquando si travalichi, per colpa appunto, il confine della lealtà sportiva tradendo l’affidamento serbato degli altri partecipanti alla competizione sul rispetto dei limiti della stessa”.

Per assumere rilevanza penale le “azioni sportive scorrette” devono esorbitare dall’ordinario

In ogni caso la verifica della colpevolezza nei delitti colposi di evento nell’ambito delle competizioni sportive, conclude la Cassazione, non si esaurisce “nell’accertamento della inosservanza da parte dell’atleta ad una specifica prescrizione del regolamento sportivo, ma deve estendersi all’individuazione di una regola cautelare che assuma rilievo ai fini penali, idonea a definire il comportamento doveroso secondo standard di prudenza e di diligenza che non esorbitino dalle regole del gioco e non si pongano in contrasto con il naturale sviluppo della pratica sportiva, confliggendo al contempo con i principi di correttezza e di lealtà che sovraintendono la competizione sportiva”: valutazione, questa,  che è rimessa al giudice di merito, “tenuto conto delle peculiarità del caso concreto”, e che non risulta pertanto suscettibile di sindacato da parte del giudice di legittimità “se sorretta da motivazione non contraddittoria e non caratterizzata da manifesta illogicità”. Il ricorso è stato pertanto rigettato.

Scritto da:

Dott. Nicola De Rossi

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