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Se una persona scopre dopo tanti anni, grazie a un esame medico di (solo) recente introduzione, che la patologia di cui soffre è stata causata da malpractice, può chiedere di essere risarcito anche se i termini per la richiesta sarebbero ampiamente prescritti?

Con la notevole sentenza n. 30380/22, depositata il 17 ottobre 2022, la Cassazione ha stabilito che, per valutare la prescrizione del danno alla salute, e dunque il relativo diritto al risarcimento, non si può prescindere dalle conoscenze via via acquisite nel tempo dalla scienza medica, e quindi che il termine non può decorrere se mancano gli strumenti per accertare il nesso causale.

 

Domanda di risarcimento respinta perché il diritto è considerato prescritto

La particolare vicenda di cui si è occupata la Suprema Corte è quella di un oggi quarantatreenne affetto da ipoacusia neurosensoriale, il quale però soltanto nel 2006, a seguito di una Risonanza Magnetica, aveva scoperto che la sua sordità bilaterale era stata determinata da ipossia fetale al momento del parto, avvenuto nel 1979.

L’uomo, nel 2010, aveva quindi chiesto i danni all’ospedale e alla relativa azienda sanitaria ma il Tribunale di Taranto nel 2014 aveva rigettato la domanda e la Corte d’Appello di Lecce sezione staccata di Taranto, avanti la quale il danneggiato aveva appellato la decisione di prime cure, con sentenza del 2020 aveva dichiarato estinto per prescrizione il suo diritto al risarcimento.

I giudici territoriali avevano infatti rilevato come, nonostante la sordità fosse stata definitivamente accertata nel 1985, quando il ricorrente aveva 6 anni, soltanto nel 2006, a seguito appunto di una Rm, egli aveva allegato che la patologia avrebbe trovato origine dall’ipossia, e nessun peso era stato dato alle ragioni della vittima, il quale aveva obiettato come la risonanza magnetica  di “recente acquisizione, invasiva e potenzialmente pericolosa, non rientrava nella prassi ordinaria di tutti gli audiolesi” per citare uno stralcio delle sue argomentazioni.

Argomentazioni che il danneggiato ha sviluppato anche nel suo ricorso alla Suprema Corte, che invece gli ha dato ragione. La Terza Sezione civile ricorda innanzitutto che il termine di prescrizione del diritto al risarcimento del danno inizia a decorrere “non dal momento in cui il fatto si verifica nella sua materialità e realtà fenomenica, ma da quando esso si manifesta all’esterno con tutti i connotati che ne determinano l’illiceità“.

 

La prescrizione decorre da quando il danno non si verifica ma si manifesta nella sua illiceità

Sicché, prosegue, “l’exordium praescriptionis”, ossia l’inizio della prescrizione, “coincide con il momento in cui viene ad emersione il completamento della fattispecie costitutiva del diritto, da accertarsi, rispetto al soggetto danneggiato, secondo un criterio oggettivo di conoscibilità della etiopatogenesi“. Applicando tale principio alla fattispecie, prosegue il ragionamento, non si può perciò ignorare che l’attore abbia dedotto di aver potuto conoscere il nesso causale con il parto “soltanto nel 2006, a seguito di risonanza magnetica, quale esame diagnostico ritenuto solo di “recente acquisizione”.

Al contrario, proseguono gli Ermellini “l’oggettiva conoscibilità della causa della malattia a carico del danneggiato, da valutarsi in correlazione alla diffusione delle conoscenze scientifiche, non risulta affatto dalla sentenza impugnata“. I giudici territoriali, evidenzia la Suprema Corte, si sono soffermati sul profilo della “carente diligenza nell’accertamento della etiopatogenesi della malattia in ragione di elementi che, tuttavia, non forniscono il dato oggettivo su cui avrebbe dovuto fare leva la condotta diligente, ossia lo stato delle acquisizioni della scienza medica che avrebbero potuto consentire di conoscere, già in epoca precedente al 2006, l’esistenza del nesso eziologico tra sordità bilaterale e ipossia fetale”.

Il giudice di appello ha, dunque, ricondotto nella fattispecie legale deputata a dettare la disciplina della decorrenza della prescrizione (art. 2935 c.c.), “un fatto materiale privo dei connotati idonei a consentire di trarre dalla norma stessa le proprie conseguenze giuridiche, contraddicendone, pertanto, la pur corretta ermeneusi“. Così facendo “è incorsa in un vizio di sussunzione e ciò proprio in ragione del mancato accertamento del fatto sopra evidenziato, ossia il dato oggettivo della diffusione delle conoscenze scientifiche in relazione all’esistenza del nesso causale tra la sordità bilaterale e la ipossia fetale che si assume patita dallo stesso in occasione della nascita“.

La sentenza impugnata è stata pertanto cassata con rinvio alla Corte d’Appello di Lecce, sezione distaccata di Taranto, che dovrà riesaminare la causa sulla scorta delle indicazioni della Suprema Corte.

Scritto da:

Dott. Nicola De Rossi

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Categoria:

Malasanità

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