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Anche a fronte di un comportamento colposo da parte del lavoratore, non sussiste alcun concorso idoneo a ridurre la misura del risarcimento “ogni qual volta la violazione di un obbligo di prevenzione da parte del datore di lavoro sia giuridicamente da considerare come munita di incidenza esclusiva rispetto alla determinazione dell’evento dannoso”.

A chiarire questo fondamentale principio a tutela della sicurezza sul lavoro la Corte di Cassazione, sezione Lavoro, nella rilevante sentenza n. 30679/19 depositata il 25 novembre 2019.

 

Lavoratore risarcito solo parzialmente dalla Corte d’appello

Il caso. In riforma della sentenza dei primo grado, la Corte d’appello di Trieste aveva parzialmente accolto la domanda di risarcimento dei danni patiti proposta da un operaio nei riguardi del Comune di Sauris e di un proprio superiore per un grave infortunio patito a causa del crollo di un capannone metallico di proprietà dell’ente comunale.

La Corte riteneva che sussistessero coefficienti colposi in capo al superiore, in quanto la persona che aveva mandato per riferire all’operaio che il lavoro in questione doveva essere rinviato ad altra data, di modo che vi fosse un numero sufficiente di persone, non aveva insistito sulla tassatività dell’ordine, che dunque poteva essere stato inteso come riconnesso a ragioni di mera opportunità e comunque non a stringenti motivi di sicurezza.

Inoltre, lo stesso superiore, una volta avvisato dal suo sottoposto che l’operaio stava procedendo ugualmente allo smontaggio, non era intervenuto subito, onde impedire il rischio.

D’altra parte, la Corte riteneva che a determinare l’evento avesse concorso in via preponderante l’imprudenza dell’operaio, nell’avere deciso di svolgere il lavoro nonostante le indicazioni contrarie ricevute e senza essere sufficientemente informato sulle caratteristiche dell’opera da svolgere. Quindi fissava il risarcimento, per i danni alla persona subiti, in misura del 35 per cento del totale, sulla base di un contributo causale del 65 per cento da parte del ricorrente.

 

L’operaio ricorre per Cassazione

L’operaio ha quindi proposto ricorso per Cassazione con ben 12 motivi, a cui hanno resistito con controricorso sia Comune di Sauris sia il superiore. L’operaio, in estrema sintesi, ha censurato la sentenza impugnata per omessa valutazione di alcuni comportamenti di mancata adozione di cautele (informazione del lavoratore sul rischio di crollo e sulla necessità di prediligere lo smontaggio con mezzi meccanici), ha obiettato sulla rilevanza causale o concausale attribuita alla sua asserita negligenza, ha eccepito sulla graduazione delle colpe e ha criticato l’entità del risarcimento riconosciutogli.

La Cassazione ha dichiarato inammissibili alcuni motivi, confermando il giudizio della Corte territoriale e rilevando, ad esempio, come al lavoratore dovesse comunque essere nota la pericolosità dell’operazione.

La Suprema Corte tuttavia è entrata presto nelle questioni più strettamente giuridiche, prendendo spunto dal terzo motivo con cui il ricorrente, facendo leva anche su alcune massime di legittimità – secondo cui in caso di violazione delle norme poste a tutela dell’integrità fisica del lavoratore – il datore di lavoro è “interamente responsabile dell’infortunio che ne sia derivato e non può invocare il concorso di colpa del danneggiato”, contestava il fatto che fosse stato riconosciuto un concorso di colpa nella causazione dell’infortunio.

Di qui l’approfondimento dei Giudici del Palazzaccio in ordine alla rilevanza o meno del concorso di colpa nell’ambito degli infortuni sul lavoro.

 

Il concorso di colpa negli incidenti sul lavoro

Non vi è dubbio – premette la sentenza – che il nesso causale tra l’attività lavorativa ed il danno resti addirittura escluso in presenza di un rischio cosiddetto elettivo, declinato in riferimento ai comportamenti abnormi del lavoratore (tradizionalmente riferiti ad azioni intraprese volontariamente e per motivazioni personali ed estranee alle attività lavorative), come anche rispetto a quelle condotte che, pur afferendo all’ambito della prestazione, non sono prevenibili né, secondo il grado diligenza richiesto, in concreto impedibili e quindi destinate ad operare come caso fortuito rispetto alla responsabilità datoriale”.

Al di là dei casi estremi, in cui il comportamento del lavoratore assorbe in sé l’intera efficacia causale dell’evento, “si colloca però un’ampia area che coinvolge il tema del concorso di colpa e che necessita di definizione” proseguono i giudici. .

 

Se una cautela idonea a impedire l’evento è violata, resta radicata la responsabilità datoriale

Gli Ermellini chiariscono quindi che quella dell’art. 2087 del Codice Civile non costituisce ipotesi di responsabilità oggettiva e che il lavoratore è onerato della sola prova della “nocività” del lavoro, spettando poi al datore dimostrare di avere adottato tutte le misure cautelari idonee ad impedire l’evento.

Tali affermazioni sono state di recente chiarite e doverosamente munite di effettivo contenuto, nel senso che la responsabilità datoriale si fonda pur sempre sulla violazione di obblighi di comportamento, a protezione della salute del lavoratore, imposti da fonti legali o suggeriti dalla tecnica, purché concretamente individuati”.

Pertanto, la regola di diritto è quella per cui, una volta addotta ed individuata una cautela (specificamente prevista ex ante da norme o genericamente deducibile dalle vigenti regole di prudenza, perizia e diligenza richiedibili nel caso concreto) che fosse idonea ad impedire l’evento e che non sia stata attuata, ne resta radicata la responsabilità datoriale.

 

L’inadempimento del datore non è incompatibile con il comportamento colposo del lavoratore

Premesso ciò, “non può escludersi che il comportamento colposo del lavoratore, autonomamente intrapreso ma tale da non integrare gli estremi del rischio elettivo, possa determinare un concorso di colpa, da regolare ai sensi dell’art. 1227 c.c. allorquando l’evento dannoso non possa dirsi frutto dell’incidenza causale decisiva del solo inadempimento datoriale, ma derivi dalla indissolubile coesistenza di comportamenti colposi di ambo le parti del rapporto di lavoro. L’inadempimento datoriale agli obblighi di prevenzione non è infatti in sé incompatibile con l’esistenza di un comportamento del lavoratore qualificabile come colposo, in quanto di ciò non vi è traccia negli artt. 2087 e 1227 c.c., né in alcuna altra norma dell’ordinamento.

D’altra parte le norme sanciscono l’obbligo del lavoratore di osservare i doveri di diligenza (art. 2104 c.c.), anche a tutela della propria o altrui incolumità ed è indubbia la sussistenza di tratti del sistema prevenzionistico che coinvolgono anche i lavoratori così come è scontato che i rapporti interprivati restino regolati, senza che metta qui conto una qualche più specifica dimostrazione in proposito, anche dal generalissimo principio di autoresponsabilità per le proprie azioni”.

La Cassazione, però, spiega anche che, sull’assetto del possibile concorso di colpa, interferisce la “portata pervasiva dell’obbligo datoriale di protezione, radicato in principi cardine dell’ordinamento (art. 32 Cost, sulla tutela della salute) e la rilevanza della colpa è destinata a declinarsi secondo l’assetto giuridico dello specifico settore di rischio coinvolto”.

Insomma, all’interno di un quadro di fondo secondo cui chi organizza e pone in essere un’attività rischiosa è tenuto a predisporre quanto necessario per evitare pregiudizi a terzi, l’ambito lavoristico è connotato, “per un verso, dal fatto che esso comporta lo svolgimento di attività personale sotto la direzione eo nel contesto di un’organizzazione altrui e, per altro verso, da un intenso coinvolgimento nel rischio della salute dei lavoratori.

I poteri direzionali determinano la soggezione agli ordini impartiti e la predisposizione organizzativa, come anche la destinazione dell’organizzazione ad un fine produttivo espressione di un interesse proprio del datore di lavoro, impongono, nella menzionata logica di preminenza della persona, che i presidi di sicurezza risalgano alla responsabilità primaria datoriale”.

 

Prevale sempre la responsabilità di chi organizza l’attività

Ciò significa che il massimo rilievo da attribuire ai doveri di protezione è “conseguenza diretta della sussistenza in capo ad una delle parti di poteri unilaterali di direzione ed organizzazione, come anche della destinazione ad essa dei risultati ultimi dell’attività svolta e del coinvolgimento nella dinamica del sinallagma, rispetto all’altra della persona altrui con le ineludibili esigenze di tutela imposte dai principi primi dell’ordinamento.

Ciò senza contare che, al di là delle tutele sociali, chi organizza l’attività è altrettanto naturalmente in grado di gestire la copertura assicurativa dei rischi economici che derivano dalle responsabilità a ciò così riconnesse.

Non a caso, dunque, si è affermato che i comportamenti concomitanti del lavoratore che pur possano rivestire, dal punto di vista materiale, portata concausale rispetto all’evento finale, degradano a mera occasione del danno, tutte le volte in cui essi siano tenuti a fronte di specifiche direttive, ordini, disposizioni datoriali”.

 

Nessun concorso di colpa ai fini civilistici se il datore di lavoro ha adottato disposizioni illegali

In buona sostanza, la struttura del rapporto di lavoro, se non può in assoluto impedire al lavoratore di rifiutare l’adempimento di ordini datoriali indebitamente pericolosi per la propria salute, non toglie che, “se quegli ordini siano viceversa osservati e ne consegua l’evento lesivo, la disposizione datoriale assorba in sé l’intera efficacia causale giuridicamente rilevante. Non diversamente, non può parlarsi di concorso di colpa a fini civilistici, ove sia lo stesso datore di lavoro ad avere integralmente impostato la lavorazione sulla base di disposizioni illegali e contrarie ad ogni regola di prudenza.

Oltre a ciò, si deve ritenere – con spiccata aderenza rispetto al caso di specie – che di concorso di colpa nell’illecito non si possa mai parlare se la radice causale ultima dell’evento, pur in presenza di un comportamento del lavoratore astrattamente non rispettoso di regole cautelari, si radichi nella mancata adozione, da parte del datore di lavoro, di forme tipiche o atipiche di prevenzione, come detto individuabili e pretendibili ex ante, la cui ricorrenza avrebbe consentito, nonostante tutto, di impedire con significativa probabilità l’evento.

Ciò deriva dall’insegnamento risalente secondo cui il datore di lavoro è tenuto a proteggere l’incolumità del lavoratore nonostante l’imprudenza e la negligenza di quest’ultimo, che costituisce posizione assolutamente consolidata. E’ dunque in questa prospettiva che va colto il significato di alcune pregresse massime secondo cui l’inadempimento all’obbligo di protezione è ragione di esclusione del concorso di colpa”.

 

Il caso specifico

Questa affermazione, puntualizza la Cassazione,  va meglio intesa nel senso che, per il particolare assetto che la responsabilità assume nel settore del lavoro, il comportamento incauto della vittima, in quanto al contempo destinataria dei doveri di protezione sopra menzionati, resta, almeno nelle ipotesi sopra viste, privo di rilievo giuridico a fini risarcitori, pur non escludendosi la possibilità, al di fuori di tali ambiti, di un concorso colposo ex art. 1227 c.c. “Sotto altro profilo – prosegue la sentenza -, viene in evidenza nella fattispecie, su sollecitazione dei motivi del ricorso principale, la questione in ordine al rilievo da attribuire agli obblighi di formazione ed informazione a carico del datore di lavoro.

Tale aspetto coinvolge il già menzionato specifico profilo contenutistico dell’obbligo di protezione, in forza del quale, tra le cautele da adottare a cura del datore di lavoro, vi è anche quella dell’informazione (o formazione) dei lavoratori rispetto a quanto necessario per la sicurezza dell’attività da svolgere.

In proposito, se nella catena causale che interviene a determinare l’infortunio si evidenzino comportamenti incauti del lavoratore che possono riconnettersi in modo diretto all’inosservanza di specifici doveri informativi (o formativi) datoriali, tali da rendere altamente presumibile che, ove quegli obblighi fossero stati assolti, quel comportamento non vi sarebbe stato, non è possibile, sempre alla luce degli effetti che dispiega il principio di prevenzione, addossare al lavoratore, sotto il medesimo e specifico profilo, una colpa idonea a concorrere con l’inadempimento datoriale”.

 

Gli errori di giudizio della Corte territoriale

In altre parole, in questi casi, non è sull’avere agito nonostante la carenza di informazioni (o formazione) che può fondarsi un ragionamento sul concorso colposo del lavoratore.

Pertanto, secondo i giudici del Palazzaccio, nel caso specifico la Corte territoriale, nel decidere, si è discostata da questi principi. Nel valutare i comportamenti incauti addossati al lavoratore, la sentenza di appello aveva infatti fatto leva sul fatto che questi aveva agito nonostante non avesse “partecipato alla fase di montaggio”, né ricevuto “alcuna specifica formazione riguardo alle modalità di svolgimento dell’opera, che peraltro non aveva mai eseguito prima di allora”, operando altresì “senza libretto di istruzioni“.

L’errore di giudizio, secondo la Cassazione,  è palese, “in quanto era il datore di lavoro a non dover neppure prospettare al lavoratore, in assenza di quelle informazioni, lo svolgimento di quell’opera e ciò esclude che i corrispondenti profili possano essere valorizzati quali elementi colposi a carico del lavoratore”. Inoltre, per la suprema Corte, gli stessi accertamenti svolti dalla Corte territoriale rispetto alla complessiva dinamica del sinistro hanno effetto decisivo, sulla base dei principi sopra fissati, “nel recidere ogni possibilità di ragionare in termini di concorso di colpa.

Nella sentenza impugnata si è accertato che la persona inviata a dire al (omissis) di non procedere, lungi dall’opporsi all’esecuzione, finì addirittura per fornire indicazioni, evidentemente sommarie ed inutili, sul come farlo.

Inoltre, la Corte ha concretamente accertato, anche sulla base della ricostruzione dei dati orari, che il superiore gerarchico del (omissis), una volta avvisato da colui che aveva mandato a dire di non eseguire l’opera del fatto che questi aveva deciso di procedere comunque, “se avesse agito per tempo, avrebbe avuto la possibilità materiale di impedire l’evento”.

Una volta escluso che l’imprudenza di base attribuita al lavoratore, ovvero l’avere agito nonostante la comunicazione di una disposizione contraria, integrasse gli estremi del rischio c.d. elettivo, la sentenza ha dunque erroneamente ritenuto che tale imprudenza non fosse giuridicamente vanificata, a fini del concorso colposo e quindi della stessa rilevanza rispetto alla responsabilità risarcitoria, dal fatto che il datore non avesse adottato i doverosi comportamenti finalizzati non solo a non agevolare il concretizzarsi di quell’imprudenza (si vedano le indicazioni sommarie sullo smontaggio fornite da colui che era stato mandato a riferire l’ordine), ma anche ad impedirne gli effetti, attraverso un pronto intervento del superiore, pur avvisato in tempo utile di quello che stava accadendo e quindi messo nelle condizioni di porre in atto un concreto comportamento impeditivo.

 

La Cassazione accoglie alcuni motivi del ricorso

La Cassazione ha quindi accolto questo motivo di ricorso, con assorbimento anche di quelli concernenti il il dosaggio del concorso di colpe che, “per quanto sopra detto, non poteva essere riconosciuto”, come anche i motivi relativi al quantum. Le relative questioni dovranno pertanto essere valutate ex novo in sede di rinvio, “alla luce dell’assetto della responsabilità quale fissato sulla base dei principi sopra espressi”.

Principi che la Cassazione ribadisce in calce alla sentenza.

“In materia di infortuni sul lavoro, al di fuori dei casi di rischio elettivo, nei quali la responsabilità datoriale è esclusa, qualora ricorrano comportamenti colposi del lavoratore, trova applicazione l’art. 1227, co. 1, c.c.; tuttavia la condotta incauta del lavoratore non comporta concorso idoneo a ridurre la misura del risarcimento ogni qual volta la violazione di un obbligo di prevenzione da parte del datore di lavoro sia giuridicamente da considerare come munita di incidenza esclusiva rispetto alla determinazione dell’evento dannoso, il che in particolare avviene quando l’infortunio si sia realizzato per l’osservanza di specifici ordini o disposizioni datoriali che impongano colpevolmente al lavoratore di affrontare il rischio o quando l’infortunio scaturisca dall’avere il datore di lavoro integralmente impostato la lavorazione sulla base di disposizioni illegali e gravemente contrarie ad ogni regola di prudenza o infine quando vi sia inadempimento datoriale rispetto all’adozione di cautele, tipiche o atipiche, concretamente individuabili, nonché esigibili ex ante ed idonee ad impedire, nonostante l’imprudenza del lavoratore, il verificarsi dell’evento dannoso»: 6.2 «qualora risulti l’inosservanza, da parte del datore di lavoro, di specifici doveri informativi (o formativi) del lavoratore rispetto all’attività da svolgere, tali da rendere altamente presumibile che, ove quegli obblighi fossero stati assolti, il comportamento del lavoratore da cui è scaturito l’infortunio non vi sarebbe stato, non è possibile addossare al lavoratore, sotto il medesimo profilo, l’ignoranza delle circostanze che dovevano essere oggetto di informativa (o di formazione), al fine di fondare una colpa idonea a concorrere con l’inadempimento datoriale e che sia tale da ridurre, ai sensi dell’art. 1227 c.c., la misura del risarcimento dovuto.

Scritto da:

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Dott. Nicola De Rossi

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Categoria:

Blog Infortuni sul Lavoro

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