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Il danno da fermo tecnico va dimostrato, ma la prova può essere addotta anche in via presuntiva, le eventuali spese sostenute per un veicolo sostitutivo non sono cioè l’unica fonte per provare il pregiudizio subito.

Con l’ordinanza n. 15262/23 depositata il 30 maggio 2023 la Cassazione è tornata su questa fattispecie che spesso subisce chi rimane convolto in un sinistro, e cioè l’indisponibilità del proprio mezzo incidentato per il periodo nel quale deve necessariamente restare ai “box” per le riparazioni del caso, danno sovente ingiustamente trascurato o poco valorizzato in sede di risarcimento. E la Suprema Corte ha apportato alcuni importanti chiarimenti.

 

Un’automobilista ricorre per Cassazione anche per il danno da fermo tecnico non riconosciuto

Il contenzioso in questione riguarda le responsabilità di sinistro stradale. In primo grado il giudice di pace di Trento, all’esito di una consulenza tecnica d’ufficio disposta ad hoc e che aveva sovvertito la ricostruzione operata dagli agenti delle forze dell’ordine intervenute in loco per i rilievi, aveva dato ragione alla automobilista che aveva citato in giudizio la controparte, condannando la compagnia di assicurazione del veicolo “antagonista” a risarcirle i danni. L’assicurazione, però, aveva appellato la sentenza e, con decisione del 2019, il Tribunale di Trento aveva accolto il gravame, riformando totalmente il verdetto e riconoscendo alla automobilista una percentuale di colpa prioritaria nel sinistro, nella misura del 70 per cento.

Quest’ultima tuttavia, convinta delle sue ragioni, ha proposto ricorso per Cassazione con una serie di motivi di doglianza, il primo dei quali per l’appunto relativo al fermo tecnico del veicolo. La ricorrente lamentava il fatto che i giudici di seconde cure avessero escluso il risarcimento del danno da fermo tecnico calcolato in via equitativa pro die, sostenendo in particolare che esso non richiede una prova specifica, essendo la privazione del mezzo ex se causa di danno, ragion per cui non era necessaria l’allegazione di esborsi specifici sostenuti per la sostituzione temporanea del mezzo come pretendeva invece la Corte territoriale.

 

Il danno va risarcito in via equitativa

Secondo l’automobilista questo danno è da risarcire in via equitativa, avendo ella provato di non aver potuto sostenere oneri e spese (eccessivi in relazione al budget familiare) per procurarsi un veicolo sostitutivo e di aver richiesto la collaborazione (a titolo gratuito) di amici e parenti per ovviare al pregiudizio subito dalla indisponibilità del veicolo ad uso familiare, protrattasi per ben 96 giorni.

E la Cassazione le ha dato pienamente ragione, ricordando innanzitutto il principio secondo cui il danno da “fermo tecnico” di un veicolo incidentato “non è “in re ipsa” ma dev’essere provato, essendo sufficiente, a tal fine, la dimostrazione della spesa sostenuta per il noleggio di un mezzo sostitutivo, la cui derivazione causale dall’illecito è possibile indurre alla stregua del ragionamento presuntivo”.

La danneggiata aveva ovviato con i mezzi pubblici e l’aiuto dei familiari

Principio che la Suprema Corte ha ribadito e che invece, hanno rilevato gli Ermellini, la Corte territoriale ha disatteso, “in particolare là dove ha affermato che nella fattispecie nessuna spesa risulta dimostrata, avendo la danneggiata in prime cure solo dedotto di aver dovuto usare i mezzi pubblici e di essersi avvalsa della collaborazione dei parenti nel periodo di indisponibilità dell’auto di famiglia, deduzioni sufficienti per ritenere provato un danno patrimoniale; gli stessi non hanno neppure provato gli esborsi riferiti ad assicurazione e bollo auto, dato necessario per procedere alla quantificazione dell’esborso comunque affrontato anche nel periodo di fermo dell’auto. La voce in esame va quindi esclusa dal risarcimento” per citare la sentenza impugnata e cassata.

Per la cronaca, la Suprema Corte ha accolto anche gli altri motivi di doglianza della ricorrente circa la responsabilità del sinistro, rilevando come il Tribunale “si è nella specie discostato dalle risultanze della Ctu all’esito di una valutazione del tutto apodittica, facendo luogo ad un ragionamento presuntivo basato su elementi che esulano dalla nozione di notorio. È infatti evidente che la distanza e la velocità costituiscono elementi che non rientrano nella comune esperienza, e che pertanto debbono essere provati per poter essere posti direttamente o indirettamente tramite argomentazioni a fondamento della decisione. Il giudice d’appello, ha infatti rilevato la Cassazione, “del tutto apoditticamente ha ritenuto la violazione stradale della ricorrente più grave rispetto a quella della controparte, senza invero adeguatamente motivare al riguardo, a fortiori in considerazione della circostanza di avere disatteso le conclusioni del Ctu, il quale ha sottolineato come, pur condividendo la relazione del Ctp della compagnia assicuratrice, il compiuto errore di calcolo contestato non era comunque nella specie idoneo a modificare la tratta conclusione in ordine alla  responsabilità  esclusiva  dell’altro automobilista, che è certo viaggiasse a 90 km/h, cioè al doppio della velocità limite consentita”.

La sentenza d’appello è stata pertanto cassata in toto, con rinvio al Tribunale di Trento, in diversa composizione, per il riesame della causa.

Scritto da:

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Dott. Nicola De Rossi

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Categoria:

Incidenti da Circolazione Stradale

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