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Anche sul committente di un’opera grava una chiara posizione di garanzia in virtù della quale, in caso di infortunio sul lavoro, questi è chiamato a risponderne. Lo ha ribadito con forza la Corte di Cassazione, terza sezione Civile, con l’interessante ordinanza n. 9178/23 depositata il 3 aprile 2023.

I familiari di un operaio vittima di un incidente sul lavoro citano in causa la ditta committente

I familiari di un operaio che aveva perso la vita a causa dell’ennesimo incidente sul lavoro avevano citati in giudizio la società committente dell’intervento “incriminato” per ottenere il risarcimento dei danni conseguenti alla morte del proprio congiunto, avvenuta in un cantiere dove il lavoratore era intento al montaggio di moduli per la realizzazione di un forno di verniciatura, lavori che erano stati parzialmente subappaltati all’impresa datrice di lavoro della vittima da un’altra ditta, alla quale erano stati appaltati dalla committenza.

Per consentire le lavorazioni, era stata appositamente realizzata una struttura metallica di sostegno alta circa quattro metri su cui dovevano essere posizionati i moduli di forno, da affiancare e agganciare: l’operaio, regolarmente munito di casco, scarpe, guanti antinfortunistici e cinture di sicurezza, era salito, su una scala attrezzata, per raccogliere un cavo rimasto all’interno del modulo e gettarlo in basso per le successive operazioni ma, subito dopo essere entrato nel modulo posto all’altezza di circa quattro metri, era caduto, riportando lesioni gravissime che non gli avevano dato scampo.

Il tribunale tuttavia aveva rigettato la domanda risarcitoria, decisione confermata dalla Corte d’Appello di L’Aquila, secondo la quale i congiunti della vittima avevano dedotto in astratto un generale obbligo di vigilanza a carico della società committente senza che fosse stata dimostrata quale condotta avesse avuto specifica efficacia eziologica sull’evento, laddove invece si prospettava una responsabilità da parte del soggetto preposto per la mancata verifica della concreta attuazione del piano di sicurezza e coordinamento (PSC), responsabilità che non sarebbe stata rinvenibile nella ripartizione legale delle funzioni tra i soggetti coinvolti e delle correlate assunzioni di rischio.

 

Per la Corte d’appello la responsabilità era solo dell’impresa datrice di lavoro e subappaltatrice

Più precisamente, secondo i giudici territoriali vi sarebbe stata una discrepanza tra il suddetto piano e il piano operativo di sicurezza (POS) predisposto dall’impresa responsabile dell’esecuzione specifica dei lavori e quindi certamente del rispetto delle necessarie misure di sicurezza, posto che secondo il PSC era necessario che vi fosse un’idonea impalcatura o ponteggio o altra misura che consentisse l’aggancio di funi ovvero cinture di sicurezza, mentre il POS prevedeva solo funi disposte a croce, a modo di protezione, collocate però sul lato opposto a quello d’ingresso: tale discrepanza sarebbe stata una questione di dettaglio e tecnica tale da esulare dall’alveo della sorveglianza che avrebbe potuto essere imputata al committente.

Sempre secondo la Corte d’appello, non sarebbe stata dimostrata un’ingerenza della committente e della sub-committente (ossia l’appaltatrice principale) tale da comprimere il ruolo autonomo dell’impresa che aveva materialmente realizzato i lavori ed escludere la specificità del rischio quale riferibile alle lavorazioni proprie di quest’ultima, ovvero, quanto alle funzioni della società chiamata in causa, la riconduzione a un rischio correlabile alla conformazione generale del cantiere dell’appalto.

I congiunti della vittima a questo punto hanno proposto ricorso anche per Cassazione lamentando in primis il fatto che la Corte d’Appello avrebbe errato mancando di considerare che la discrepanza tra i due piani di sicurezza era immediatamente percepibile dai committenti in quanto correlata al generale, e quindi non specifico, rischio di caduta dall’alto, tanto che, infatti, gli ispettori del dipartimento di prevenzione degli infortuni sul lavoro dell’Asl intervenuti per rilievi avevano contestato all’impresa appaltatrice principale, risultata comunque responsabile dei lavori per conto della società committente generale,  la mancata verifica del rispetto del PSC, a riprova, al contempo, dell’ingerenza della prima committente nelle attività funzionali alla sicurezza del cantiere.

 

La committente doveva vigilare sul rispetto e la conformità dei vari piani di sicurezza

Inoltre, i ricorrenti avevano contestato la sentenza in quanto la Corte di merito non aveva ritenuto applicabile il Decreto Legislativo n. 494 del 1996, dal quale emergeva la posizione di garanzia della committente in affiancamento a quella degli altri soggetti investiti di obblighi in materia di sicurezza, a cominciare dal datore di lavoro dell’infortunato, in particolare quanto alla vigilanza sull’idoneità e sul rispetto dei piani di sicurezza e pertanto sia del PSC che del POS, dei quali era documentalmente emersa e era evincibile la discrasia.

Infine, gli eredi del lavoratore deceduto hanno censurato il fatto che i giudici territoriali non avessero considerato che era risultata la specifica assunzione, da parte dell’impresa che aveva commissionato i lavori, della responsabilità di cooperare con le ditte subappaltatrici perché venissero attuate le idonee misure di prevenzione e sicurezza, laddove quello di caduta dall’alto era evidentemente un rischio generico e non inscrivibile nella specificità e, in tesi, separatezza dei lavori da svolgere.

Il dovere di sicurezza opera anche per il committente

La Suprema Corte, nell’esaminare il ricorso, parte rilevando che – soprattutto in sede penale ma con principi applicabili anche in sede di distinto scrutinio della responsabilità civile da infortuni sul lavoro -, a seguito dell’entrata in vigore del Decreto Legislativo n. 494 del 1996, ritenuto “ratione temporis” normativa di riferimento dalla stessa Corte territoriale, “il dovere di sicurezza gravante sul datore di lavoro opera anche in relazione al committente, dal quale non può tuttavia esigersi un controllo pressante, continuo e capillare sull’organizzazione e sull’andamento dei lavori, sicché, ai fini della configurazione della responsabilità del suddetto, occorre verificare in concreto quale sia stata l’incidenza della sua condotta nell’eziologia dell’evento, a fronte delle capacità organizzative della ditta scelta per l’esecuzione dei lavori, avuto riguardo alla specificità dei lavori da eseguire, ai criteri seguiti dallo stesso committente per la scelta dell’appaltatore o del prestatore d’opera, alla sua ingerenza nell’esecuzione dei lavori oggetto di appalto o del contratto di prestazione d’opera, nonché all’agevole e immediata percepibilità da parte del committente di situazioni di pericolo”.

Partendo da tale premessa, gli Ermellini prendono atto di come la Corte territoriale avesse accertato che la società committente aveva un responsabile dei lavori e quindi “si era si era assicurata la predisposizione del previsto PSC” e di come altresì risultasse una evidente e dimostrata discrasia tra il PSC e il POS della ditta subappaltatrice: discrasia “potenzialmente decisiva”, dato che, come detto, il primo prevedeva un’idonea impalcatura o ponteggio o altra misura tecnica che consentisse l’aggancio delle funi e cinture di sicurezza, mentre il POS prevedeva solo funi disposte a croce con funzione di protezione, collocate, però, sul lato opposto a quello d’ingresso che fu poi utilizzato.

Ancora, era emerso dal dibattimento che la società chiamata in causa aveva assunto le funzioni di cooperazione con le ditte subappaltatrici per l’attuazione delle misure di sicurezza e che la caduta dall’alto era stata ritenuta “rischio non riconducibile univocamente alla conformazione del cantiere che, pertanto, è stato complessivamente ritenuto riferibile alla stessa subcommittente”.

 

La Corte d’appello ha sbagliato a escludere a priori la responsabilità del committente

Al di là della discussione sulla specificità del rischio in questione, ovvero se correlabile a quella degli specifici lavori assunti come eseguiti in autonomia dalla subappaltatrice, resta il fatto che la discrasia dei piani era facilmente evincibile perché, come detto, documentale, rispetto a una modalità operativa risultata propria del cantiere, sicché non avrebbe potuto aprioristicamente escludersi, sul punto, la posizione di garanzia di committente e appaltatrice, correttamente sussumendo i fatti accertati nella cornice dei principi sopra riassunti” arriva al dunque la Cassazione.

La Corte d’appello, secondo i giudici del Palazzaccio, avrebbe pertanto dovuto verificare “se l’omessa richiesta di allineamento dei due piani in funzione della più idonea sicurezza – non riducibile, cioè, a una non meglio spiegata “questione tecnica di dettaglio” estranea a ogni vigilanza da parte del committente – sia stata condotta omissiva tale che abbia causalmente contribuito, in chiave probabilistica, all’evento, consistito proprio in una caduta per omesso fermo delle indossate cinture di sicurezza”.  Inoltre, “da quanto osservato emerge, altresì, che, in questa misura, non viene in questione una condotta omissiva astratta rispetto all’evento considerato” conclude la Suprema Corte, che pertanto ha accolto il ricorso, cassato la sentenza impugnata e rinviato la causa alla Corte d’appello di l’Aquila, in diversa composizione, per il suo riesame.

 

Scritto da:

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Dott. Nicola De Rossi

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Categoria:

Infortuni sul Lavoro

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