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Vedendo morire decine di colleghi di lavoro per patologie collegate all’amianto, a cui era stato esposto anche lui, aveva sviluppato il “terrore” di fare la medesima fine, come purtroppo poi è accaduto: una “paura di ammalarsi e di morire” che rientra appieno nel danno morale, che come tale va risarcita e che, trattandosi di una sofferenza profonda e intima, non è accertabile con metodi scientifici a meno di assumere connotati “eclatanti” e può essere pertanto accertata per presunzioni.

E’ una ordinanza di estremo spessore quella, la n. 19623/22, depositata il 17 giugno 2022 con cui la Corte di Cassazione, sezione Lavoro, ha accolto il ricorso dei familiari di una delle innumerevoli vittime dell’asbesto. 

I familiari di una vittima dell’amianto citano l’azienda per danni

Il tribunale di Massa Carrara aveva accolto la domanda riassunta dai familiari di un lavoratore, dopo il suo decesso, diretta ad ottenere il risarcimento del danno biologico, morale ed esistenziale subito dal loro caro in seguito all’esposizione all’amianto, condannando l’azienda per la quale egli aveva prestato la propria attività lavorativa come saldatore per 31 anni, dal 1959 al 1990, al risarcimento dei danni non patrimoniali. 

Gli eredi dell’operaio, tuttavia, avevano appellato la sentenza sul quantum ma la Corte di Appello di Genova, con pronunciamento del 2017, aveva rigettato il gravame dissentendo, tra l’altro, sulla tesi sostenuta dagli appellanti secondo cui il consulente tecnico d’ufficio non aveva applicato i “criteri di Helsinki” relativi alla cosiddetta esposizione cumulativa ad amianto, i quali prevedono un raddoppio del rischio nel caso di superamento della dose di 25 ff/cc (fibre a filamento continuo). 

I giudici avevano obiettato che questi criteri si riferivano all’ipotesi in cui l’esposizione ad amianto non concorresse con altri fattori cancerogeni, mentre nel caso in questione il lavoratore, che aveva sviluppato un carcinoma polmonare che lo aveva portato alla morte, era stato esposto ad un altro fattore di rischio, avendo fumato circa un pacchetto di sigarette al giorno per un peraltro breve periodo compreso tra il 2001 e il 2003.

 

La richiesta di risarcimento del danno da paura di ammalarsi

I familiari del lavoratore a questo punto hanno proposto ricorso anche per Cassazione. Il motivo che qui interessa è il secondo, con cui i ricorrenti hanno lamentato il fatto che la Corte d’appello avesse negato il diritto al risarcimento del danno non patrimoniale vantato, escludendo la sussistenza del danno morale e/o esistenziale (lesione di interessi costituzionalmente garantiti), e ritenendo non applicabile il ricorso alle presunzioni, anche semplici. 

Secondo gli eredi della vittima, i giudici territoriali non avrebbero considerato, come indicato anche da una sentenza, la n. 24217/17 della stessa sezione Lavoro della Cassazione, che il danno da paura di ammalarsi poteva essere provato attraverso le presunzioni e doveva essere risarcito: i giudici di secondo grado non avrebbero tenuto in alcun conto le deduzioni ed allegazioni del ricorso di primo grado, in cui il lavoratore, allora ancora in vita, aveva dichiarat di sapere di essere stato esposto per tutta la durata del rapporto di lavoro ad agenti morbigeni, di essere venuto a conoscenza che moltissimi colleghi di lavoro avevano contratto gravi patologie, e molti erano deceduti, e che questo aveva generato in lui l’incertezza del proprio vivere, modificando in peius la propria vita quotidiana, mettendo in primo piano la necessità di doversi sottoporre a molti esami clinici e controlli medici, con la conseguenza di un continuo ripensare alla possibilità di ammalarsi e poi morire. 

Motivo che secondo la Suprema Corte è fondato. Gli Ermellini premettono che le sezioni unite della stessa Cassazione hanno sottolineato che, in caso di violazione dell’art. 2087 c.c., “il risarcimento del danno non patrimoniale, nella cui sfera deve essere ricondotto il danno morale, data la natura unitaria del primo, è dovuto soltanto qualora sia fornita la prova della sussistenza del pregiudizio, che può essere offerta anche tramite presunzioni”. E citano un’altra sentenza delle sezioni unite secondo cui “l’art. 2059 c.c. opera esclusivamente sul piano della limitazione della risarcibilità del danno non patrimoniale ai soli casi previsti dalla legge (illecito astrattamente configurabile come reato; illecito non qualificabile come reato, ma che per espressa previsione di legge impone il ristoro di un danno non patrimoniale; illecito che abbia leso diritti inviolabili della persona, oggetto di tutela costituzionale), lasciando integri gli elementi della fattispecie costitutiva dell’illecito ex art. 2043 c.c.: la condotta illecita, l’ingiusta lesione degli interessi tutelati dall’ordinamento, il nesso causale tra la prima e la seconda, la sussistenza di un concreto pregiudizio patito dal titolare dell’interesse leso”.

 

Il danno non patrimoniale può essere provato anche mediante presunzioni

Pertanto, proseguono i giudici del Palazzaccio, “il danno non patrimoniale, quale danno-conseguenza, va allegato e provato ai fini risarcitori – in quanto non può essere considerato in re ipsa -, ma ciò può avvenire anche mediante presunzioni poiché, costituendo il danno morale un paterna d’animo e quindi una sofferenza interna del soggetto, esso, da una parte, non è accertabile con metodi scientifici e, dall’altra, come per tutti i moti d’animo, solo quando assume connotazioni eclatanti può essere provato in modo diretto, dovendo il più delle volte essere accertato in base ad indizi e presunzioni che, anche da soli, se del caso, possono essere decisivi ai fini della sua configurabilità”.

Venendo quindi al caso di specie, secondo la Cassazione, fin dal primo ricorso erano state allegate “le basi del ragionamento inferenziale per pervenire, attraverso il ricorso alle presunzioni, alla configurazione del danno morale personalizzato, costituito dall’offesa della personalità morale del lavoratore, sottoposto quotidianamente a pericolo per la propria incolumità, da cui, all’evidenza, è derivata una patente lesioneautonoma rispetto al danno biologico – di diritti inviolabili della persona, oggetto di tutela costituzionale”.

 

Il danno da sconvolgimento dell’ordinario stile di vita è risarcibile al di là del danno biologico 

E qui la Suprema Corte adduce un’ulteriore sentenza delle Sezioni Unite, la n. 2611/2017, nella quale è stato chiarito che “il danno derivante dallo sconvolgimento dell’ordinario stile di vita è risarcibile indipendentemente dalla sussistenza di un danno biologico documentato, quando sia riferibile alla lesione del diritto al normale svolgimento della vita e del diritto alla libera e piena esplicazione delle proprie abitudini di vita quotidiane, trattandosi di diritti costituzionalmente garantiti, rafforzati dall’art. 8 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo”, ed è stato sottolineato ancora una volta che “la prova del pregiudizio subito può essere fornita anche mediante presunzioni, sulla base di nozioni di comune esperienza, perché la dimostrazione del pregiudizio può essere ricavata anche dall’esame della natura e dall’entità delle immissioni a cui è sottoposto il danneggiato”.

Nel caso di specie, invece, i giudici di appello, conclude la Suprema Corte, non hanno fatto corretta applicazione di questi principi di diritto, “anche in considerazione del fatto che, nell’atto introduttivo del giudizio, espressamente richiamato nel ricorso di legittimità, erano stati allegati gli elementi da utilizzare ai fini della prova presuntiva della sofferenza morale”. La sentenza è stata dunque cassata, con rinvio della causa alla Corte di Appello di Genova, in diversa composizione, che dovrà riesaminarla nel merito attenendosi a questi principi.

Scritto da:

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Dott. Nicola De Rossi

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Categoria:

Infortuni sul Lavoro

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