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L’efficienza causale assorbente, idonea cioè a interrompere il nesso eziologico tra la contestata violazione altrui e il fatto illecito, si profila solo laddove la condotta del danneggiato emerga come fatto eccezionale e abnorme, non prevedibile, né evitabile; il cosiddetto “principio di affidamento”, inoltre, opera entro determinati limiti nel campo della circolazione stradale, sussistendo la penale responsabilità anche nell’ipotesi dell’altrui comportamento imprudente.

Con la sentenza n. 842/22 depositata il 13 gennaio 2022 la Cassazione fornisce diverse indicazioni utili a tutela delle parti offese nei casi di responsabilità della Pubblica amministrazione.

Dirigente della Provincia condannato per un incidente mortale causato dal dissesto stradale

La tragica vicenda. A un pubblico funzionario, in qualità di dirigente del settore Viabilità e grandi infrastrutture della Provincia di Lecco, era stato contestato di avere causato la morte di un motociclista per colpa consistita in imprudenza, imperizia e negligenza e nella violazione delle regole di cautela poste dagli artt. 14 e 6, c. 6 del Codice della strada, in relazione alla corretta gestione e manutenzione della strada interessata dal sinistro mortale (un tratto della provinciale con curvatura a medio/ampio raggio) per garantire la sicurezza della circolazione.

In particolare, gli si addebitava di avere omesso di segnalare e di riparare la grave anomalia del piano viabile (doppia scanalatura parallela e longitudinale all’andamento della carreggiata) che aveva determinato la caduta centauro e il suo decesso per il grave trauma cranico riportato. L’imputato era stato condannato in primo grado dal Tribunale di Lecco per il reato di omicidio colposo, aggravato dalla violazione delle norme sulla circolazione stradale, sentenza confermata nel 2020 dalla Corte d’appello di Milano che tuttavia, in riforma del precedente pronunciamento, aveva rideterminato favorevolmente la pena.

 

Il funzionario ricorre per Cassazione ascrivendo ogni colpa alla condotta del motociclista

Il dirigente tuttavia ha proposto ricorso anche per Cassazione, sostenendo che il comportamento della vittima avrebbe interrotto il nesso di causalità tra le condotte omissive contestate e l’evento. In altre parole, secondo la tesi difensiva, l’anomalia del tratto viario sarebbe stata perfettamente percepibile dal motociclista che non se ne sarebbe accorto o perché distratto, o perché in fase di sorpasso di un’auto, avendo egli tenuto una velocità stimata in 87 km/h superiore al limite di legge, di 50 Km/h e, comunque, non adeguata ai luoghi, con invasione della corsia opposta di marcia.

Al riguardo, il ricorrente si doleva anche del fatto che i giudici territoriali avessero ritenuto che in quel tratto di strada il limite fosse superiore, contestando l’assunto che il cartello con il limite di 50 Km/h era posizionato prima dell’intersezione stradale precedente il tratto in cui era avvenuto l’incidente e non poteva valere anche per il tratto successivo, poiché ogni intersezione impone il posizionamento di nuova segnaletica. A suo dire, stante la conformità dei luoghi, la velocità di marcia non poteva che essere minore e, in ogni caso, nulla di particolare era mai accaduto in quel punto, prima di quell’incidente. In definitiva, per il funzionario si sarebbe verificato un fatto interruttivo del nesso causale, giacché l’insidia o trabocchetto non era né occulta, né imprevedibile e il pericolo poteva essere scongiurato.

Infine, il ricorrente si soffermava in particolare sulle ulteriori violazioni delle norme sulla circolazione stradale oltre alla velocità che sarebbero state commesse dal motociclista, quali il sorpasso in tratto stradale a linea continua e praticamente in curva, l’invasione della corsia opposta di marcia, il mancato utilizzo delle lenti da vista, anche queste ritenute tali da elidere il collegamento etiologico tra le condotte omissive addebitategli e il decesso.

 

La Suprema Corte rigetta il ricorso e concorda appieno con la sentenza impugnata

Ma per la Suprema Corte il ricorso è inammissibile. Gli Ermellini si concentrano subito sul nocciolo della questione, se cioè il comportamento colposo della vittima possa configurarsi quale fatto imprevedibile tale da interrompere il collegamento causale tra omissioni contestate al dirigente e il sinistro. Sul punto la Corte d’appello aveva ben ricordato che l’efficienza causale assorbente del comportamento del motociclista, nella specie, poteva astrattamente prospettarsi solo ove la sua condotta si fosse posta come evento eccezionale e abnorme, non prevedibile, né evitabile dall’agente e aveva richiamato anche i limiti di operatività del principio dell’affidamento nello specifico campo della circolazione stradale, sussistendo la penale responsabilità anche nell’ipotesi dell’altrui comportamento imprudente.

Esclusa la violazione del limite di velocità da parte della vittima

Nell’analizzare le singole violazioni evidenziate dalla difesa, i giudici territoriali avevano, come detto, escluso la violazione del limite di velocità da parte del motociclista in quanto mancava apposita segnaletica in deroga, non ci si poteva quindi riferire alla cartellonistica apposta prima di una intersezione stradale, con la conseguenza che la vittima, secondo la Corte d’Appello, non aveva violato l’art. 142 codice strada, avendo tenuto una velocità al di sotto del limite massimo di 90 Km/h. Quanto poi alla regola generale di cui all’art. 141 del codice, che impone di adeguare la velocità alle caratteristiche e alle condizioni della strada (nello specifico, qualità del manto stradale e andamento curvilineo del tratto di strada interessato), i giudici di seconde cure avevano ritenuto che la velocità tenuta dal motociclista non avesse introdotto un rischio nuovo rispetto a quello che l’imputato avrebbe dovuto prevenire mediante gli adempimenti violati: al contrario, il centauro aveva ridotto la velocità rispetto a quella consentita, senza che si frapponesse alcun elemento indicativo della necessità di adeguarla ulteriormente, mentre invece la presenza di una segnalazione del dissesto del manto stradale avrebbe certamente fatto percepire all’utente, secondo la Corte di merito, un rischio particolarmente alto per il tipo di veicolo condotto.

Irrilevante il sorpasso, la scanalatura sulla strada era presente anche nella sua corsia

Quanto poi alla manovra di sorpasso, sempre secondo la Corte d’appello meneghina, la eventuale invasione di corsia opposta da parte della vittima sarebbe stata ininfluente rispetto all’area di rischio che le norme violate erano intese a prevenire, dato che, quand’anche non avesse superato la linea di mezzeria continua, le probabilità di finire sul disallineamento che ne aveva causato la rovinosa caduta non sarebbero state inferiori: la doppia scanalatura longitudinale non segnalata, infatti, era posizionata sulla stessa corsia di marcia del motociclo. Di qui, dunque, la ritenuta insussistenza di profili di colpa nella condotta di guida della vittima.

 

Un apposito segnale di pericolo avrebbe sopperito all’eventuale assenza delle lenti a contatto

Idem infine per  l’argomentazione relativa all’uso delle prescritte lenti a contatto che non erano state rinvenute sulla vittima: fermo restando che non vi era la prova certa che egli non indossasse i correttori della vista, che potevano ben essere andati perduti a causa dello schianto o durante le concitate fasi dei soccorsi, la Corte territoriale aveva comunque ritenuto che tale violazione non fosse interruttiva del nesso causale: anche l’insufficienza visiva degli utenti della strada, infatti, secondo i giudici, deve ritenersi fatto prevedibile e fattore di rischio al quale è necessario sopperire attraverso l’apposizione di apposita segnaletica che, avevano ribadito, avrebbe consentito l’adeguamento della velocità da parte della vittima, anche senza che essa si avvedesse della presenza dell’anomalia mediante la sola osservazione del manto stradale.

La Cassazione condivide in pieno le conclusioni della Corte d’Appello, “che ha analiticamente approfondito la questione che costituisce il tema centrale dell’intero impianto difensivo, vale a dire se la vittima, con il suo comportamento colposo, avesse introdotto un rischio diverso, del tutto eccentrico, con conseguente esclusione del nesso causale tra le omissioni ascritte all’imputato e l’evento mortale”. Nel fare questo, a parere degli Ermellini, hanno “correttamente ricostruito la responsabilità del dirigente, muovendo dall’area di rischio alla cui prevenzione erano intese le regole violate”, ma hanno anche “sgombrato il campo rispetto a quasi tutte le allegate violazioni di regole cautelari da parte della vittima, valutando le prove raccolte con un ragionamento che non risulta seriamente attaccato dai motivi del ricorso

Tale giudizio – proseguono gli Ermellini – è coerente con i più recenti arresti di questa Corte di legittimità che sempre di più hanno amplificato il principio che la colpevolezza impone una verifica complessa, da operarsi su piani diversi, riguardanti l’accertamento in concreto della sussistenza della violazione – da parte del soggetto che riveste una posizione che possiamo definire lato sensu di garante – di una regola cautelare (generica o specifica), del nesso causale tra la condotta ascrivibile al garante e l’evento e della prevedibilità e evitabilità di esso. Di qui, la necessità di verificare, non solo la causalità della condotta (ossia la dipendenza dell’evento da essa, in cui quest’ultima si ponga quale condicio sine qua non, in assenza di decorsi causali alternativi eccezionali, indipendenti e imprevedibili), ma anche la idoneità del comportamento alternativo lecito a scongiurare l’evento e la verifica della c.d. concretizzazione del rischio, vale a dire la introduzione, da parte del soggetto agente, del fattore di rischio concretizzatosi con l’evento, posta in essere attraverso la violazione delle regole di cautela tese a prevenire e a rendere evitabile proprio il prodursi di quel rischio”.

Anche l’affidamento nell’altrui comportamento diligente, concludono i giudici del Palazzaccio, è stato valutato dai giudici del merito in termini allineati ai principi elaborati in sede di legittimità: “tale principio deve trovare, infatti, un opportuno temperamento in quello opposto, secondo cui l’utente della strada è responsabile anche del comportamento imprudente altrui, purché rientri nel limite della prevedibilità. E, sul punto specifico, hanno correttamente affermato che l’omesso utilizzo delle lenti prescritte non poteva considerarsi fatto eccezionale o eccentrico e che l’eventuale apposizione di una cartellonistica che segnalasse la presenza del disallineamento del manto stradale avrebbe scongiurato la conseguenza che il suo avvistamento fosse affidato al solo controllo del manto stradale da parte degli utenti della strada”.

Pertanto, ricorso respinto e condanna del dirigente, per la piena responsabilità della Pubblica amministrazione confermata.

Scritto da:

Dott. Nicola De Rossi

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Categoria:

Incidenti da Circolazione Stradale

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