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Il datore di lavoro non può scaricare la responsabilità di un infortunio sul dipendente quando, trattandosi per di più di un’attività altamente pericolosa, non lo ha adeguatamente formato, mandandolo “allo sbaraglio” dopo appena una giornata dedicata a istruirlo sulle mansioni da effettuare.

Né il titolare dell’impresa che ha affidato un’attività nella propria fabbrica a una ditta esterna può cavarsela invocando l’esclusiva colpa di quest’ultima per l’incidente occorso al suo addetto. Con la sentenza n. 17576/21, depositata il 18 giugno 2021, la Cassazione riafferma alcuni principi fondamentali a tutela dei lavoratori a cominciare da un fermo dovere da parte dei titolari della imprese, quello della formazione.

 

Condanna in appello per impresa committente, assicurazione e ditta esterna a risarcire un operaio

Accogliendo il gravame proposto da un operaio rimasto vittima di un grave infortunio sul lavoro contro la sentenza di primo grado del Tribunale di Brescia, che aveva invece respinto il suo ricorso per difetto di allegazioni a sostegno dei suoi assunti, la Corte d’Appello bresciana, con pronunciamento del 2015, aveva condannato in solido l’impresa per la quale egli al momento operava e dove si era verificato l’incidente, la sua compagnia di assicurazione, Groupama, e la cooperativa esterna dalla quale era assunto a risarcirlo dei gravi danni subiti con la somma di più di trecentomila euro: per la precisione 290.908,86 euro, oltre agli interessi legali e rivalutazione monetaria sino al saldo, da calcolarsi sulla somma devalutata al 12 novembre 2004, la data del fatto.

Per i giudici la condotta del lavoratore non era stata “abnorme”

Secondo i giudici territoriali, non vi era nella vicenda alcuna prova della sussistenza nella condotta del lavoratore di elementi tali da determinare l’esonero della responsabilità delle aziende chiamate sin causa, ossia il cosiddetto rischio elettivo o abnormità della condotta dell’infortunato. La Corte d’appello aveva sottolineato che nello specifico la manovra del lavoratore, mentre era addetto a una macchina automatica (denominata “soffiatrice di anime“), da cui erano gli derivati, oltre ad un periodo di inabilità temporanea, gravi postumi permanenti alla mano sinistra, rimasta schiacciata all’interno dello stampo, “era destinata a permettere la ripresa della produzione interrotta per effetto del mancato distacco del pezzo dagli stampi” e, soprattutto, che era mancata del tutto la prova di una adeguata formazione, ragion per cui non si poteva addossare alcun concorso di colpa all’infortunato.

Groupama, condannata a manlevare l’impresa assicurata, ha quindi proposto ricorso per Cassazione, dolendosi  del capovolgimento della sentenza di primo grado e sostenendo che la Corte bresciana aveva  operato “d’ufficio” una ricerca del contenuto probatorio negli atti del fascicolo con una “evidente finalità punitiva”, lamentando anche il fatto che essa si fosse basata essenzialmente su supposizioni di alcuni testi escussi, come il capo officina, che era intervenuto a soccorrere il collega ma che non aveva materialmente assistito all’evento.

 

Secondo la ricorrente doveva rispondere solo la ditta esterna dalla quale l’infornato era assunto

Con il secondo motivo, poi, Groupama censurava il fatto che i giudici territoriali avessero ritenuto applicabile anche alla propria assicurata, ossia l’impresa committente, la previsione normativa di cui all’art. 2087 c.c., in ragione del fatto che l’azienda aveva nella propria “disponibilità” l’ambiente di lavoro e che pertanto non avrebbe adempiuto all’obbligo di sicurezza, fondando la decisione sulla massima della sentenza della Cassazione n. 21694/2011, che recita: “In tema di infortuni sul lavoro, l’art. 2087 c.c., espressione del principio del neminem laedere per l’imprenditore e l’art. 7 del d.lgs. n. 626 del 1994, che disciplina l’affidamento di lavori in appalto all’interno dell’azienda, prevedono l’obbligo per il committente, nella cui disponibilità permane l’ambiente di lavoro, di adottare tutte le misure necessarie a tutelare l’integrità e la salute dei lavoratori, ancorché dipendenti dall’impresa appaltatrice (nella fattispecie, la cooperativa, ndr), consistenti nell’informazione adeguata dei singoli lavoratori e non solo dell’appaltatrice, nella predisposizione di tutte le misure necessarie al raggiungimento dello scopo, nella cooperazione con l’appaltatrice per l’attuazione degli strumenti di protezione e prevenzione dei rischi connessi sia al luogo di lavoro sia all’attività appaltata, tanto più se caratterizzata dall’uso di materiali pericolosi”.

Secondo la tesi difensiva, i giudici di merito non avrebbero considerato, tra le altre cose, che la ditta committente assicurata da Groupama aveva disposto che la cooperativa tenesse un programma di formazione di un giorno per l’uso delle macchine soffiatrici, alle quali era addetto l’operaio infortunatosi, sulla base di manuali d’uso della macchina.

La Cassazione tuttavia ha gettato con forza le doglianze. Il primo motivo in quanto mirato esclusivamente a una nuova valutazione delle circostanze di fatto, non consentita, come dovrebbe essere noto, in sede di legittimità; il secondo perché infondato. La responsabilità dell’imprenditore per la mancata adozione delle misure idonee a tutelare l’integrità psico-fisica del lavoratore – ricordano gli Ermellini – “discende o da norme specifiche o, nell’ipotesi in cui esse non siano rinvenibili, dalla norma di ordine generale di cui all’art. 2087 c.c., costituente norma di chiusura del sistema antinfortunistico estensibile a situazioni ed ipotesi non ancora espressamente considerate e valutate dal legislatore al momento della sua formulazione, e che impone all’imprenditore l’obbligo di adottare nell’esercizio dell’impresa tutte le misure che, avuto riguardo alla particolarità del lavoro, in concreto, svolto dai dipendenti, siano necessarie a tutelare l’integrità psico-fisica dei lavoratori”.

Ragion per cui, e in particolare nel caso in cui si versi in ipotesi di attività lavorativa pericolosa, come nella fattispecie, “la responsabilità del datore di lavoro-imprenditore ai sensi dell’art.2087 c.c., pur non configurando un’ipotesi di responsabilità oggettiva, non può essere, tuttavia, circoscritta alla violazione di regole di esperienza o di regole tecniche preesistenti e collaudate, ma deve ritenersi volta a sanzionare, anche alla luce delle garanzie costituzionali del lavoratore, l’omessa predisposizione, da parte del datore di lavoro, di tutte quelle misure e cautele atte a preservare l’integrità psico-fisica e la salute del lavoratore nel luogo di lavoro, tenuto conto della concreta realtà aziendale, del concreto tipo di lavorazione e del connesso rischio”.

 

Le disposizioni della Costituzione

La Cassazione rammenta quindi come le stesse disposizioni della Carta costituzionale abbiano segnato, anche nella materia giuslavoristica, un momento di rottura rispetto al sistema precedente, in considerazione del fatto che l’attività produttiva, “anch’essa oggetto di tutela costituzionale, poiché attiene all’iniziativa economica privata quale manifestazione di essa (art. 41, primo comma)”, è subordinata, ai sensi del secondo comma della medesima disposizione, “alla utilità sociale che va intesa non tanto e soltanto come mero benessere economico e materiale, sia pure generalizzato alla collettività, quanto, soprattutto, come realizzazione di un pieno e libero sviluppo della persona umana e dei connessi valori di sicurezza, di libertà e dignità”.

Il datore non ha fornito la prova liberatoria e anche chi appalta un lavoro deve tenere tutte le cautele

Fatte queste e altre premesse di carattere generale, entrando nel merito i giudici del Palazzaccio osservano che nel caso di specie, l‘onere della prova gravava sul datore di lavoro che avrebbe dovuto dimostrare di avere fatto tutto il possibile per evitare il danno (prova liberatoria), attraverso l’adozione di cautele previste in via generale e specifica dalle norme antinfortunistiche. Cautele a cui “non possono sottrarsi – sottolinea la Cassazione  nel caso in cui il dipendente di una società appaltatrice di lavori da eseguire in un’area di lavoro del committente riporti un infortunio, entrambe le società interessate”.

Pertanto, una volta motivatamente escluso qualsiasi comportamento abnorme da parte del lavoratore, che abbia potuto concorrere alla causazione dell’infortunio, “deve affermarsi la sussistenza del nesso causale tra l’infortunio e l’attività svolta dal lavoratore in un ambiente in cui, per la pericolosità della macchina automatica alla movimentazione della quale il medesimo era stato destinato dopo solo un giorno di formazione, era altamente probabile che, non adottando ogni cautela prescritta, si verificassero eventi dannosi per il personale” conclude la Suprema Corte, respingendo il ricorso e confermando la condanna al risarcimento.

Scritto da:

Dott. Nicola De Rossi

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Categoria:

Blog Infortuni sul Lavoro

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