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Ribadendo il recente e discusso orientamento in merito, la Cassazione riafferma che alle vittime di un sinistro stradale in linea di massima non spetterebbero i danni esistenziali e morali perché già coperti da quelli biologici. Nel caso di  specie, la Suprema Corte ha ritenuto che l’impossibilità di svolgere una qualsiasi attività a causa dei postumi di un sinistro costituisca una conseguenza normale della lesione alla salute e che possa essere ristorata come danno esistenziale a sé stante soltanto se rappresenta una conseguenza peculiare e distinta.

Gli Ermellini hanno anche ricordato che le le tabelle approntate dalla giurisprudenza per il calcolo del danno biologico (quelle di Milano e Roma in primis) tengono già conto sia della sofferenza interiore (danno morale) che delle difficoltà relazionali (danno esistenziale), consentendo di aumentare l’importo del risarcimento quando il danno alla salute si dimostri particolarmente grave.

In altre parole, secondo i giudici del Palazzaccio, la personalizzazione del danno biologico consente di inglobare anche il danno morale e quello esistenziale, che perciò non vanno liquidati separatamente, a meno che il danneggiato non provi che dal fatto siano derivate conseguenze talmente gravi da sfuggire anche a questo aumento.

 

La passeggera di un’auto rimasta ferita in un incidente cita il conducente e l’assicurazione

Con l’ordinanza in questione, la n. 27523 depositata l’11 ottobre 2021, la Cassazione si è occupata della vicenda di una donna rimasta gravemente e incolpevolmente ferita in seguito a un brutto incidente stradale occorsole mentre era trasportata come passeggera in un’auto, nel 2007.

La danneggiata aveva citato in causa avanti il Tribunale di Bassano del Grappa (poi divenuto di Vicenza) il conducente e la compagnia di assicurazione del veicolo, Allianz, per ottenere il risarcimento integrale dei danni patiti e per i quali aveva ricevuto, in due trance, 95mila euro, che aveva accettato solo a titolo di acconto sul maggior importo di cui sosteneva di aver diritto. Dopo la citazione in causa la compagnia le aveva corrisposto ulteriori 81mila euro, il giudice aveva disposto una consulenza tecnica d’ufficio e aveva accolto la domanda, limitando però il risarcimento nella misura di 136.314 euro oltre interessi, detratti gli acconti già corrisposti per 176mila euro e compensando integralmente tra le parti le spese del grado di giudizio.

Non ritenendo ancora equo il “quantum”, la terza trasportata aveva appellato la sentenza avanti la Corte d’Appello di Venezia che, con sentenza del 2018, aveva accolto il gravame ma soltanto limitatamente alla richiesta di risarcimento del danno da lucro cessante (era stata costretta a licenziarsi dal lavoro) e al motivo relativo alla disposta compensazione delle spese di lite, liquidandole ulteriori 33.088,44 euro.

La donna, tuttavia, ha proposto ricorso anche per Cassazione adducendo motivi di doglianza relativi a pressoché tutti i profili di danno in discussione che sarebbero statui sottostimati: quello da inabilità temporanea, da invalidità permanente, da lucro cessante, eccetera.

Quella che qui interessa è la parte laddove la ricorrente ha lamentato l’errata quantificazione del danno non patrimoniale (incluso il danno biologico), in considerazione del “peggioramento delle condizioni psicofisiche a seguito del secondo intervento chirurgico a cui era stata sottoposta”, nonché l’omessa e/o parziale personalizzazione del danno, oltre all’omessa quantificazione del danno morale e esistenziale, senza “alcuna valida e plausibile giustificazione”.

 

La valutazione autonoma del danno esistenziale e morale

In particolare, quanto a quest’ultima doglianza, la danneggiata evidenziava come la sentenza impugnata fosse censurabile laddove aveva liquidato il danno non patrimoniale comprensivo sia del danno biologico che del danno morale, “facendo applicazione asettica dei criteri elaborati dal Tribunale di Milano e schematicamente riassunti nelle tabelle di riferimento”, certa che la giurisprudenza di legittimità avrebbe definito “incongruo” il ricorso alla “mera valutazione tabellare per la quantificazione del danno“, in particolare reputando non sufficiente “appesantire” il “punto base”.

La sentenza impugnata sarebbe stata dunque “viziata” (anche) nella parte in cui aveva ritenuto che il danno non patrimoniale fosse comprensivo del danno biologico, oltre che del danno morale, omettendo a suo dire una compiuta considerazione in merito al danno esistenziale, da intendersi come “proiezione esterna dell’essere“, in contrapposizione alla “interiorizzazione intimistica della sofferenza” in cui si identificherebbe il danno morale.

In conclusione, secondo la danneggiata, in applicazione del principio della necessità dell’integrale risarcimento del danno sofferto dalla persona, sia il danno esistenziale (costituito dalla rinuncia forzosa alle attività di svago alle quali era solita dedicarsi, come l’alpinismo, lo sci, la corsa e i lunghi viaggi) sia il danno morale avrebbero meritato “una valutazione autonoma rispetto al danno biologico“.

 

Il danno esistenziale va risarcito con la personalizzazione

Ma la Suprema corte ha rigettato questo così come gli altri motivi di doglianza. La Cassazione si sofferma in modo particolare proprio sulla censura, “non fondata” nella quale si lamenta che “il danno esistenziale e il danno morale” avrebbero meritato “una valutazione autonoma rispetto al danno biologico“.

Gli Ermellini chiariscono che qui bisogna partire dalla constatazione che la la liquidazione del danno non patrimoniale subìto dalla ricorrente era stata effettuata in applicazione delle “tabelle milanesi”, le quali, ribadisce la Suprema Corte, “permettono una liquidazione congiunta del danno biologico, inteso come lesione permanente all’integrità psicofisica della persona, e degli altri profili di danno non patrimoniale, inteso come pregiudizio conseguente ai risvolti anatomo-funzionali e relazionali medi, consentendo, altresì, una personalizzazione della liquidazione per particolari condizioni soggettive ndell’interessato”, qui rappresentate da tutte le attività sportive e ricreative a cui la danneggiata era dedita prima del sinistro e a cui ha poi dovuto rinunciare a causa dei postumi riportati.

Secondo la Cassazione, la Corte territoriale ha operato correttamente e, in applicazione delle tabelle di Milano, “al valore medio del danno riferito alla percentuale di invalidità riportata e all’età della danneggiata ha poi apportato un incremento per la personalizzazione del 30%, molto vicino al massimo contemplato nelle tabelle (39%)“, operando, così, una liquidazione “già ampiamente satisfattiva dei vari profili di danno lamentati” e che pertanto “sono stati considerati”

 

Liquidare a sé questi profili di danno rappresenterebbe una duplicazione risarcitoria

E, al contrario di quanto ritenuto dalla danneggiata, i giudici del Palazzaccio chiariscono che “la doglianza relativa all’omessa considerazione del danno esistenziale, da intendersi come proiezione esterna dell’essere, risulta non fondata, alla luce della giurisprudenza di questa Corte”. Infatti, in presenza di un danno permanente alla salute, proseguono gli Ermellini, “costituisce duplicazione risarcitoria la congiunta attribuzione di una somma di denaro a titolo di risarcimento del danno biologico, e l’attribuzione di una ulteriore somma a titolo di risarcimento dei pregiudizi di cui è già espressione il grado percentuale di invalidità permanente (quali i pregiudizi alle attività quotidiane, personali e relazionali, indefettibilmente dipendenti dalla perdita anatomica o funzionale: ovvero il danno dinamico-relazionale)”.

Questo perché, prosegue la Suprema Corte, “in presenza di un danno permanente alla salute, la misura standard del risarcimento prevista dalla legge o dal criterio equitativo uniforme adottato dagli organi giudiziari di merito (oggi secondo il sistema cosiddetto del punto variabile) può essere aumentata solo in presenza di conseguenze dannose del tutto anomale ed affatto peculiari”, in quanto “la perduta possibilità di continuare a svolgere una qualsiasi attività, in conseguenza d’una lesione della salute, o costituisce una conseguenza “normale” del danno (cioè indefettibile per tutti i soggetti che abbiano patito una menomazione identica), ed allora sarà compensata con la liquidazione del danno biologico; ovvero, è una conseguenza peculiare, ed allora dovrà essere risarcita, adeguatamente aumentando la stima del danno biologico (la cosiddetta “personalizzazione”)”.

Evenienza, quest’ultima, che è per l’appunto quella ravvisata prima dal Tribunale di Vicenza e poi dalla Corte d’appello lagunare, “ritenendo che la rinuncia forzosa della danneggiata alle attività sportivo/ricreative costituisse conseguenza “peculiare” del danno anatomico/funzionale subito, dando rilievo ad essa, sul piano risarcitorio, per l’appunto con la “personalizzazione“. Insomma, da questo punto di vista per la Cassazione non può essere lamentato alcun “vuoto risarcitorio”.

 

Il danno morale è fattispecie autonoma ma è anch’esso contemplato nelle tabelle milanesi

Ma per la Suprema Corte parimenti non fondata è anche la doglianza relativa al mancato autonomo riconoscimento del “danno morale”, ovvero la “interiorizzazione intimistica della sofferenza”.  La voce di danno morale – premettono gli Ermellini – mantiene la sua autonomia e non è conglobabile nel danno biologico, trattandosi di sofferenza di natura del tutto interiore e non relazionale, e perciò meritevole di un compenso aggiuntivo al di là della personalizzazione prevista per gli aspetti dinamici compromessi”.

Ne consegue quindi che il giudice di merito, quando procede alla liquidazione del danno alla salute, facendo applicazione, come nello specifico, delle “tabelle milanesi”, dovrà “accertare l’esistenza, nel singolo caso di specie, di un eventuale concorso del danno dinamico-relazionale e del danno morale, e in caso di positivo accertamento dell’esistenza (anche) di quest’ultimo, determinare il quantum risarcitorio applicando integralmente le tabelle di Milano, che prevedono la liquidazione di entrambe le voci di danno”.

Nella sentenza impugnata, conclude la Cassazione, si dava atto della circostanza che le tabelle milanesi “contemplano già, all’interno del punto, una liquidazione media” non del solo danno “biologico”, ma anche “di quello morale”, ragione per cui, conclude la Suprema Corte, “la pretesa della ricorrente che esso formasse oggetto di autonoma considerazione sul piano della liquidazione del “quantum debeatur’ risulta non fondata alla luce dei principi sopra richiamati”.

Scritto da:

Dott. Nicola De Rossi

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Categoria:

Blog Incidenti da Circolazione Stradale

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