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La corresponsabilità della vittima nell’esito tragico di un incidente stradale (nello specifico, il mancato utilizzo del casco da parte del motociclista) non fa comunque venire meno le colpe del conducente del veicolo che ha determinato il sinistro per una grave violazione, nel caso di specie una improvvisa inversione di marcia.

A riaffermare il principio la Corte di Cassazione nell’ordinanza 28419/21 depositata il 22 luglio.

 

Il complesso iter giudiziario di un procedimento penale per omicidio stradale

Il tortuoso iter giudiziario di questa dolorosa vicenda aveva visto il primo pronunciamento il 30 settembre 2011 da parte del Tribunale di Lucera, che aveva assolto, perché il fatto non sussiste, un automobilista dal reato di cui all’art. 589 cod. pen., ossia omicidio (allora) colposo, a lui contestato per aver causato la morte del conducente di un ciclomotore in quanto, procedendo alla guida della sua vettura Nissan Primera, con una manovra di inversione di marcia aveva colpito il veicolo a due ruote che proveniva dalla stessa direzione: sinistro accaduto a Castelnuovo della Daunia il 5 luglio 2007. La vittima era deceduta a Chieti il 22 luglio dopo due settimane di agonia.

Con sentenza del 12 dicembre 2014, la Corte di appello di Bari, in riforma della sentenza di primo grado, aveva invece condannato l’automobilista alla pena, condizionalmente sospesa, di sei mesi di reclusione in ordine al reato ascrittogli, oltre che al risarcimento del danno, da liquidare in separata sede, in favore delle parti civili, nei cui confronti era stata riconosciuta una provvisionale.

La decisone era stata già impugnata avanti la Cassazione sia dall’imputato sia dalle parti civili e la Quarta Sezione della Suprema Corte, con sentenza del 2019, l’aveva annullata. In sede di rinvio, tuttavia, ed è qui il nuovo nodo del contendere, con sentenza del 12 novembre 2019, la Corte di appello di Bari aveva riqualificato il fatto ai sensi dell’art. 590 cod. pen., cioè lesioni personali stradali gravissime e non omicidio colposo (stradale), dichiarando il non doversi procedere nei confronti dell’imputato in ordine al reato appunto di lesioni personali colpose, perché l’azione penale non poteva essere iniziata per difetto di querela.

A ricorrere nuovamente per Cassazione contro questa sentenza, questa volta, è stato il Procuratore generale presso la Corte d’Appello di Bari, sollevando un unico motivo doglianza e deducendo l’erronea applicazione degli art. 133 e 589 cod. pen. e l’illogicità della motivazione. Nel ricorso di evidenziava che la Corte territoriale aveva erroneamente collocato sullo stesso piano i diversi profili del nesso di causalità nei reati di evento e del concorso colposo della vittima.

 

L’esclusione della responsabilità può darsi solo a fronte di una condotta altrui abnorme

In particolare, il ricorrente osservava che l’esclusione della responsabilità penale in capo al conducente può essere affermata solo laddove sussista un evento che interrompa il nesso di causalità tra la condotta e l’evento e si sia in presenza di un accadimento abnorme o assolutamente imprevedibile della vittima e che questo sia da solo sufficiente a determinare il verificarsi dell’evento. Diversamente, la colpa della vittima incide solo sulla quantificazione del danno.

Secondo il Procuratore generale, dunque, il giudice del rinvio aveva riqualificato “in modo incomprensibile” il fatto nell’ipotesi di cui all’art. 590 cod. pen., piuttosto che ridurre l’entità della pena e le conseguenze civili derivanti dal reato. Era infatti assodato che il decesso del conducente del ciclomotore era stato causato da una manovra imprudente dell’imputato, a fronte della quale la colpa concorrente della vittima, che non indossava il casco, non poteva essere considerata un evento imprevedibile o abnorme.

Inoltre, quanto al rilievo del difetto di querela, il Procuratore aggiungeva che il decesso della  persona offesa aveva imposto una determinata veste giuridica al fatto che, per il mero concorrere di una condotta negligente della vittima, non poteva ricondursi al reato di lesioni personali colpose, per cui i familiari del motociclista mai avrebbero potuto ragionevolmente prevedere una simile riqualificazione del fatto e presentare querela, essendo state pertanto private di ogni tutela civile e penale.

Ebbene, per la Cassazione il motivo è assolutamente fondato. Gli Ermellini, ripercorrendo tutta la vicenda giudiziaria, ricordano che, con la sentenza rescindente (del 19 settembre 2016), la quarta sezione della Suprema Corte aveva annullato la sentenza di condanna della Corte di appello, rimarcandone il difetto di motivazione rinforzata, a fronte della pronuncia assolutoria del Tribunale, “non evincendosi dalla sentenza dei giudici di appello se la Corte territoriale avesse fondato il differente esito decisorio sulla base di elementi istruttori trascurati dal giudice di primo grado, difettando qualsivoglia confronto con la decisione del Tribunale, né quali fossero stati gli elementi che i giudici di appello avessero considerato dirimenti e idonei a confutare la decisione del primo giudice”.

 

Il giudice del rinvio aveva accertato una colpa concorrente nel sinistro

In sede di rinvio, però, la Corte di appello aveva richiamato la perizia sulla dinamica del sinistro e quella medico-legale sulla vittima, rilevando come dalle stesse fosse emerso che l’incidente stradale era stato causato dalla colpa concorrente degli antagonisti della vicenda, ovvero quella del conducente dell’auto, consistita nella violazione dell’art. 154 del Codice della strada (cambio di direzione o di corsia o altre manovre), e quella del conducente del ciclomotore, la vittima, consistita nella violazione degli art. 148 comma 12 del Codice della strada (sorpasso) e 171 comma 1 (mancato uso del casco protettivo per gli utenti di veicoli a due ruote).

Ma poi aveva riqualificato il fatto ai sensi dell’art. 590 c.p. con declaratoria di improcedibilità

Era stato stabilito all’esito della perizia disposta dalla Corte di appello che, se la vittima avesse indossato il casco protettivo all’epoca previsto per i ciclomotori, ovvero quello non integrale, egli avrebbe notevolmente limitato le lesioni del neurocranio, con conseguente prognosi migliore. Partendo da tale premessa, il giudice del rinvio era dunque giunto alla riqualificazione del fatto nella fattispecie di cui all’art. 590 cod. pen., con conseguente declaratoria di improcedibilità per difetto di querela, osservando che la condotta negligente posta in essere dal conducente dell’auto avrebbe determinato per la vittima, a seguito dell’impatto, unicamente delle lesioni personali, ma non il decesso, causato invece, secondo questa tesi, dalla condotta colposa tenuta da quest’ultimo

Ma questa impostazione, sentenzia la Cassazione, non può essere ritenuta legittima. Il giudice del rinvio, spiega infatti la Suprema Corte, “si è limitato a evocare la concorrente condotta colposa della persona offesa, senza tuttavia spiegare in che misura la stessa abbia inciso nella determinazione dell’evento. Non è stato ben chiarito, in realtà, non solo in cosa è consistito il comportamento negligente della vittima nel sinistro (a parte il mancato uso del casco protettivo), ma neanche quale sia stata la colpa dello stesso imputato, non potendo ritenersi esaustivo il mero richiamo in motivazione alle norme cautelari violate.

 

Se prevedibile, l’utente della strada è responsabile anche del comportamento imprudente altri

Dalla lettura del capo di imputazione, fa notare la Cassazione, “si assume come il conducente dell’auto abbia operato un’inversione di marcia nei pressi dell’intersezione stradale, ma di tale condotta la sentenza impugnata non spiega la rilevanza ai fini dell’evento lesivo subìto dalla vittima, senza approfondire ad esempio la natura repentina o meno della manovra o la sua prevedibilità da parte del motociclista. Rispetto a quest’ultimo, inoltre, la Corte territoriale non ha specificato il grado della negligenza a lui ascrivibile, né se il suo comportamento sia stato o meno abnorme, dovendosi sul punto evidenziare che, come affermato da questa stessa Corte, il principio dell’affidamento, nello specifico campo della circolazione stradale, trova opportuno temperamento nell’opposto principio secondo il quale l’utente della strada è responsabile anche del comportamento imprudente altrui, purché rientri nel limite della prevedibilità”. Di regola, il conducente ha quindi l’obbligo di tenere un comportamento prudente e accorto, prevedendo anche le imprudenze altrui ragionevolmente prevedibili.

Tale problematica, secondo gli Ermellini, non è stata adeguatamente approfondita dal giudice del rinvio, che, “lungi dall’occuparsi del tema della motivazione rinforzata rispetto al giudizio assolutorio di primo grado, unico aspetto su cui si era incentrata la sentenza rescindente, ha risolto la questione sull’inquadramento giuridico del fatto guardandolo nella sola prospettiva dell’imputato, senza stabilire la rilevanza causale della sua condotta colposa (come detto non ben specificata) rispetto all’evento lesivo, che è stato quello della morte della persona offesa, non potendosi certo ridimensionare l’evento naturalistico della condotta in base alle sue conseguenze virtuali e ipotetiche, ignorandone invece i suoi effetti concreti”.

 

La violazione da parte della vittima non giustifica la diversa qualificazione giuridica del reato

La Suprema Corte, in conclusione, in forza del decesso della persona offesa, ha quindi sentenziato che “il reato rimane quello di omicidio colposo e non di lesioni colpose, essendo onere del giudice di merito stabilire, all’esito di una disamina attenta della dinamica del sinistro, se l’evento del reato sia riconducibile alla condotta colposa dell’imputato, tenendo presente anche eventuali e concorrenti condotte imprudenti della vittima, di cui però deve essere specificato il grado di colpa e di prevedibilità da parte del soggetto attivo. Non può sottacere in proposito che, come correttamente sottolineato anche dal Procuratore generale nella sua requisitoria scritta, la violazione della regola cautelare da parte della vittima non giustifica la diversa qualificazione giuridica del reato, ma può integrare un concorso di colpa, che eventualmente può assumere rilievo anche su piani diversi, come quello sanzionatorio o risarcitorio”.

Ergo sentenza nuovamente cassata con altro rinvio alla Corte d’Appello di Bari per un nuovo giudizio, al fine di compiere un più adeguato accertamento circa la dinamica del sinistro, l’effettivo grado di colpa dei suoi protagonisti e l’eventuale ascrivibilità all’automobilista dell’evento del reato contestato.

Scritto da:

Dott. Nicola De Rossi

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Categoria:

Blog Incidenti da Circolazione Stradale

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