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Anche se la rovinosa caduta a causa di una buca è avvenuta al di fuori della pista ciclabile e in un tratto riservato ai pedoni, il ciclista ferito può chiedere i danni al Comune, che non può lasciare e non segnalare un ostacolo così pericoloso a ridosso di un percorso per le biciclette, perché non è imprevedibile che chi viaggia in sella a un velocipede, per mille motivi, possa finirci dentro.

Con l’ordinanza n. 2667/22 depositata il 28 gennaio 2022 la Cassazione è entrata in una questione spesso oggetto di interpretazioni divergenti derivanti anche dalle lacune normative, per non parlare delle condotte quanto meno discutibili delle Pubbliche amministrazioni sul piano della realizzazione, della manutenzione e della segnaletica di questi assi viari sempre più utilizzati: parliamo appunto delle piste ciclabili.

Ciclista cita per danni il Comune per una brutta caduta su una buca a ridosso di una ciclabile

Gli Ermellini si sono occupati di un contenzioso intentato da un ciclista bresciano nei confronti del Comune di Castel Mella per essere risarcito di un brutto incidente subìto nel 2012. L’uomo, mentre era in sella alla sua bicicletta, stava percorrendo una ciclabile quando, a causa del sopraggiungere di un pedone, era stato costretto a spostarsi in una zona verde adiacente alla pista ove però si era imbattuto in una buca profonda 40 centimetri e larga 50 che ne aveva causato la caduta a terra dalla quale aveva rimediato svariate lesioni, specie al volto.

Domanda respinta in primo e secondo grado,  per i giudici la colpa è solo del danneggiato

Con sentenza del 2016, tuttavia, il Tribunale di Brescia, aveva rigettato la richiesta danni concludendo che l’evento si era verificato per esclusiva responsabilità del ciclista il quale si era spostato su un manto erboso, precluso al transito dei velocipedi e naturalmente caratterizzato da irregolarità del terreno. Il danneggiato aveva quindi appellato la decisione, ma anche la Corte d’Appello di Brescia, con pronunciamento del 2020, gli aveva dato torto confermando il giudizio di primo grado. Anche la Corte territoriale aveva ritenuto che l’incidente fosse interamente imputabile alla “condotta negligente ed imprudente dell’appellante”, a cui si imputava prima di aver impegnato uno spazio riservato al solo transito dei pedoni per consentire loro l’attraversamento, e poi per aver invaso un’area verde, posta al di fuori del marciapiede.

 

Il ricorso per cassazione: il Comune doveva quanto meno segnalare l’ostacolo

Il ciclista tuttavia non si è dato per vinto e ha proposto ricorso anche per Cassazione, contestando la sentenza impugnata in primis laddove escludeva che il tratto di strada in cui si era verificato il sinistro non fosse qualificabile in termini di pista ciclabile: dall’esame dei luoghi, infatti, sarebbe risultato piuttosto che si trattava della prosecuzione della pista stessa, interrotta dalla presenza di un attraversamento pedonale, di talché “il Comune aveva creato un passaggio ad hoc per consentire ai ciclisti di portarsi sul lato opposto della strada così da evitare la rotatoria“. 

In ogni caso, proseguiva il ricorrente, anche a voler considerate il tratto di strada come pedonale, il giudice di secondo grado avrebbe omesso di considerare che, ai sensi dell’art. 3 C.d.s., i velocipedi possono circolare anche nelle aree pedonali e che sarebbe stato quindi obbligo del Comune segnalare l’eventuale divieto per le biciclette di transitare in tale area. Il danneggiato inoltre si doleva del fatto che, oltre al divieto, l’Amministrazione non avesse segnalato neppure la buca “incriminata” nascondendola alla visibilità di chi frequentava il luogo. Con il secondo motivo di ricorso, poi, il ciclista lamentava la violazione dell’art. 2051 c.c. e dell’art. 1227 c.c., in relazione agli artt. 360 n. 1 e 5 c.p.c., per non aver la Corte d’Appello applicato il principio di corresponsabilità tra lui e il Comune di i Castel Mella.

 

Le zone pedonali non sono sempre vietate alle bici

Secondo la Cassazione il primo motivo è inammissibile ma non in toto, solo laddove il ricorrente chiedeva alla Corte di legittimità un diverso apprezzamento dei fatti e una rivalutazione delle emergenze probatorie, sollecitando un tipo di sindacato che, com’è ben noto, è precluso in sede di legittimità. “La qualificazione del tratto stradale percorso dal (omissis) quale zona del perimetro urbano estranea alla pista ciclabile attiene infatti esclusivamente al merito della vicenda” spiegano gli Ermellini, che tuttavia giungono a diverse conclusioni in ordine alla individuazione del “regime giuridico” dell’area teatro dell’incidente.

“Infatti, in base alle previsioni del codice della strada, in via di principio e salvo diversa segnalazione (la cui esistenza doveva evidentemente essere provata dall’Ente) le zone pedonali non sono tout court interdette al transito dei velocipedi” spiega la Suprema corte citando l’art. 3, comma 1, n. 2 del Codice della Strada, il quale definisce l’area pedonale come “zona interdetta alla circolazione dei veicoli, salvo”, tra gli altri, “i velocipedi” e ferma la possibilità per i comuni di “introdurre, attraverso apposita segnalazione, ulteriori restrizioni alla circolazione su aree pedonali“.  Ne consegue, sottolinea la Cassazione, che la Corte territoriale ha errato nel ritenere “irrilevante la mancanza di segnaletica orizzontale, per essere la stessa preordinata ad organizzare e disciplinare la sola circolazione sulle strade”.

 

Il principio di corresponsabilità con il Comune

Ma per i giudici del Palazzaccio, soprattutto, è fondato il secondo motivo di doglianza circa la mancata applicazione del principio di corresponsabilità. La Corte territoriale, infatti, come si è detto, nel ricostruire la dinamica dell’evento lesivo, aveva ritenuto che esso fosse imputabile esclusivamente al ciclista il quale, ponendo in essere una condotta imprudente e negligente, avrebbe interrotto il nesso eziologico tra fatto e danno. I giudici di seconde cure, dunque, hanno attribuito al solo danneggiato la responsabilità dell’incidente “omettendo però di valutare se le condizioni dei luoghi fossero tali che l’ipotizzata imprudenza dell’infortunato avesse semplicemente concorso a cagionare il danno, senza assurgere tuttavia a causa esclusiva dello stesso” spiegano gli Ermellini.

Ciò che dunque manca nella sentenza impugnata è, in definitiva, “la verifica del se un comportamento colposo della vittima (come l’avere, in tesi, circolato in bicicletta su un’area interdetta al traffico dei velocipedi) valesse ad escludere ogni responsabilità del Comune, consistente nell’avere lasciata aperta, incustodita e per giunta non segnalata e non intercettabile una buca di quelle dimensioni e di quella profondità” conclude la Cassazione, che ha pertanto casato la sentenza, con rinvio alla Corte d’Appello di Brescia, in diversa composizione, la quale dovrà riesaminare il caso alla luce delle indicazioni fornite.

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Responsabilità della Pubblica Amministrazione

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