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Il diritto di una donna in gravidanza al consenso informato deve avere un contenuto ampio e non ristretto: deve, cioè, consentire diversi tipi di scelte come, ad esempio, decidere di non abortire anche rispetto a una nascita indesiderata (potendosi così preparare psicologicamente ed organizzativamente per tempo per accudire il bambino con problemi), oppure optare per l’aborto nel caso di alterazioni psico fisiche del nascituro. E’ quanto ha stabilito la Corte di Cassazione, terza sezione Civile, nella recente sentenza n. 5004/2017 in cui si dispone il diritto al risarcimento per i genitori di una bimba per la mancata informazione da parte del ginecologo che, a fronte di una malformazione del feto, non ha consigliato alla sua paziente uno specialista per approfondire la situazione.

Il caso. Nel 1995 una donna in gravidanza si sottopose ad amniocentesi. Dall’esame, effettuato in un laboratorio di genetica, risultò che il feto presentava un’alterazione cromosomica, la trisomia X, ma nessuno dei medici portò a conoscenza dei futuri genitori che, in una certa percentuale di casi, tale alterazione cromosomica potesse causare danni mentali anche gravi al bambino. In tal modo non fu data alla madre la possibilità di scegliere consapevolmente se interrompere o meno la gravidanza. I genitori nel 2003 convennero in giudizio il ginecologo, il genetista e il laboratorio di genetica chiedendo un risarcimento danni di 13 milioni di euro per danno alla vita sociale della bambina nata con la malformazione genetica. Il Tribunale di primo grado condannò i medici e la struttura sanitaria al pagamento di circa 60mila euro per risarcimento danni. I genitori proposero appello, che però quale venne rigettato dalla Corte d’Appello di Roma nel 2012. Secondo i giudici, i medici avevano assolto correttamente al loro dovere di informazione. La madre della bambina ha, quindi, proposto ricorso per Cassazione.

I giudici della Suprema Corte hanno sospeso il giudizio della vicenda in questione, in attesa della decisione delle Sezioni Unite, le quali, con sentenza 25767/2015, hanno affrontato la questione della responsabilità medica da nascita indesiderata e la questione della legittimazione del nato a pretendere il risarcimento del danno a carico del medico che, con il suo difetto di informazioni, abbia privato la gestante della possibilità di accedere all’interruzione di gravidanza. Al riguardo, le Sezioni Unite hanno chiarito che non esiste un diritto a non nascere se non sani, perché la vita di un bambino disabile non può considerarsi un danno. Di conseguenza, il bambino non ha diritto al risarcimento dei danni perché è stato fatto nascere nonostante le malformazioni.

La madre della bambina ha dedotto come motivi di ricorso il fatto di non essere stata adeguatamente informata che la nascita con trisomia X si potesse accompagnare a patologie anche gravi. Di conseguenza, le è stato negato il diritto all’aborto terapeutico che è contemplato nell’ipotesi di rischio di gravi ritardi mentali del nascituro. Inoltre, ha evidenziato che la Corte d’Appello ha escluso la consulenza tecnica di un esperto per accertare le conseguenze dell’alterazione genetica. I giudici della Suprema Corte, con sentenza 5004/2017 della terza sezione civile, hanno accolto il ricorso della madre della bambina. La sentenza evidenzia che la Corte d’Appello non ha tenuto in considerazione le pubblicazioni scientifiche sulla trisomia X, a cui aveva fatto riferimento il Tribunale. Invece, ha proposto in alternativa fonti tratte da Wikipedia, prive di rilevanza scientifica, secondo le quali dalla trisomia X non deriverebbe un ritardo mentale. La Corte di Cassazione ha, dunque, riconosciuto alla donna il diritto al risarcimento danni per violazione del diritto al compimento di una scelta consapevole sulla interruzione di gravidanza, connessa alla possibile presenza di gravi problemi al nascituro, tali da destabilizzare la salute fisiopsichica della madre. L’accertamento della possibilità del verificarsi di tale malformazione va fatto con valutazione ex ante, ovvero sulla base delle informazioni delle quali avrebbe potuto disporre la madre prima della nascita, al momento di scegliere se interrompere o meno la gravidanza, e non con valutazione ex post, sulla base della situazione concreta del nato.

Peraltro, la violazione del diritto al consenso informato in capo ad una donna in gravidanza non incide solo sulla autodeterminazione delle scelte abortive, ma può avere altre conseguenze in quanto la madre, se adeguatamente informata, potrebbe ugualmente scegliere di non abortire (e non avrebbe perciò alcun diritto al risarcimento del danno da nascita indesiderata), ma avrebbe la possibilità di prepararsi psicologicamente ed anche materialmente alla nascita di un bambino con possibili problemi, che potrebbe necessitare di un particolare accudimento, di una elaborazione del fatto da parte dei genitori, della accettazione e predisposizione di una diversa organizzazione di vita. Inoltre, la tempestiva informazione sulla possibilità di alterazioni fisiche o psichiche del nato in molti casi consente di programmare interventi chirurgici o cure tempestive, farmacologiche o riabilitative: interventi tutti che possono consentire, a seconda dei casi, ai genitori di attivarsi immediatamente con la collaborazione dei medici per eliminare il problema o limitarne le conseguenze dannose per il bambino.

La Cassazione conclude affermando che il compito del professionista di fiducia non si esaurisce nell’indicare alla paziente la presenza della alterazione, ma esso è necessariamente comprensivo, in particolare ove gli sia stato richiesto, di un approfondimento. In altre parole, egli deve acquisire documentazione integrativa, valutare le conseguenze possibili dell’alterazione, le percentuali di verificabilità, prospettare gli scenari sulla futura vita del nascituro e dei genitori, descrivere l’incidenza della malformazione sulla salute futura del bambino, descrivere l’incidenza della patologia sulla salute psico fisica della madre, dare qualsiasi altra utile ed attendibile informazione alla donna affinché si possa determinare consapevolmente, tanto alla scelta dell’interruzione della gravidanza quanto alla scelta di proseguirla (accettando i problemi del caso), non spostare l’accertamento medico dovuto su un medico non specializzato o, peggio, sul laboratorio di analisi. L’informazione dovuta deve essere, in altre parole, comprensiva di tutti gli elementi per consentire alla paziente una scelta informata e consapevole, sia che essa sia volta alla interruzione che se sia volta alla prosecuzione di una gravidanza il cui esito potrà comportare delle problematicità da affrontare.

Nello specifico, tale dovere di informazione non è stato adeguatamente assolto né dal ginecologo di fiducia né dai medici del laboratorio di analisi. Questi ultimi, coinvolti nel caso a seguito di una richiesta di informazioni supplementari proposte dalla gestante e successive alla scoperta dell’anomalia genetica, si sono infatti limitati a confermare l’esistenza dell’anomalia e a reindirizzare la donna al ginecologo, ritenendo di aver assolto ai propri compiti. Al contrario, ricorda la Corte Suprema, il compito del laboratorio specialistico di diagnostica non si ferma a questa verifica, ma va oltre e, sulla specifica richiesta della paziente, deve soddisfare le altre richieste di informazione anche in relazione alle probabili conseguenze dell’anomalia.

La Cassazione ha quindi cassato la sentenza di secondo grado con rinvio a diversa Corte d’Appello.

Scritto da:

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Dott. Nicola De Rossi

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Categoria:

Blog Malasanità

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