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L’omessa diagnosi di una processo morboso terminale, dalla quale è derivato il decesso prematuro (rispetto a quanto si poteva prevedere) del paziente, determina l’esistenza di un danno risarcibile se ha determinato la perdita della possibilità del paziente di vivere alcune settimane o alcuni mesi in più di quelli effettivamente vissuti. Confrontandosi con la vicenda di un uomo deceduto per infarto acuto, diagnosticato in origine come semplice nevralgia, la recente e rilevante sentenza numero 16919/2018 della Corte di Cassazione ha chiarito che “la chance, in tale caso, rileva non come danno-conseguenza ai sensi dell’art. 1223 cod. civ., ma come danno-evento“.

 

Il fatto. Con atto di citazione notificato nel dicembre 1991, T.G., S.P., S.S. e S.M. convenivano in giudizio innanzi al Tribunale di Cagliari la U.S.L. … e Tr. Fr. chiedendo il risarcimento del danno per la morte del congiunto S. G. al quale, recatosi presso il pronto soccorso dell’Ospedale … per violenti dolori retrosternali, veniva diagnosticata dal dott. Tr. una semplice nevralgia. Veniva, pertanto, disposto il rinvio a casa. Il giorno dopo, a seguito di esame elettrocardiografico con il quale gli era stato diagnosticato infarto acuto con prescrizione di ricovero d’urgenza, il paziente decedeva appena rientrato a casa. Il Tribunale accoglieva la domanda, condannando i convenuti in solido al pagamento della complessiva somma di Euro 1.876.038,47.

La Corte di Appello accoglieva l’appello osservando che, sulla base delle considerazione del Ctu, la prospettiva di vita del S., nella gravissima situazione anatomica e funzionale dell’organo cardiaco, in termini di altissima probabilità statistica non poteva ritenersi superiore ad alcuni mesi (12 secondo l’ipotesi più favorevole, tre secondo quella meno favorevole), e ciò anche ove la patologia in atto fosse stata immediatamente riconosciuta dal sanitario e che, sulla scorta degli accertamenti peritali, vi era l’alta probabilità di un evento fatale intra–ricovero . Precisava la Corte di Appello che, secondo il Ctu, anche ove la patologia fosse stata prontamente riconosciuta e fossero stati correttamente attuati in regime di ricovero tutti i migliori trattamenti disponibili all’epoca, la probabilità di morte intra-ricovero (cioè ai 15-20 giorni dal momento della presentazione al pronto soccorso) sarebbe stata intorno al 70-80%, mentre la probabilità di morte ad un anno sarebbe risultata superiore e che il comportamento negligente e/o imperito del Tr. non poteva essere posto in rapporto causale con l’evento morte e ciò in quanto non si poteva attribuire rilievo, sotto il profilo risarcitorio, ad eventuali differenze nella sopravvivenza quantificabili in periodi brevissimi.

Avverso la sentenza della Corte di Appello era proposto ricorso per Cassazione. Col primo motivo la ricorrente rilevava che, secondo il Ctu, delle tre cause che avrebbero potuto condurre al decesso del S. (fibrillazione ventricolare, asistolia e attività elettrica in assenza di polso) le prime due, se prontamente riconosciute, avrebbero potuto essere trattate con una discreta possibilità di successo (circostanza non considerata dalla Corte d’appello) e che, comunque, era stata negata al S. anche la possibilità di vivere per un periodo più lungo, avendo la corte territoriale accertato la possibilità di un prolungamento di vita fino a 3-12 mesi. Aggiungeva, quindi, che tale persistenza di chance di vita era stata preclusa dalla condotta colposa del Tr., posto che l’evento mortale non si sarebbe verificato in maniera tanto anticipata se l’infarto fosse stato tempestivamente diagnosticato e trattato.

Il motivo è stato ritenuto fondato dalla Suprema Corte. Il giudice di merito – precisano gli Ermellini – ha accertato che “ove fosse stato diagnosticato l’infarto occorso al S., vi sarebbe stato un limitato periodo di sopravvivenza, non quantificato, ma rispetto al quale per un verso ha affermato che in termini di altissima probabilità statistica non poteva ritenersi superiore ad alcuni mesi (12 mesi secondo l’ipotesi più favorevole, tre mesi secondo quella meno favorevole), per l’altro ha richiamato la conclusione del CTU secondo cui, anche ove la patologia fosse stata prontamente riconosciuta e fossero stati correttamente attuati in regime di ricovero tutti i migliori trattamenti disponibili nel 1979, la probabilità di morte intra-ricovero (cioè ai 15-20 giorni dal momento della presentazione al pronto soccorso) sarebbe stata intorno al 70-80%, mentre la probabilità di morte ad un anno sarebbe risultata superiore.” Ha escluso, quindi, “l’esistenza del nesso di causalità con la condotta colposa del sanitario non potendosi attribuire rilievo, sotto il profilo risarcitorio, ad eventuali differenze nella sopravvivenza quantificabili in periodi brevissimi.”

Integra, in realtà, l’esistenza di un danno risarcibile alla persona “l’omissione della diagnosi di un processo morboso terminale, ove risulti che, per effetto dell’omissione, sia andata perduta dal paziente la chance di vivere alcune settimane od alcuni mesi in più, rispetto a quelli poi effettivamente vissuti.” Il punto di riferimento della causalità materiale, in tali ipotesi, precisa la Corte, “è proprio l’evento perdita di chance in termini di perdita della possibilità di una vita più lunga da parte del paziente, sicché il nesso di causalità materiale fra la condotta colposa e l’evento va posto in relazione non con riferimento all’evento morte sic et simpliciter, ma con riferimento alla perdita del detto limitato periodo di sopravvivenza.”

Il giudice di merito, secondo l’iter motivazionale della Corte, avrebbe dovuto valutare quali conseguenze pregiudizievoli fossero derivate dall’avere privato il danneggiato dalla possibilità di sopravvivere sia pure per un periodo limitato di vita, sottolineandosi, peraltro, che è “lo stesso uso dell’espressione chance, con riferimento alla perdita della possibilità di sopravvivenza per un periodo limitato, a non apparire pertinente perché il danno non attiene al mancato conseguimento di qualcosa che il soggetto non ha mai avuto e dunque ad una possibilità protesa verso il futuro, cui allude la chance, ma alla perdita di qualcosa che il soggetto già aveva e di cui avrebbe certamente fruito ove non fosse intervenuta l’imperizia del sanitario.”

Da ciò consegue che, qualora l’evento di danno sia costituito non da una possibilità – sinonimo di incertezza del risultato sperato – ma dal (mancato) risultato stesso (nel caso di specie, la perdita anticipata della vita) “non è lecito discorrere di chance perduta, bensì di altro e diverso evento di danno, senza che l’equivoco lessicale costituito, in tal caso, dalla sua ricostruzione in termini di “possibilità” possa indurre a conclusioni diverse.”

La condotta colpevole del medico, invero, non ha cagionato la morte del paziente (che si sarebbe comunque verificata) bensì ha comportato una significativa riduzione della durata della sua vita ed una peggiore qualità della stessa per tutta la sua minor durata. In tal caso, prosegue la Corte, il sanitario “sarà chiamato a rispondere dell’evento di danno costituito dalla minor durata della vita e dalla sua peggior qualità, senza che tale danno integri una fattispecie di perdita di chance – senza, cioè, che l’equivoco lessicale costituito dal sintagma “possibilità di un vita più lunga e di qualità migliore” incida sulla qualificazione dell’evento, caratterizzato non dalla “possibilità di un risultato migliore”, bensì dalla certezza (o rilevante probabilità) di aver vissuto meno a lungo, patendo maggiori sofferenze fisiche e spirituali.”

Scritto da:

Dott. Nicola De Rossi

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Categoria:

Blog Malasanità

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