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Non è sufficiente per un medico giustificare un grave danno causato a un paziente asserendo di aver seguito le linee guida se viene provato che ha commesso gravi errori non interpretando il “caso concreto”.

A riaffermare questo principio, giudicando definitivamente un tragico caso di mala sanità successo all’ospedale di Cittiglio, nel Varesotto, la Cassazione, con la sentenza n. 37617/21 depositata il 18/10/2021

 

Una donna perde il bimbo che portava in grembo che nasce morto

Una donna, alla trentunesima settimana di gravidanza, si era rivolta alla struttura a seguito di abbondanti perdite di liquido trasparente, seguite da dolori pelvici, il mattino del 7 aprile 2015. Il ginecologo in servizio aveva sottoposto la paziente a esame ispettivo tramite speculum, ad esame del Prom Test e ad ecografia ma poi, sebbene la corretta lettura del tracciato cardiotocografico non fosse del tutto rassicurante, all’esito degli accertamenti l’aveva dimessa, rassicurandola sulle sue condizioni di salute, anziché disporne il ricovero in osservazione, anche alla luce della condizione di grave prematurità del feto e della possibilità di misconoscimento del Prom a causa di una frettolosa e non adeguatamente protratta osservazione.

La partoriente, però, tre giorni dopo si era nuovamente recata allo stesso nosocomio, in regime d’urgenza, poiché, mentre si trovava in bagno, aveva avvertito qualcosa uscire dalle parti intime: il feto, che era deceduto in utero,  era nato morto all’alba dell’11 aprile.

Il ginecologo, in primo grado, nel 2018, era stato ritenuto colpevole dal Tribunale di Varese per l’interruzione di gravidanza, ma la Corte d’Appello di Milano, l’anno seguente, aveva riformato la sentenza di condanna alla pena ritenuta di giustizia e alle connesse statuizioni civili (revocate) emessa dai giudici di prime cure, assolvendo l’imputato dal reato ascrittogli, perché il fatto non sussiste.

 

Per i giudici di secondo grado il dottore aveva rispettato le linee guida

La Corte di merito, nel motivare la pronunzia assolutoria, aveva premesso che la causa della morte del feto era costituita dal prolasso del funicolo; tuttavia, ravvisata una “insormontabile” incertezza circa le cause dell’accaduto e la loro riferibilità al ginecologo, aveva affermato l’assenza di nesso causale tra l’errata lettura del tracciato e la rottura delle acque e aveva ritenuto che il dottore avesse rispettato le linee guida nel trattamento della paziente: la gestazione aveva avuto un corso regolare e il ginecologo aveva eseguito gli accertamenti necessari, ossia l’esame ispettivo con lo Speculum (che non diede alcun esito particolare), l’osservazione diretta se vi fosse fuoriuscita del liquido dal canale cervicale, nonché il Prom Test per verificare la presenza di liquido amniotico in vagina, con esito negativo. Aveva inoltre eseguito l’ecografia e il tracciato cardiotocografico, il tutto con esito negativo. La Corte distrettuale aveva poi escluso, sulla base dell’esame istologico degli annessi ovulari, che vi fossero segni istologici di un’infiammazione al momento del secondo ricovero della paziente, il che avrebbe escluso ogni possibilità di rottura della membrana il 7 aprile 2015, giorno del primo accesso.

La Corte di merito si era anche interrogata su una possibile opportunità di trattenere o rivalutare la paziente entro le 12 ore, nella sua eventuale rilevanza causale sull’evento: opportunità che la sentenza d’appello in realtà aveva riconosciuto, ritenendo però che ciò non potesse comportare di per sé la condanna del ginecologo.

I genitori della piccola creatura mai nata, le parti civili, hanno quindi proposto ricorso per cassazione lamentando tuta una serie di errori in cui sarebbero incorsi i giudici di secondo grado, specie in ordine alla sussistenza del nesso di causalità tra la condotta del ginecologo e l’evento. Ad esempio, risultava dagli atti di causa che tutti gli esami furono eseguiti dall’imputato entro circa 45 minuti: di questi, in particolare il cosiddetto Prom Test, presenta, secondo la ricostruzione operata in primo grado, un ampio margine di efficacia se eseguito dopo un’ora dalla presunta perdita, ciò che ne imponeva una valutazione particolarmente cauta.

 

Gli esami avrebbero consigliato il ricovero in osservazione

I ricorrenti hanno quindi rilevato come fosse assodato che il medico avesse eseguito un’errata lettura del tracciato cardiotocografico, cosa riconosciuta anche dalla Corte di merito, la quale, “pur non traendone le relative conseguenze”, aveva ammesso che sarebbe stata opportuna una rivalutazione della situazione della paziente, la quale aveva registrato perdite di entità tale da spingerla a recarsi presso il Pronto Soccorso. Dunque, alla luce del tracciato e dei suoi esiti, che deponevano per una condizione fetale di rischio, il ginecologo non avrebbe dovuto dimettere la paziente, ma sottoporla a continua sorveglianza.

E le omissioni del medico avrebbero avuto rilevanza causale nell’evento

Infine, i ricorrenti lamentavano il fatto che le omissioni dell’imputato, riscontrate dai consulenti tecnici del Pubblico Ministero (ricovero; bed rest; prosecuzione/ripetizione tracciato; esami batteriologici vagino-rettali; urinocultura; esami urgenti preoperatori + PCR; ECG; tocolisi, ecc.), avevano in realtà avuto rilevanza causale sul prodursi dell’evento, che la Corte di merito non avrebbe invece ravvisato applicando in modo errato i principi in tema di causalità omissiva: la Corte territoriale, secondo i ricorrenti, si sarebbe dovuta chiedere che cosa sarebbe successo, secondo un giudizio di elevata probabilità logica e considerando le peculiarità del caso concreto, se la condotta doverosa richiesta all’imputato fosse stata regolarmente tenuta. Il tutto considerando anche che il prolasso del funicolo che si verifichi in un buon ambiente ospedaliero presenta una mortalità pari a zero, così come la rottura delle membrane in sede ospedaliera, e che la formale osservanza delle linee guida non esonerava comunque il sanitario dalla valutazione della situazione nel caso specifico, in base alle caratterizzazioni concrete dello stesso.

Secondo la Suprema Corte il ricorso è fondato. Innanzitutto, fanno notare gli Ermellini, le censure mosse all’eccessiva sinteticità della decisione d’appello, che aveva riformato integralmente la sentenza di condanna emessa in primo grado, risultano corrette in primo luogo “in relazione al fatto che la sentenza impugnata, pur pervenendo a un giudizio assolutorio diametralmente opposto a quello del Tribunale varesino, non si confronta in modo specifico con le argomentazioni sulle quali la condanna in primo grado era fondata”.

 

Il nesso causale tra condotta omissiva ed evento

In altre parole, la corte territoriale, secondo i giudici del Palazzaccio, ha selezionato alcuni elementi probatori in base ai quali “ha reputato esaustiva, alla luce delle linee guida dell’ospedale valevoli nella specie (che l’imputato avrebbe “formalmente rispettato”), l’attività diagnostica posta in essere, consistita nell’esecuzione dell’esame ispettivo con lo speculum (che non avrebbe dato esiti particolari), nell’osservazione diretta sulla presenza di liquido nel canale vaginale e nell’espletamento del Prom Test (risultato negativo), nonché nell’ecografia e nel tracciato ecotocografico, il tutto risultato negativo”. Tanto sarebbe bastato, per la Corte distrettuale, per escludere la responsabilità del ginecologo, “sebbene la stessa Corte ambrosiana ammetta che la lettura del tracciato fu errata e che, nelle condizioni date, sarebbe stato opportuno trattenere in osservazione la paziente”. Eppure, censura la Cassazione, su questi ed altri aspetti (tra i quali, ad esempio, quello della scarsa affidabilità del Prom test se eseguito a distanza di tempo dalle perdite), ai quali il Tribunale varesino aveva prestato molta attenzione, “la Corte di merito dedica poche righe conclusive, per concludere apoditticamente che sarebbe, sì, stata opportuna una rivalutazione della situazione della paziente entro le 24 ore, ma la mancata attuazione di tale condotta non può comportare di per sé la condanna per il ginecologo”.

La Suprema Corte rammenta, a fronte di tale “succinto percorso argomentativo”, che il giudice d’appello che riformi in senso assolutorio la sentenza di condanna di primo grado “non ha l’obbligo di rinnovare l’istruzione dibattimentale mediante l’esame dei soggetti che hanno reso dichiarazioni ritenute decisive, ma deve offrire una motivazione puntuale e adeguata, che fornisca una razionale giustificazione della difforme conclusione adottata, anche riassumendo, se necessario, la prova dichiarativa decisiva. E’ di tutta evidenza che la motivazione della sentenza impugnata, che trascura una pluralità di argomenti sui quali il giudice di primo grado aveva basato il proprio convincimento di colpevolezza, risulta carente alla luce di questi principio”.

Ma il ricorso risulta centrato anche su altri profili, proseguono gli Ermellini, a cominciare da quello dell’elemento oggettivo del reato dove pure “vi é carenza di motivazione della sentenza impugnata anche con riguardo al punto concernente il nesso causale tra le condotte omissive del ginecologo e l’evento, che la Corte ambrosiana affronta succintamente – e in termini incerti -, con particolare riguardo alla rilevanza eziologica del mancato mantenimento o trattenimento della paziente in osservazione: rilevanza di cui la Corte di merito dubita, concludendo per l’assoluzione, senza però fornire una chiara e logica spiegazione di siffatto convincimento”.

In realtà, la sentenza di primo grado aveva ben chiarito (sulla base di elementi probatori non contestati in dibattimento) che il trattenimento prudenziale della partoriente in ambiente ospedaliero, a seguito delle abbondanti perdite che l’avevano indotta a recarsi in ospedale e soprattutto delle anomalie riscontrabili nel tracciato cardiotocografico (di cui l’imputato, si rammenta, aveva fornito una lettura errata), “avrebbe consentito ai sanitari di verificare la rottura del sacco amniotico – verificatasi nei giorni immediatamente successivi alla prima visita – in ambiente protetto: ciò che avrebbe ridotto a zero il rischio di morte del feto per prolasso del funicolo”.

Questo giudizio controfattuale, che era stato correttamente sviluppato dal Tribunale nella sentenza di primo grado, “rende evidente che le valutazioni perplesse a conclusione della sentenza impugnata presentano, quanto meno, una lacuna logica – sottolinea la Cassazione –, non essendosi la Corte di merito misurata con un chiaro – e potenzialmente decisivo – elemento valutativo su ciò che sarebbe accaduto, certamente con elevata probabilità non solo statistica ma anche logica, se il medico avesse tenuto un comportamento commisurato, in via prudenziale, alle evidenti peculiarità del caso concreto”: nel reato colposo omissivo improprio, infatti, ricordano i giudici del Palazzaccio, “il rapporto di causalità tra omissione ed evento deve essere verificato alla stregua di un giudizio di alta probabilità logica, che a sua volta deve essere fondato, oltre che su un ragionamento di deduzione logica basato sulle generalizzazioni scientifiche, anche su un giudizio di tipo induttivo elaborato sull’analisi della caratterizzazione del fatto storico e sulle particolarità del caso concreto”.

 

Il “formale” rispetto delle linee guida non basta per escludere la responsabilità del medico

Ed è qui che la Suprema Corte ribadisce che “il formale rispetto delle linee guida vigenti presso il nosocomio non poteva (e non può) considerarsi esaustivo ai fini dell’esclusione della responsabilità del ginecologo: ciò in quanto le linee guida, lungi dall’atteggiarsi come regole di cautela a carattere normativo, costituiscono invece raccomandazioni di massima che non sollevano il sanitario dal dovere di verificarne la praticabilità e l’adattabilità nel singolo caso concreto. (…) Il rispetto delle “linee guida” non può essere univocamente assunto quale parametro di riferimento della legittimità e di valutazione della condotta del medico; e quindi nulla può aggiungere o togliere al diritto del malato di ottenere le prestazioni mediche più appropriate né all’autonomia ed alla responsabilità del medico nella cura del paziente”. Pertanto, “non può dirsi esclusa la responsabilità colposa del medico in riguardo all’evento lesivo occorso al paziente per il solo fatto che abbia rispettato le linee guida, comunque elaborate, avendo il dovere di curare utilizzando i presidi diagnostici e terapeutici di cui al tempo la scienza medica dispone”.

Di più, la Cassazione, ad ulteriore chiarimento della nozione di linee guida da tenere presente nel caso di specie, ricorda che “anche nella recente legge n. 24/2017 (la cosiddetta legge Gelli-Bianco), pur non applicabile al caso di specie ratione temporis, il recepimento delle linee guida in appositi elenchi regolamentati e aggiornati mediante decreti ministeriali non ne ha mutato la natura e la finalità: l’art. 5, comma 1, della legge obbliga infatti gli esercenti le professioni sanitarie – nell’esecuzione delle prestazioni sanitarie con finalità preventive, diagnostiche, terapeutiche, palliative, riabilitative e di medicina legale – ad attenersi alle raccomandazioni previste dalle linee guida (pubblicate ai sensi del successivo comma 3), salve le specificità del caso concreto; e lo stesso articolo 6 della legge prevede l’esclusione della punibilità nel caso in cui l’evento si sia verificato a causa di imperizia quando sono rispettate le raccomandazioni previste dalle linee guida sempreché queste risultino adeguate alle specificità del caso concreto.

 

Nello specifico la condotta del ginecologo è risultata negligente, imprudente e imperita

Nel caso di specie, appare evidente che la Corte distrettuale “ha completamente omesso di verificare se, rispetto alle peculiarità del caso concreto, il rispetto delle linee guida fosse bastevole o richiedesse, invece, un approfondimento delle condizioni della paziente, mantenendola per qualche tempo in ambiente ospedaliero” conclude la Cassazione, aggiungendo anche che la Corte ambrosiana “ha altresì omesso ogni indagine in ordine all’elemento soggettivo del reato ascritto all’imputato, la cui condotta colposa é stata esclusa dalla Corte di merito senza in alcun modo soffermarsi né sulla configurabilità o meno di profili di negligenza, imprudenza o imperizia incidenti sul corso dell’evento (laddove gli si ascrivono condotte nelle quali sembrano sovrapporsi sia profili di negligenza – in termini di non effettuazione di esami che era necessario od opportuno eseguire -, sia profili di imprudenza – nell’aver disposto la dimissione della paziente pur essendo consigliabile il suo monitoraggio ospedaliero -, sia profili di imperizia – nell’errata lettura dell’esame cardiotocografico), né tanto meno sul grado della colpa a lui eventualmente ascrivibile”.

Dunque, in ragione delle plurime lacune logiche nel suo percorso argomentativo, la sentenza impugnata è stata cassata, con rinvio alla Corte d’Appello di Milano.

Scritto da:

Dott. Nicola De Rossi

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Categoria:

Blog Malasanità

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