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Com’è ben noto il paziente, attraverso il consenso informato, va reso edotto dei rischi a cui può andare incontro sottoponendosi a un determinato intervento e delle possibili alternative e, laddove il medico ometta questa fondamentale informazione, può chiedere i danni ed essere risarcito.

Tuttavia, va dimostrato che, nel caso in cui il paziente fosse stato correttamente informato, egli avrebbe optato per una scelta terapeutica o per una tecnica operatoria diversa. Lo ha chiarito e ribadito la Cassazione, con la sentenza n. 1936/23, depositata il 23 gennaio 2023, giudicando su un caso emblematico sul genere.

Un paziente cita in causa un policlinico per le gravi complicanze di un intervento chirurgico

Un paziente aveva citato in giudizio il Policlinico di Monza chiedendone la condanna al risarcimento del danno patito in conseguenza dell’esecuzione, nel maggio del 2009, di un intervento chirurgico di rimozione di un aneurisma all’aorta addominale. Dopo l’intervento si era infatti verificata una fibrosi massiva aderenziale con occlusione intestinale che aveva reso necessaria l’asportazione di un tratto dell’intestino, con gravi conseguenze permanenti: necessità di terapia parenterale continua domiciliare, presenza di una breccia addominale con esposizione intestinale e di una fistola enterica.

Il tribunale di Monza con ordinanza ex articolo 702 bis del codice di procedure civile del 2018 aveva accolto la domanda e condannato la struttura ad un risarcimento di 700mila euro. Il giudice aveva fondato la sua decisione sulla base di una consulenza tecnica d’ufficio, la quale aveva accertato che le complicanze, benché rare e imprevedibili, erano dipese dalla tecnica operatoria obsoleta applicata al trattamento dell’aneurisma. Se infatti l’intervento fosse stato eseguito con tecnica endovascolare (cosiddetta “Evar”), anziché con la tecnica effettivamente utilizzata (la “Open”), le complicanze sarebbero state con certezza evitate.

 

Il paziente non era stato informato dell’esistenza di un’altra tecnica

La sentenza era stata appellata dal Policlinico ma la Corte d’Appello di Milano, con sentenza del 2019, aveva rigettato il gravame confermando la decisione di primo grado. I giudici di seconde cure avevano evidenziato come l’aneurisma dell’ernia addominale potesse essere eliminato sia “dall’esterno” del vaso sanguigno, sostituendo il tessuto malato (con la tecnica “Open”), sia dall’interno del vaso sanguigno, inserendovi una endoprotesi tubolare che, espandendosi, rimpiazza la parete vascolare malata (tecnica endovascolare o “Evar”).

Nel caso di specie il chirurgo aveva optato per la prima, senza però informare il paziente dell’esistenza dell’altra. L’intervento, aveva concluso la Corte, aveva avuto conseguenze drammatiche per il paziente non perché malamente eseguito, ma perché in seguito a esso si verificò per cause naturali ed imprevedibili una massiva fibrosi delle anse intestinali, che aderirono tra loro e provocarono un’occlusione dell’intestino: se l’intervento di rimozione dell’aneurisma fosse stato  invece eseguito con tecnica “Evar” la fibrosi non si sarebbe verificata.

Non è stato provato che il paziente avrebbe scelto l’alternativa

Il Policlinico di Monza, tuttavia, ha proposto ricorso anche per Cassazione evidenziando come fosse stato accertato che per il paziente era necessario sottoporsi all’intervento e che questo era stato eseguito diligentemente: la colpa imputata al chirurgo non sarebbe consistita nell‘imperita esecuzione della rimozione dell’aneurisma, ma nel non avere informato il paziente che esisteva un’altra tecnica operatoria. Secondo la tesi del ricorrente, tuttavia, la mancata informazione dell’esistenza di questa alternativa non poteva ritenersi “causa” del danno, perché la scelta e l’esecuzione della tecnica Open non sarebbe stata di per sé colposa. Infatti, a quanto sostenuto dal Policlinico, il paziente, anche se informato, non l’avrebbe scelta, dal momento che il chirurgo cui si era rivolto era un esperto della tecnica Open.

Per la Suprema corte la censura è fondata avendo la sentenza impugnata violato, secondo gli Ermellini, i princìpi stabiliti dalla Cassazione in materia di nesso causale tra condotta colposa ed evento di danno (e cioè la cosiddetta “causalità materiale”).

La Corte d’appello infatti, come detto, aveva ritenuto che si era formato il giudicato interno sulla correttezza della tecnica chirurgica prescelta, aveva ammesso che le complicanze seguite all’intervento erano imprevedibili, e aveva ritenuto tuttavia che il medico fosse lo stesso in colpa, per non avere prospettato al paziente l’esistenza d’una tecnica operatoria alternativa. Dunque, aveva ritenuto che l’unica condotta colposa ascrivibile al medico fosse l’omessa informazione del paziente sulle alternative terapeutiche.

 

In caso di omessa informazione per condannare l’ospedale occorre il “giudizio controfattuale”

Ma se l’omessa informazione era l’unica condotta colposa tenuta dal medico, per condannare la struttura sanitaria al risarcimento del danno sarebbe stato necessario accertare l’esistenza d’un valido nesso di causa tra la suddetta omissione e il danno – spiega la Cassazione, chiarendo poi meglio la sua argomentazione.

Per affermare che l’omessa informazione fu causa materiale dell’evento di danno la Corte d’appello avrebbe dovuto ricostruire il nesso di condizionamento tra l’omessa informazione e l’evento di danno con un giudizio controfattuale”: vale a dire, ipotizzando cosa sarebbe accaduto se il medico avesse compiuto l’azione che invece era mancata.

Andrà accertato se il paziente, laddove informato, avrebbe optato per la tecnica alternativa

Nel caso specifico, dunque, il giudice di merito avrebbe dovuto accertare, con giudizio di probabilità logica, “quali scelte avrebbe compiuto il paziente, se fosse stato correttamente informato della possibilità di scegliere tra tecnica “Open” e la tecnica “Evar”, giudizio che invece è stato omesso dalla Corte d’appello, la quale si era limitata ad affermare che la seconda avrebbe evitato l’evento, e che di conseguenza la condotta omissiva del medico fu causa del danno.

In questo modo – concludono i giudici del Palazzaccio – è mancato nella sentenza impugnata l’accertamento della causalità della colpa, ossia dello specifico nesso causale tra la violazione della regola cautelare e l’evento dannoso”. Di qui la cassazione della stessa sentenza con rinvio alla Corte d’Appello di Milano, in diversa composizione, la quale dovrà per l’appunto accertare con giudizio controfattuale “se possa ritenersi plausibile, in base al criterio della preponderanza dell’evidenza, che un’esaustiva informazione del paziente avrebbe indotto quest’ultimo a pretendere che l’intervento avvenisse con tecnica Evar

Scritto da:

Dott. Nicola De Rossi

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Categoria:

Malasanità

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