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Nel caso di nascita indesiderata che sia frutto un comprovato errore medico, i sanitari e la struttura ospedaliera sono tenuti a risarcire i genitori, anche se il bambino venuto alla luce è perfettamente sano.

La Cassazione, con la sentenza n. 22523/22 depositata il 18 luglio 2022, si è occupata di uno dei non rari casi sul genere, ma la sua particolarità sta nel fatto che qui ad essere in discussione non è stata una nascita per così dire “problematica”, quella cioè di un piccolo con gravi patologie o menomazioni sfuggite durante i controlli ecografici, ma semplicemente la scelta di una coppia, che di figli ne aveva già avuti ben cinque, di non metterne al modo altri. Il risultato però non cambia, la nascita indesiderata “colpevole” va comunque sempre risarcita. 

Coppia di genitori chiede i danni a medici e Ale per la nascita indesiderata del loro sesto figlio

Il contenzioso in questione si origina ben 15 anni fa. Nel 2007 due genitori, in proprio e per conto dei loro tre figli minori, più gli altri tre loro figli maggiorenni avevano citato in giudizio innanzi al Tribunale di Agrigento l’Azienda Sanitaria Provinciale agrigentina e due medici in forza alla stessa chiedendo il risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali causati dall’insuccesso dell’intervento delle tube a cui si era sottoposta la signora nell’ospedale cittadino in occasione del parto del quinto figlio: un insuccesso che aveva determinato la nascita indesiderata della ultimogenita della coppia. I due genitori avevano lamentato, in particolare, la lesione del diritto alla procreazione cosciente e responsabile, la violazione del diritto al consenso informato e la mancata informazione circa le indicazioni da seguire e le indagini post operatorie da effettuare. 

Sotto accusa l’insuccesso di un intervento alle tube

Dopo aver istruita la causa attraverso una consulenza tecnica, con la sentenza del 2014 i giudici avevano tuttavia  rigettato la domanda, sostenendo che la mancata riuscita dell’intervento di legatura delle tube non era stata determinata da una condotta imperita, imprudente e negligente dei sanitari convenuti, ma piuttosto, come ritenuto dal Ctu, dal fenomeno, assolutamente asintomatico, della “fistolizzazione tuboperitoneale”, complicanza statisticamente improbabile ma non impossibile. Alla legatura delle tube, nel caso di utilizzo della tecnica “post partum” alla quale si era sottoposta la paziente, era infatti correlata una probabilità di fallimento bassissima, pari allo 0,75%. 

 

Responsabilità medica accertata 

La Corte d’appello di Palermo, con sentenza del 2019, aveva invece ha riformato la pronuncia di primo grado, ritenendo al contrario sussistente la responsabilità dei sanitari per l’inesatta esecuzione dell’intervento, sulla scorta delle conclusioni della nuova consulenza tecnica disposta nel corso del giudizio di secondo grado, e aveva quindi condannato Asl e medici a risarcire, in solido tra loro, ai due genitori e ai tre figli maggiorenni il danno patrimoniale subito a causa della nascita indesiderata della sesta figlia. 

Per i giudici di secondo grado, in assenza di alcuna plausibile spiegazione alternativa, era “più probabile che non” che la legatura e la sezione della tuba di sinistra (la quale, nella cartella clinica del parto dell’ultima figlia, successivo all’intervento oggetto di causa, veniva descritta dai medici come “ricanalizzata”) non fossero state effettuate secondo i canoni di diligenza richiesti. 

I consulenti tecnici d’ufficio avevano infatti disatteso la tesi, sostenuta dal Ctu di prime cure e dai consulenti delle parti citate in giudizio, della fistolizzazione tuboperitoneale di uno dci due monconi della tuba sinistra in quanto, dalla descrizione effettuata dai medici che avevano seguito l’ultimo parto, emergeva che entrambi i capi della tuba si presentavano perfettamente riaccollati, e inoltre una simile fistolizzazione non sarebbe stata sufficiente a permettere il ripristino del passaggio degli spermatozoi dell’uovo fecondato per l’impianto in cavità uterina. 

Secondo i giudici, inoltre, la mancata descrizione nella cartella clinica dell’intervento di legatura delle tube non avrebbe potuto costituire un argomento per desumere la corretta esecuzione della stessa prestazione e concludere per il verificarsi di un’ipotesi di incolpevole fallimento della metodica adottata. 

Il pieno ripristino del canale della tuba si sarebbe necessariamente determinato, pertanto, non solo a causa della mancata asportazione di una sufficiente quantità di tessuto tubarico, tale da distanziare opportunamente i capi, ma anche a causa di una legatura sui capi tubarici non costretta legge artis. 

La Corte aveva inoltre ritenuto che i due medici, entrambi componenti l‘équipe operatoria che aveva sottoposto la donna all’intervento chirurgico, dovessero rispondere in eguale misura dell’errata esecuzione dell’operazione di legature delle tube. Non solo la capo équipe ma anche il suo “secondo” in quanto, in qualità di aiuto, aveva avuto un ruolo attivo nell’intervento, potendo rendersi ben onto che l’insufficiente porzione di tessuto compresa nella legatura avrebbe potuto determinare il rischio di una ricanalizzazione. Pertanto, anch’egli non avrebbe potuto andare esente da responsabilità, in base al principio di controllo reciproco affermato in relazione al lavoro di équipe, secondo cui l’obbligo di diligenza che grava su ciascun componente dell’équipe medica concerne non solo le specifiche mansioni a lui affidate ma anche il controllo sull’operato e sugli errori altrui che siano evidenti e non settoriali. 

 

La Suprema Corte conferma gli errori commessi durante l’operazione “incriminata”

Contro la sentenza di secondo grado hanno quindi proposto distinti ricorsi per cassazione sia il medico a capo dell’équipe, una donna, sia la moglie dell’aiuto quale sua erede, essendo questi deceduto in corso di causa. Quest’ultima, tra i vari aspetti, ha battuto sulla copertura assicurativa della polizia stipulata per la responsabilità medica e sul contrasto tra le conclusioni a cui erano pervenuti i consulenti tecnici nei due precedenti gradi di giudizio, sostenendo ovviamente la bontà della perizia favorevole realizzata nel corso del primo grado di giudizio e gli elementi evidenziati dal propri consulenti tecnici di parte. Motivo di doglianza, questo, ritenuto inammissibile dalla Suprema Corte in quanto si risolveva nella realtà dei fatti nella solita, mera prospettazione di un nuovo sindacato di merito, inammissibile in sede di legittimità. 

Anche la capo équipe  si è lamentata del fatto che la decisione della Corte d’appello avesse ancorato l’accertamento della responsabilità professionale dei sanitari alle conclusioni rassegnate dai Ctu da esse stessa nominati, in contrasto rispetto alle valutazioni del Ctu di primo grado, senza adeguatamente motivare le ragioni della preferenza delle prime. 

Secondo la ricorrente, la sentenza impugnata sarebbe contraddittoria perché, da un lato, riterrebbe possibile desumere, dalla tecnica utilizzata per la legatura della tuba destra, quella utilizzata per la tuba sinistra (che successivamente appariva ricanalizzata); dall’altro, non riterrebbe possibile valorizzare lo stesso elemento probatorio (cioè la condizione della tuba destra) per dedurne la corretta esecuzione dell’intervento sulla tuba sinistra e quindi ritenere che nel caso di specie si sia verificata una di quelle rare ipotesi di fallimento incolpevole della metodica, pur previste nella letteratura. 

Dall’esecuzione della legatura secondo la medesima tecnica operatoria su entrambe le tube, nello stesso contesto temporale e per mano dello stesso operatore, emergerebbe invece, secondo la tesi difensiva, che l’intervento sulla tuba sinistra non poteva che aver avuto modalità esecutive del rutto sovrapponibili rispetto a quelle dell’intervento sulla tuba destra e, quindi, la successiva gravidanza non poteva dipendere che da un processo di fistolizzazione, contemplato dalla letteratura quale presupposto dei casi di fallimento, come sostenuto dal primo Ctu. Secondo la dottoressa, la tesi dei consulenti tecnici d’ufficio nominati in appello, secondo cui la fistolizzazione non sarebbe sufficiente a consentire la fecondazione, finirebbe per negare l’esistenza di un margine di insuccesso ineliminabile negli interventi di legatura delle tube, pure non contestato in astratto. 

La Corte d’appello avrebbe inoltre travisato il contenuto del referto ospedaliero redatto dai sanitari che avevano assistito la paziente in occasione dell’ultima gravidanza, nel quale si sarebbe solo dato atto che la tuba sinistra risultava ricanalizzata, senza specificare che i capi si presentavano riaccollati o che non risultavano segni di legatura o di recisione della tuba, come invece riportato dai Ctu e ripreso dalla sentenza. 

Ma anche questo specifico motivo di ricorso per la Cassazione risulta inammissibile, per le medesime ragioni indicate in relazione al ricorso della moglie del collega. Anche in questo caso, infatti, “la censura consiste in un’analisi critica delle valutazioni scientifiche effettuate dal consulente tecnico, senza che tuttavia venga indicato se, e in quale sede, tali critiche siano state sollevate dalla difesa nel corso del giudizio di appello” conclude la Suprema Corte, secondo la quale “la motivazione della sentenza impugnata risulta esente dai lamentati vizi logici, posto che sostenere che l’intervento sia stato eseguito con la medesima modalità tecnica per entrambe le tube (come afferma la sentenza di appello facendo proprio il ragionamento presuntivo dei consulenti di ufficio) non implica necessariamente riconoscere che esso sia stato correttamente eseguito da ambo i lati”. E infine, “non essendo trascritto per intero il referto ospedaliero redatto dai medici in occasione del parto successivo al fallito intervento di sterilizzazione, non è consentito a questa Corte di verificare la fondatezza delle censure sollevate da parte ricorrente circa l’effettivo contenuto del medesimo referto”. Dunque, condanna al risarcimento confermata.

Scritto da:

Dott. Nicola De Rossi

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Categoria:

Malasanità

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