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Il chirurgo che ha causato una grave lesione a una paziente durante un intervento, e che è stato condannato al risarcimento del danno, non può accampare a sua discolpa “fattori di incremento delle difficoltà tecniche” che in realtà erano già ben noti al momento dell’operazione.

La Cassazione, terza sezione Civile, con l’ordinanza n. 4277/24 depositata il 16 febbraio 2024, ha così confermato la responsabilità del sanitario e la sua condanna a risarcire la danneggiata.

 

Chirurgo condannato a risarcire una paziente per averle causato gravi lesioni con un intervento

La Corte d’appello di Roma, peraltro confermando integralmente la sentenza di primo grado del Tribunale capitolino, con pronunciamento del 2020 aveva rigettato l’appello proposto da un chirurgo che era stato condannato, in solido con l’ospedale per il quale operava, a risarcire una paziente con una somma complessiva di quasi duecentomila euro per i danni subiti in seguito a un intervento di cistopessi per cistocele che il medico aveva eseguito nel 2006, provocando alla donna una lesione iatrogena dell’uretere, per la quale la malcapitata si era poi dovuta sottoporre ad altri successivi interventi non risolutivi, da cui erano derivati ulteriori postumi di condizione renale ipofunzionale, disturbi all’alvo con stipsi e stato ansioso-depressivo, con conseguenze dannose tutte risarcibili.

 

Il medico ricorre per Cassazione adducendo sopraggiunti fattori di incremento delle difficoltà

Il sanitario tuttavia ha proposto ricorso anche per Cassazione, sostenendo in particolare che la Corte territoriale non avrebbe tenuto in debito conto dei rilievi operati dai consulenti tecnici d’ufficio circa la sussistenza di fattori di incremento della difficoltà tecnica dell’intervento chirurgico, che sarebbero stati ben presenti e rappresentati, con particolare riferimento all’alto grado del cistorettocele di cui la paziente era portatrice, al suo stato di sovrappeso, alla circostanza che aveva subito tre tagli cesarei e all’isterectomia riferita in anamnesi.

Inoltre, tra le varie doglianze, asseriva anche che la sua colpa non sarebbe sussistita in alcun modo, avendo egli osservato le linee guida, e che non poteva essere esclusa una presenza della lesione originaria, cioè già prima dell’intervento.

La Suprema Corte rigetta le doglianze sposando in pieno le conclusioni dei giudici di merito

Ma la Suprema Corte ha rigettato n toto la doglianza osservando innanzitutto come la Corte d’appello avesse posto a fondamento del giudizio di responsabilità del chirurgo proprio le risultanze della consulenza tecnica d’ufficio medico legale che aveva accertato, per l’appunto, come, durante l’operazione di cistopessi, fosse stata cagionata alla paziente una lesione iatrogena dell’uretere di tipo indiretto, in quanto la tecnica chirurgica non prevedeva alcuna manovra su quest’organo.

La Ctu aveva altresì rilevato come, nonostante la donna fosse stata subito trasferita in un reparto urologico specializzato per i trattamenti chirurgici resisi necessari in seguito alla lesione riportata, questi trattamenti successivi non solo non erano stati risolutivi, ma anzi le avevano causato ulteriori complicanze, e che le erano residuati postumi (ipofunzionalità renale, problemi all’alvo con stipsi e sindrome depressiva) che non si sarebbero dovuti verificare qualora il primo trattamento chirurgico fosse stato correttamente eseguito e le cui conseguenze dannose – specie di natura non patrimoniale, avuto riguardo al pesante grado di inabilità accertato – andavano risarcite.

Viene dunque in considerazione – spiegano gli Ermellini – un giudizio di merito diretto ad apprezzare l’inesatto inadempimento da parte del chirurgo alla propria obbligazione professionale, giudizio motivatamente formulato sulla base di rilievi tecnici ritualmente assunti mediante consulenza medico-legale e non inficiato da incongruenze e contraddizioni, non riscontrabili né in ordine alla natura della lesione, né alle sue conseguenze”.

 

La tecnica adottata era conforme alle linee guida ma non comportava manovre sull’organo leso

Quanto poi alla asserita osservazione da parte del dottore delle linee guida, la Cassazione sottolinea come “non rileva l’astratta conformità della tecnica adottata alle linee guida: la sentenza impugnata, infatti, in base alle risultanze peritali, ha espresso sulla condotta sanitaria un giudizio non solo di imperizia ma anche di negligenza, stante la rilevata indebita incisione dell’uretere nell’ambito di una tecnica chirurgica che non prevedeva manovre dirette su tale organo”.

Nessuna difficoltà sopraggiunta, le condizioni della paziente erano note prima dell’operazione

E inoltre, la Suprema corte, circa i presunti, aumentati coefficienti di difficoltà dell’intervento, rimarca come, sempre alla luce dei rilievi peritali, il chirurgo non avesse in realtà descritto alcuna sopraggiunta difficoltà tecnica, e che al contrario “le condizioni della paziente erano ben presenti già prima dell’esecuzione dell’operazione”: dunque, nessun imprevisto.

Per la cronaca, i giudici del Palazzaccio hanno rigettato anche gli altri motivi di ricorso del medico, secondo il quale era stata immotivatamente esclusa ogni corresponsabilità dei colleghi che avevano curato la paziente successivamente. “I successivi interventi a cui la paziente si era dovuta sottoporre – asserisce la Cassazione -, lungi dall’integrare cause sopravvenute da sole sufficienti a determinare l’evento dannoso, costituivano, a loro volta, eventi pregiudizievoli da esso innescato e, pur avendo determinato ulteriori complicanze, non avevano reciso il legame causale del primo intervento con i postumi finali e le connesse conseguenze risarcibili”.

Idem la contestazione relativa alla quantificazione – a dire del ricorrente – troppo eccessiva del risarcimento dovuto alla danneggiata, a cui era stata riscontrata una inabilità permanente del trenta per cento: una liquidazione che la Suprema Corte ha riconfermato in toto.

Scritto da:

Dott. Nicola De Rossi

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Categoria:

Malasanità

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