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Anche l’omessa o ritardata diagnosi, laddove ovviamente provata, rappresenta una grave fattispecie di malpractice medica soprattutto se si tratta di patologie serie come quelle tumorali: un tumore non preso in tempo può segnare il destino del paziente e quindi il medico che ha commesso l’omissione deve risponderne.

Dell’ennesimo e tragico caso sul genere si è occupata la Cassazione con l’ordinanza n. 16874/22 depositata il 25 maggio 2022.

Una paziente cita la ginecologa per la mancata diagnosi di un tumore

Una donna aveva citato in giudizio, avanti il tribunale di Roma, la sua ginecologa e l’ospedale San Carlo di Nancy chiedendone, previo accertamento della responsabilità professionale della dottoressa per ritardo diagnostico, la condanna al risarcimento dei danni sofferti. La paziente infatti nel gennaio 2006 si era sottoposta ad una visita dal medico chiamato in causa, la quale aveva omesso di prescriverle ulteriori accertamenti, nonostante dalle recenti ecografie portatele in visione risultasse già la sospetta esistenza di una patologia tumorale.

Durante il processo, la donna era venuta a mancare a causa del male e quindi si erano costituiti in sua vece i suoi familiari insistendo per l’accoglimento della domanda risarcitoria. Il giudizio era poi stato interrotto nei confronti dell’ospedale, posto in procedura concorsuale di amministrazione straordinaria, ed era proseguito nei soli confronti della dottoressa, e alla fine i giudici avevano accolto la richiesta risarcitoria condannando la professionista al risarcimento dei danni liquidati nella somma di 65.874 euro, oltre rivalutazione e interessi e con il carico delle spese di lite. La ginecologa aveva appellato la sentenza ma la Corte d’appello capitolina, con sentenza del dicembre 2019, aveva respinto il gravame.

Il medico tuttavia ha proposto ricorso anche per Cassazione lamentando in particolare la mancata rinnovazione della consulenza tecnica d’ufficio: secondo la ricorrente la Corte d’appello, “appiattendosi” in modo acritico sulle posizioni del consulente tecnico d’ufficio nominato in primo grado, non avrebbe illustrato le ragioni per le quali aveva rifiutato di procedere al rinnovo della consulenza, così come ella aveva richiesto. A suo dire il rinnovo era da ritenere doveroso, anche perché i dati risultanti dalle ecografie prodotte dalla paziente non avrebbero dimostravano affatto che la patologia tumorale fosse già molto avanzata in occasione della visita del gennaio 2006. Nel ricorso inoltre si contestava la sentenza impugnata anche laddove aveva considerato errato l’intervento effettuato dalla ricorrente, nel maggio 2006, in laparoscopia anziché in laparotomia.

Per la Suprema Corte tuttavia la doglianza è inammissibile. Secondo gli Ermellini, infatti, la sentenza d’appello non si era limitata a recepire le conclusioni del Ctu, ma aveva anche dato conto del perché le diverse conclusioni della parte appellante non erano meritevoli di accoglimento, ritenendo quindi non necessario il rinnovo della consulenza tecnica.

 

Un tempestivo intervento diagnostico avrebbe salvato la vita alla paziente

Una conclusione a cui, osserva la Cassazione, la Corte di merito era pervenuta richiamando anche un ampio passaggio della consulente tecnica, la quale aveva posto in luce le ragioni per le quali, essendo il tumore allo stadio III C nel maggio 2006, ciò lasciava presupporre che lo stesso dovesse essere almeno allo stadio II nel momento della visita, cioè il gennaio 2006.

Ragion per cui, spiega la Suprema Corte, “un tempestivo intervento diagnostico della ginecologa avrebbe potuto garantire alla paziente una vita più lunga e in condizioni migliori”.

Dunque, ricorso respinto e condanna al risarcimento confermata.

Scritto da:

Dott. Nicola De Rossi

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Categoria:

Malasanità

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