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Non è affatto infrequente, anzi, che il titolare di fatto di un’attività in caso di infortunio di un dipendente cerchi di evitare la condanna obiettando di non esserne il legale rappresentante.

Ma la Cassazione sul punto è chiara e lo ha riaffermato nella sentenza n. 14196/21 depositata il 15 aprile 2021: in caso di incidenti, la responsabilità penale grava anche su chi esercita in concreto i poteri giuridici riferiti al datore di lavoro, anche se sprovvisto di “regolare investitura”.

 

Un ristoratore condannato per un incidente occorso a una dipendente

La vicenda. Con sentenza del 19 marzo 2019 il Tribunale di Taranto, in composizione monocratica, quale giudice di appello, aveva confermato la sentenza con cui nel 2017 il Giudice di Pace di Manduria aveva condannato un ristoratore alle pena di 600 euro di multa, oltre al pagamento delle spese processuali e di lite sopportate dalla parte civile nonché, soprattutto, al risarcimento dei danni fisici e morali subiti da una dipendente dell’esercizio. I giudici lo avevano ritenuto colpevole del reato di cui all’art. 590 cod. pen., cioè lesioni colpose personali gravi, poiché nel 2013, in qualità appunto di gestore del ristorante, per colpa generica, consistita in negligenza, imprudenza e imperizia, aveva consentito che altri lasciassero per terra tra i tavoli una rete da pesca, così omettendo di adottare le cautele necessarie per preservare l’incolumità dei clienti e del personale. Una cameriera era inciampata su quella “insidia”  cadendo rovinosamente al suolo e procurandosi la frattura articolare scomposta del capitello radiale destro, per una prognosi di oltre trenta giorni.

Il ristoratore ha quindi proposto ricorso per Cassazione contestando l’erronea applicazione dell’art. 590 cod. pen. con riferimento alla non corretta individuazione del soggetto attivo del reato colposo in una società in accomandita semplice, come quella in questione. La tesi sostenuta è che il giudice di appello avesse individuato erroneamente il soggetto responsabile del reato nel presunto gestore di fatto dell’attività di ristorazione della società in questione, motivando quest’assunto sulla base della sola dichiarazione resa da una sua figlia, non in epoca coeva ai fatti di causa, ma risalente al lontano 2011.

 

Il ricorrente obietta che la legale rappresentante dell’attività era la figlia

E, soprattutto, il ricorrente non si spiegava la ragione per cui, sempre lo stesso giudice avrebbe completamente disatteso l’auto-assunzione di responsabilità della figlia quale rappresentante legale del locale, e che peraltro era presente in loco al momento dell’incidente.

Secondo l’imputato,  la questione circa la corretta individuazione del soggetto attivo era già stata già affrontata e risolta dal Giudice monocratico del Tribunale di Taranto, che aveva accolto il principio secondo cui non vi era alcun dubbio circa la penale responsabilità della figlia. A suo dire era irrilevante la circostanza che la gestione di fatto dell’attività di ristorazione competesse a lui, suo padre, dal momento che la figlia, in qualità di datrice di lavoro e in assenza di apposita delega, era in ogni caso tenuta all’osservanza delle norme prevenzionali.

Ma per la Cassazione i motivi sono infondati. E’ fuori discussione, spiegano i giudici del Palazzaccio, che, in casi come questo, la “responsabilità dell’amministratore della società, in ragione della posizione di garanzia assegnatagli dall’ordinamento, non viene meno per il fatto che il ruolo rivestito sia meramente apparente”.

Ma è altrettanto vero, aggiungono, che tale posizione di garanzia “si affianca, e non si sostituisce a quella del titolare apparente”.

In tema di reati omissivi colposi, infatti, “la posizione di garanzia – ribadisce la Suprema Corte – può essere generata non solo da investitura formale, ma anche dall’esercizio di fatto delle funzioni tipiche delle diverse figure di garante, purché l’agente assuma la gestione dello specifico rischio mediante un comportamento concludente consistente nella effettiva presa in carico del bene protetto”.

 

Le funzioni esercitate in concerto prevalgono sulla “carica formale”

In tema di infortuni sul lavoro, proseguono gli Ermellini, “la previsione di cui all’art. 299 D.Lgs. n. 81 del 2008 (rubricata esercizio di fatto di poteri direttivi) per la quale le posizioni di garanzia gravano altresì su colui che, pur sprovvisto di regolare investitura, eserciti in concreto i poteri giuridici riferiti al datore di lavoro e ad altri garanti ivi indicati, ha natura meramente ricognitiva del principio di diritto affermato dalle Sezioni Unite e consolidato, per il quale l’individuazione dei destinatari degli obblighi posti dalle norme sulla prevenzione degli infortuni sul lavoro deve fondarsi non già sulla qualifica rivestita, bensì sulle funzioni in concreto esercitate”, che dunque prevalgono rispetto alla carica attribuita al soggetto, ossia alla sua funzione formale.

Ne deriva che la codificazione della cosiddetta clausola di equivalenza avvenuta con il predetto D.Lgs. n. 81 del 2008 non ha introdotto alcuna modifica in ordine ai criteri di imputazione della responsabilità penale concernente il datore di lavoro di fatto, i quali sono, pertanto, applicabili ai fatti precedenti all’introduzione dell’art. 299 D.Lgs. n. 81 del 2008, senza che ciò comporti alcuna violazione del principio di irretroattività della norma penale (Sez. 4, n. 10704 del 7/2/2012, Corsi, Rv. 252676)” puntualizza ancora la Cassazione.

L’imputato era il gestore di fatto del ristorante

Secondo la Suprema Corte, pertanto, il giudice del gravame ha fatto buon governo di questi principi giuridici di riferimento. Nello specifico, peraltro, gli Ermellini evidenziano come nella sentenza di primo grado la titolarità di fatto della posizione di garanzia in capo al ricorrente emergeva anche dalla testimonianza del maresciallo del carabinieri della locale stazione, che aveva riferito come il ristoratore fosse il gestore di fatto dell’attività, a gestione familiare, e fosse anche sempre presente all’interno dello stesso.

Così come era chiaramente emerso nel corso del dibattimento che in realtà la figlia in quel locale, lasciato quindi alla gestione del padre, vi si recava colo saltuariamente in quanto ne gestiva “fisicamente” un altro con il marito. Dunque, ricorso respinto e condanna confermata.

Scritto da:

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Dott. Nicola De Rossi

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Categoria:

Blog Infortuni sul Lavoro

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