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Com’è ben noto, il datore di lavoro è titolare di una precisa posizione di garanzia per quanto attiene la sicurezza dei dipendenti e quindi gli infortuni, ma come va valutata la responsabilità degli altri amministratori, con particolare riferimento ai componenti del consiglio di amministrazione?

Al riguardo è particolarmente rilevante la sentenza n. 21522/21 depositata il primo giugno 2021 dalla Corte di Cassazione, che in estrema sintesi individua nella “complessità aziendale” il parametro a cui fare riferimento.

 

Datore di lavoro, componenti il Cda e società condannati per un grave incidente a un operaio

Il Tribunale di Busto Arsizio aveva ritenuto responsabili il presidente di una Srl e i due componenti del consiglio di amministrazione del reato di lesioni personali colpose gravissime ai danni di un lavoratore più altri reati e violazioni connessi quali “omissione colposa di cautele o difese contro gli infortuni sul lavoro”, condannando, oltre agli imputati, anche la società in persona del suo legale rappresentante, per l’illecito amministrativo di cui agli artt. 5, comma 1 lett. a) e 25 septies d.lgs. 231/2001.

Con sentenza del 4 marzo 2019 la Corte di Appello di Milano aveva poi sostanzialmente confermato la decisione di primo grado parzialmente riformando e riducendo soltanto la pena per l’imputazione di lesioni personali colpose gravissime.

L’operaio, nel marzo 2014, durante il turno notturno a cui era addetto, mentre era impegnato sulla postazione di un’isola di fusione, era stato colpito alle spalle dalla tazza di caricamento che trasferiva il metallo fuso dal forno alla conchigliatrice, rimanendo incastrato fra questa ed il forno. Il normale funzionamento dell’apparecchiatura comportava che la tazza di caricamento, dopo avere prelevato il metallo fuso dal forno, si spostasse sino alla conchigliatrice, dove versava il metallo fuso nello stampo, per poi tornare indietro, fermandosi a metà corsa, e proseguire verso il forno solo quando il robot, di cui era dotato il macchinario, avesse prelevato il pezzo finito dallo stampo.

Al contrario, nell’occasione, la tazza, anziché arrestarsi, aveva proseguito la corsa, colpendo alle spalle il lavoratore intento a caricare il forno di panetti di alluminio da fondere, spingendolo in questo verso il forno. All’operaio era stato dato l’incarico di operare in contemporaneità anche sull’isola di fusione posta a fianco, per cui doveva occuparsi di caricare il forno e di scaricare i pezzi finiti da entrambi i macchinari.

 

Una componente del Cda obietta di non esercitare funzioni datoriali

Contro la sentenza della Corte territoriale hanno presentato ricorso i tre imputati e, con atto separato, la società. Il motivo che qui preme è quello “separato” inerente la sola posizione di una dei due componenti del Cda, la quale, pur facendo parte del consiglio di amministrazione, svolgeva – secondo la sua tesi difensiva – esclusivamente compiti di natura amministrativa e contabile, non esercitando in concreto funzioni datoriali, né avendo mai assunto alcuna responsabilità dell’organizzazione del lavoro e dell’unità produttiva.

Pertanto, in forza del principio di effettività, che impone di assegnare la posizione di garanzia solo a chi svolga in concreto le funzioni di datore di lavoro, nessuna responsabilità poteva esserle attribuita nella causazione dell’infortunio.

La Suprema Corte chiarisce il “principio dell’effettività”

Ma la Suprema Corte ha rigettato tutti i ricorsi, compreso il motivo che qui preme e con il quale si pretendeva di escludere l’imputata componente del Cda dal novero dei soggetti garanti dell’incolumità dei lavoratori, facendo riferimento alla definizione della figura del datore di lavoro, come delineata dall’art. 2, comma 1 lett. b) d.lgs. 81/2008.

Si sostiene – scrivono i giudici del Palazzaccio nella sentenza – che la disposizione introduca il c.d. principio dell’effettività, in forza del quale può essere definito datore di lavoro solo colui che ha la responsabilità dell’organizzazione dell’impresa o dell’unità produttiva in quanto esercita i poteri decisionali e di spesa. Il che implica, di per sé, che il componente del Consiglio di amministrazione non può essere titolare della posizione di garanzia del datore di lavoro unicamente in forza della carica che ricopre, laddove sia privo di attribuzioni organizzative ed anzi svolga, all’interno dell’azienda, un ruolo meramente amministrativo e contabile”.

La questione, che inerisce all’individuazione della figura su cui gravano gli obblighi del datore di lavoro nelle società di capitali, va risolta, secondo la Corte di legittimità, tenendo in considerazione “la complessità dell’organizzazione“.

“Perché – proseguono gli Ermellini – se, in linea teorica, rivestono la qualifica di datore di lavoro tutti i componenti del consiglio amministratore, che gestisce ed organizza l’attività di impresa, nondimeno, in concreto, nelle realtà più articolate ed in aziende di rilevanti dimensioni, l’individuazione della figura del datore di lavoro può non coincidere con la mera assunzione formale della carica di consigliere, laddove all’interno dell’organo deliberativo siano individuati soggetti cui vengono specificamente assegnati gli obblighi prevenzionistici: nelle società di capitali, gli obblighi inerenti alla prevenzione degli infortuni posti dalla legge a carico del datore di lavoro gravano indistintamente su tutti i componenti del consiglio di amministrazione, salvo il caso di delega, validamente conferita, della posizione di garanzia”.

 

La sentenza Thyssenkrupp

Il tema è stato peraltro approfondito dalla sentenza delle Sezioni Unite Espehnahn-Thyssenkrupp (n. 38343 del 24/04/2014),  cui la Suprema corte rimanda integralmente, ricordando solo che “l’assunzione della veste di garante può derivare dalla formale investitura, dall’esercizio di fatto delle funzioni tipiche della figura o dal trasferimento di poteri e funzioni da parte del soggetto che ne è titolare.

Se, infatti le figure dei garanti hanno una originaria sfera di responsabilità che non ha bisogno di deleghe per essere operante, ma deriva direttamente dall’investitura o dal fatto, la delega, invece, è qualcosa di diverso: essa, nei limiti in cui è consentita dalla legge, opera la traslazione dal delegante al delegato di poteri e responsabilità che sono proprie del delegante medesimo”: Ciò che identifica il datore di lavoro è, dunque, la titolarità del potere decisionale sull’impresa e del potere di spesa, cui corrisponde l’obbligo prevenzionistico derivante dallo stesso esercizio dell’impresa.

E’ proprio l’art. 2, comma 1, lett. b) del d.lgs. 81/2008 a stabilire il legame fra l’obbligo prevenzionistico ed il soggetto titolare della responsabilità decisionale, organizzativa e di spesa dell’impresa. Ed è la stessa disposizione che chiarisce come un simile rapporto derivi dal tipo di assetto organizzativo in cui il lavoratore presta la propria attività, modulando la figura di datore di lavoro non solo sulla titolarità dell’impresa e del rapporto di lavoro, ma sulla sua gestione attraverso l’esercizio dei poteri decisionali e di spesa.

 

Nelle imprese di grandi dimensioni la ripartizione delle attribuzioni è legittima

Nell’ambito di complesse organizzazioni imprenditoriali, in forma societaria, secondo la Suprema corte, ciò legittima la distinzione fra ambiti gestori diversi derivanti dalla modulazione delle attribuzioni fra componenti del consiglio di amministrazione. “L’estesa articolazione dell’organizzazione giustifica la ripartizione delle attribuzioni, in quanto funzionale al raggiungimento degli scopi dell’impresa.

La forma può essere analoga a quella della delega di funzioni, ma anche implicita nell’incarico attribuito, consistente nel conferimento ad uno o più membri dell’organo deliberante di poteri esclusivi propri di quest’ultimo, senza che a ciò corrisponda ad una separazione tra il potere decisionale dell’imprenditore, nella sua forma societaria, e la sua gestione parcellizzata, convalidata dall’effettività del potere decisionale e di spesa conferito”. 

Il limite dell’esonero degli altri componenti del consiglio di amministrazione è delineato dall’obbligo della vigilanza, cui l’organo deliberativo non può in alcun caso sottrarsi, in quanto organo che conferisce un potere proprio

Questa segmentazione del potere gestori non è invece compatibile con le Pmi

Una simile segmentazione dell’esercizio del potere gestorio, al contrario, sottolinea la Cassazione, “non appare compatibile con realtà di piccole e medie dimensioni, la cui scarsa complessità implica l’intrinseca connessione fra la conduzione societaria dell’impresa e la sua semplice organizzazione, che non giustifica un modello di governo che ne disarticoli i poteri ed i correlativi obblighi, in assenza di una funzionalità al raggiungimento dello scopo dell’attività economica.

La frammentazione per ambiti dei poteri decisori e di spesa finirebbe, infatti, con il coincidere con l’esonero alcuni dei componenti del consiglio di amministrazione dagli obblighi prevenzionistici connessi con l’attività di impresa, senza che a ciò corrisponda alcuna effettiva esigenza organizzativa del potere decisionale”.

Del resto, era proprio muovendo da queste premesse che il giudice di primo grado e quello d’appello avevano affermato la responsabilità dell’imputata: “non, dunque, come ritenuto dalla ricorrente, sulla base di una responsabilità oggettiva, inerente alla posizione ricoperta, ma in forza della sua partecipazione all’organo deliberativo, titolare del potere decisionale ed organizzativo dell’impresa e del potere di spesa, che identificano, nel loro riflesso sul rapporto di lavoro, la figura del datore di lavoro, come delineata dal d.lgs. 81/2008” conclude la sentenza, confermando dunque la condanna anche per la componente del Cda.

Scritto da:

Dott. Nicola De Rossi

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Categoria:

Blog Infortuni sul Lavoro

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